Re: La verità e le versioni ufficiali nella storia italiana

Inviato da  benitoche il 11/3/2011 10:29:05
Citazione:

redna ha scritto:
Il problema è che l'articolo si va approfondito ma dal punto di vista di tutti e non solo di uno.
Ci potrebbero essere benissimo 'molte' comprensioni ma non una soltanto e questo è dato dall'apertura mentale di molti e non solo da dei punti di vista.


ma sei proprio sicuro che erano avversari gli arabi?
non erano stati poprio i medici arabi a far nascere Federico II?
e S.Francesco non andò a parlare con sultano?

Il nemico risiede sia fuori sia dentro. Quando la mente da forma a un nemico quel nemico si annida all'interno e anche all'esterno.

e qui sta il nocciolo di tutto.
Le problematiche delle società segrete finchè non si comprendono con chiarezza non si ha modo di aver risposte ma solo frammentari sprazzi di 'qualcosa' che si sa ma non si sa nemmeno se è vero o inventato.


Appunto,se decidi di trattare certi argomenti devi partire da lontano,altrimenti lascia stare,fai solo confusione come il Franceschetti

Lo scorso agosto gli agenti speciali di Scotland
Yard hanno sequestrato, nell’appartamento di un
noto avvocato londinese, quello che viene ritenuto
tra i piú importanti cimeli della dinastia Mochica, il
copricapo che indossavano i re dell’omonima civiltà
fiorita in Perú intorno al VII-VIII secolo d.C.,
prima cioè degli Inca. Le tracce di un oggetto cosí
raro ed illustre si erano perdute da piú di venti anni,
e quindi il ritrovamento è da ascrivere tra i successi
piú rimarchevoli delle forze che operano in tutto il
mondo contro il commercio clandestino dei reperti
archeologici. Il copricapo, una specie di diadema ��
in oro, rappresenta con molta probabilità il dio del
Sole Inti, il dio giaguaro, creatore di tutte le cose.
Fu questa divinità a conferire al primo capo Inca,
Manco Capac, l’incarico di fondare l’impero incaico. Munito di una bacchetta d’oro ricevuta dal dio, Manco
Capac, grazie all’illuminazione divina, segnò sulla terra l’ubicazione della civiltà inca e quella della sua capitale
Cuzco, “l’ombelico del mondo”.
Regnando il tredicesimo Inca, Atahualpa, nel 1531, arrivarono gli Spagnoli. Francisco Pizarro (1475-
1541), avventuriero dell’Estremadura, durante una missione esplorativa nelle Ande peruviane (1524-25),
notò che a Tumbes, una città inca, le mura dei templi erano ricoperte da enormi placche d’oro. Dello stesso
nobile metallo erano fatti i braccialetti delle donne, le collane, le cavigliere e persino i piú ordinari utensili
domestici. Oro a profusione, quindi. Fu cosí che scattò in lui, e nel suo compatriota e commilitone Diego de
Almagro, l’idea di impossessarsi delle ricchezze di quell’impero tra le montagne, che dominava buona parte
dell’America meridionale, su un territorio corrispondente all’attuale estensione di Bolivia, Ecuador e Perú.
Il popolo di quelle regioni era costituito dall’etnia dei Quechua, dominata però dalla casta superiore degli
Inca, che disponeva di un’autorità assoluta derivante appunto da una pretesa discendenza divina. E poiché il
dio supremo adorato da quelle popolazioni era il Sole, gli Inca si erano dati il titolo di Figli del Sole.
In onore del dio Inti, essi celebravano la “Intip Raymi”, la danza del Sole, due volte l’anno: a giugno in
occasione del solstizio d’inverno, a dicembre di quello estivo. In quest’ultima solennità veniva prodotto il
fuoco sacro, che sarebbe servito per un intero anno. Il fuoco si ricavava usando degli specchi ustori d’argento,
o mediante lo sfregamento di due pezzi di legno. Come nell’antica Roma, un collegio di vergini sacre
doveva prendersi cura del fuoco, sotto la guida del “Villa umu”, colui che parla col dio, l’equivalente del
Pontefice massimo. Le vergini, dette “spose del Sole”, erano tenute, oltre che alla tutela del fuoco sacro, a
una rigida castità. Quelle che trasgredivano ai voti subivano, per un’altra strana coincidenza, la stessa sorte
delle Vestali romane fedifraghe: venivano sepolte vive, e gli eventuali complici del sacrilegio erano messi a
morte sulla pietra del sacrificio “intihuatana”, l’altare del dio Inti, dove s’innalzava anche lo gnomone per i
calcoli astronomici legati al ciclo solare. Era, quella comminata ai responsabili del sacrilegio con le spose
del Sole, l’unico caso di esecuzione capitale, ché, a differenza di Maya e Aztechi, gli Inca non facevano
sacrifici umani a scopo religioso. Alle loro divinità offrivano normalmente cibi e bevande, raramente immolavano
lama e volatili, in ciò simili ai Toltechi, l’unica etnia della Mesoamerica aliena da sacrifici cruenti.
Del resto, l’etica degli Inca era molto semplice, nel suo scarno enunciato morale: “nessun ladro, nessun pigro,
nessun bugiardo”. Dettame questo di non ardua ottemperanza, dato che Pacha Mama, la Madre Terra, con quel
clima e quel suolo, ne aveva in abbondanza per tutti. Anche perché ferveva di tutte le forze magnetiche e magiche,
le “huaca”. Non fossero bastate la fertilità e la provvidenza divina, vigendo la comunanza dei beni e delle risorse,
provvedeva al welfare del popolo minuto lo “ayllu”, il gestore dell’annona. Che amministrava le derrate e i
prodotti della terra considerati di proprietà collettiva. Il soggetto beneficato da tanta grazia doveva però, a sconto
morale e materiale, sostenere la corvée gratuita nelle terre destinate al patriziato regale e alle gerarchie sacerdotali.
Inca e Quechua coltivavano mais e patate, ignoravano l’uso del ferro, della volta e della ruota, facevano i conti
adoperando cordicelle variamente annodate. È stupefacente annotare come, pur disponendo di un patrimoniotecnico e scientifico tanto diverso e per certi aspetti inadeguato, gli Inca riuscissero a innalzare palazzi e templi
ciclopici, costruendo strade selciate che univano le molte e ricche città dell’impero, elaborando forme artistiche
e artigianali di rara maestria e bellezza. Un regime autoritario ma illuminato faceva sí che i sudditi non
dovessero chiudere a chiave la porta di casa e potessero viaggiare in sicurezza per tutto il paese.
Fu in questa opulenta e ben organizzata civiltà che irruppero Francisco Pizarro e Diego de Almagro, disponendo
di soli 168 uomini, di cui 67 a cavallo – animale sconosciuto ai locali – e soprattutto di 20 cannoni.
Stretti nelle loro armature di acciaio, dotati di archibugi e spade temprate, i “portatori di tuono”, come erano
già stati soprannominati i conquistadores di Cortèz in Messico dieci anni prima, anche in Perú l’esigua armada
degli uomini barbuti venuti dal mare orientale, risibile per uno scenario bellico europeo ma invincibile nel
contesto inca, ebbe buon gioco con gli ingenui e mal armati guerrieri indigeni, che disponevano solo di
zagaglie e lance di rame e legno, e si riparavano con elmetti di stoffa e piume. E comunque non ci fu uno
scontro leale sul campo. Il tredicesimo Intip Churin, il Figlio del Sole, nella figura del capo inca Atahualpa,
venne attirato in una imboscata, catturato e costretto a pagare un riscatto di tanto oro quanto poteva contenerne
una sala della reggia. L’Inca pagò, ma ciò non gli salvò la vita. Subito dopo il pagamento venne regolarmente
battezzato, poi giustiziato con la garrota e il corpo dato alle fiamme.
Morto il re che incarnava il dio Sole sulla Terra, gli Inca videro realizzarsi le antiche profezie, che volevano
la loro rovina provenire dalla schiuma del mare a Oriente, su vascelli con grandi ali candide. Una dopo
l’altra caddero le sontuose città, i santuari rivestiti d’oro, i grandi palazzi del potere inca: Cuzco, Quito,
Tambu Machay, Sacsahuaman, dalle possenti mura ciclopiche. Si salvò Machu Picchu, osservatorio e tempio
solare, in alto tra le vette inaccessibili. Grazie alla sua sopravvivenza, abbiamo potuto fissare in parametri di
eccellenza il livello raggiunto dalla civiltà inca, altrimenti defraudata di ogni valore e dignità dalla damnatio
memoriae perseguita con meticoloso impegno dai cronisti al seguito dei conquistadores, e negli anni successivi
da storici e antropologi che avevano aderito ai princípi e agli interessi della conquista. Poiché, secondo
quei princípi propri dei popoli inclini all’imperialismo, non basta annientare manu militari una civiltà, occorre
anche dequalificarla agli occhi della storia, al punto che la presa di possesso territoriale venga omologata
e giustificata da pretestuosi intenti di edificazione o ripristino dei valori e diritti umani e sociali, e perché no,
anche culturali e religiosi.
Ma come era avvenuto in Messico dieci anni prima con Montezuma, la cui efferata soppressione da parte di
Cortez aveva scatenato la famigerata vendetta, culminata nella rivolta Azteca della “noche triste”, anche l’uccisione
disumana e fraudolenta dell’ultimo re inca Atahualpa diede avvio a una nemesi inarrestabile ai danni di
Pizarro e del suo socio de Almagro. Per la divisione dell’incalcolabile bottino sottratto agli Inca, si eliminarono tra
loro. Nel giro di tre anni, la loro tirannia ebbe fine. Era la maledizione dell’oro, che dal Perú si diffuse in tutte le
colonie del nuovo mondo, e da qui, sui galeoni, insieme all’argento e agli schiavi, raggiunse l’Europa.
Tanta ricchezza, invece di portare prosperità, arrecò disagi alla Spagna, incentivando il regime parassitario
degli hidalgo che orbitavano intorno alla reggia e ne godevano i benefíci. La monarchia finí col conservare, della
passata fioritura del Secolo d’oro, unicamente l’albagía e il rigore di un’etichetta quanto mai rigida, codificata
da un cerimoniale altrettanto inesorabile. Inoltre, le conquiste d’Oltremare spopolarono le campagne, e l’agricoltura
stanziale venne sostituita dalla pastorizia nomade. Le guerre fecero il resto, assottigliando le risorse
economiche e le forze produttive espresse dall’artigianato e dalle manifatture, braccia poste al servizio delle
armate di terra e di mare. La stessa religione, uno dei pilastri della nazione iberica, seguí la sorte della perduta
autorità regale e del tracollo economico, esaurendosi nel quietismo di Miguel de Molinos, che riduceva il rapporto
dell’uomo con la Divinità a un misticismo di maniera, svuotato di ogni slancio sentimentale e di vigore animico.
Ma l’oro facile degli Inca, la predazione umana di schiavi e peones, crearono, col trascorrere degli anni, un
altro precedente nello scenario economico e sociale, europeo prima e universale poi. Si instaurarono due linee
speculative, ancor piú condannabili perché applicate in genere da popoli cristiani. La prima, il denaro che fa
denaro, consistente nella ricchezza che vive e si alimenta di se stessa e non derivante da lavoro fattivo, creativo,
produttivo di beni e merci; denaro che attiva soltanto una spirale di rendite parassitarie, che non si fa
quindi volano e catalizzatore di null’altro che non sia altro denaro e interesse maturato dal proprio valore inerte:
le banche, l’usura, le obbligazioni, le quali finirono con l’irretire gli stessi governi che avevano incoraggiato il
meccanismo monetario. L’oro passava dalle miniere nelle casse dello Stato, senza promuovere altro che sterili
giochi fondati sul nulla. L’altra deprecabile speculazione venne espletata con la tratta degli schiavi, fornitrice di
lavoro umano coatto, non retribuito, in cui l’essere individuale era ricattato a vita per la sua condizione priva di
ogni tutela e dignità.


Le scoperte geografiche coincisero con il fiorire dell’Umanesimo.
Purtroppo le degenerazioni che seguirono alle
imprese coloniali, quali il culto dell’oro e lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, vennero a inficiare il processo umanistico
di sublimazione della civiltà, mirante a porre l’individuo
al centro della realtà cosmica. Processo iniziato con l’avventura
serafica del Poverello d’Assisi lungo la Via mistica e
seguendo l’arduo cammino esoterico dantesco attraverso le
insidie del mondo fino alla rivelazione dell’identità uomo-Dio:
l’essere umano quindi assurto ad artefice del suo destino e
padrone assoluto della propria individualità. Procedimento
secondo cui l’attenzione viene distratta dalla sfera cosmicospirituale
e diretta al singolo, come ci dice Rudolf Steiner:
«Ora si fa astrazione da tutto questo e si rivolge lo sguardo ai
dolori e alle gioie che il povero e umile essere umano sperimenta
sulla Terra. Il singolo diventa ora importante. Ognuno
rappresenta un mondo a sé e si vuole appunto vivere in modo
che ogni singolo diventi un mondo a sé. L’eterno, l’infinito,
l’immortale deve manifestarsi nel petto umano e non piú
ondeggiare al di sopra della Terra, nella sfera superiore che
la circonda»(1). E riferendosi poi all’esperienza francescana: «Di conseguenza non si ha di solito una idea adeguata
della trasformazione nel sentimento quando Francesco d’Assisi cominciò a interiorizzare la vita dell’Occidente.
…Francesco, che vuole cosí sentire l’uomo, che vuole anche sentire come il Cristo è per il povero
essere umano …fa sgorgare dalla sua anima un’infinita interiorità, una vita del pensiero che non era immaginabile
in tempi anteriori»(2). E in merito all’Alighieri: «Nella sua grandiosa poesia, come in un’ultima apparizione,
Dante descrive ancora la vita umana sotto l’aspetto dato da potenze sopraterrene»(3). E l’arte, sempre
secondo il Maestro dei Nuovi Tempi, contribuí anch’essa a tale disegno: «Vediamo cosí nella pittura di Giotto
riflettersi nella creazione artistica ciò che nella natura è individualizzato, vediamo la rappresentazione di
quanto è individuale-umano»(4).
Allo stesso modo, in seguito alle scoperte e innovazioni scientifiche, scattò un meccanismo di emancipazione
animica negli individui, che spesso li portava a riconsiderare il modo di porsi a fronte della natura e del divino.
Ce lo conferma ancora Steiner: «Si pensa troppo poco che cosa significò per l’umanità …la scoperta dell’America
alla fine del secolo quindicesimo, e anche la tutt’altra struttura sociale che si ebbe con la scoperta dell’arte della
stampa, e infine ancora con la concezione copernicana e di Keplero per la scienza moderna»(5). Affrancare
l’uomo dalla sudditanza a certi tabú mitico-misterici, inoltrarlo nel giardino inviolato della conoscenza scientifica
razionale attraverso la scrittura a larga diffusione, innalzarlo alla posizione primaria nell’ordine cosmico naturale,
resero l’individuo al contempo piú vulnerabile all’antico peccato di superbia. Per cui, gli slanci sublimativi che
avevano ispirato l’Umanesimo ai suoi albori, l’ardore del nuovo, l’anelito di libertà e di sapere, la concezione di
un nuovo ordine sociale e universale, degenerarono nella desacralizzazione della vita, nella negazione della
disciplina morale, nella venerazione della materialità e del potere in tutti i loro esiti ed eccessi.
Che l’Umanesimo, con le dovute eccezioni che confermavano la regola, avesse imboccato strade fuorvianti e
adottato regole e canoni che tradivano lo spirito della concezione dantesca dei Fedeli d’Amore e della mistica
francescana, lo dichiarò con forza visionaria e ardore profetico il Savonarola. Il frate domenicano, che predicava
l’austerità dei costumi – pur coi toni apocalittici e nei modi intransigenti che lo spinsero a condannare, insieme
a deprecabili cupidigie, lussurie e mollezze, tutta l’arte in genere – aveva colto, al di sotto della patina
sfavillante della società del tempo, l’insidia di cui Arimane si è servito da sempre. L’antico inganno che portava
la scienza e il sapere, attraverso la libera indagine, a scuotere le credenze tradizionali senza realmente risolvere
gli assilli interiori dell’uomo e quindi attentando alla tenuta della sua fede nel divino e lasciandolo preda
dell’angoscia e del dubbio. Il Signore delle Tenebre flautava all’orecchio dell’uomo le sue consumate seduzioni
del potere, del soddisfacimento edonistico, degli orpelli e della bramosia dell’oro, della bellezza esteriore che
irretisce con la maya delle apparenze. Dopo la morte sul rogo del Savonarola, per volere dell’autorità religiosa
che faceva politica e col benestare di un potere politico divenuto religione, si ruppe la diga che conteneva le
contraddizioni del secolo umanistico e la violenza dilagò per tutta l’Europa.
Giotto «S. Francesco rinuncia ai beni paterni»
(1295-1300) Assisi, Basilica sup. di San Francesco
6 L’Archetipo – dicembre 2006


Seguí il Rinascimento, un secolo travagliato dal dal dissidio animico tra Spirito e materia, tra estasi creative e
tormenti venali. I fermenti che agitavano la società del XVI secolo traevano forza dalla linfa per metà esaltante e
per metà venefica che veniva dai mali delle conquiste e dalla vanagloria dell’uomo. Congiure politiche e finanziarie,
scismi religiosi, la Riforma; il militarismo si esasperò a tal punto che anche la Chiesa armò i suoi pontefici
(Giulio II), creando il suo esercito di fedelissimi con la Compagnia di Gesú. Ci furono i pirati, gli schiavisti, i
rinnovati imperialismi su territori dove non tramontava mai il sole, le guerre di religione, la notte di San
Bartolomeo, l’Inquisizione, gli assolutismi che nel Principe di Machiavelli trovarono il vademecum dei loro
egotismi. Qualcosa nell’uomo si era rotto e la sua anima lacerata si avviava a dar vita a una civiltà senza Dio.
Per divina misericordia, illuminarono quella temperie di orgoglio e furore, l’oscura notte della ragione senza
fede e della fede secolarizzata, i bagliori del genio umano, intoccabile da ogni congiura: Raffaello, Michelangelo,
Leonardo, Ariosto, Rabelais, Gutemberg, Dürer, Copernico, Paracelso, Erasmo. Fermenti e pulsioni, altezze e
profondità, uomini che pilotarono la zattera della civiltà umana traendola fuori dal marasma, impegnati a non
cedere alle due estreme seduzioni: la fuga nel delirio dell’astrazione dialettica e la caduta irreversibile nella pania
inibente della materia.
Dopo cinque secoli, a che punto è la notte? Ai vistosi cedimenti registrati dai piloni portanti della società
umana, rappresentati da religione, filosofia, scienza ed economia, ha contribuito in misura diretta e cospicua lo
smarrimento dell’uomo che è venuto meno al suo impegno etico e formativo, lasciando insinuare il suo tessuto
animico dai tarli del materialismo agnostico e del relativismo morale. E ha scelto quindi, consapevolmente, quali
valori, o disvalori, fossero piú consoni ad ispirare i suoi ideali e comportamenti. La Scienza dello Spirito ci dice
però che tale smarrimento si rese necessario affinché l’uomo conquistasse la consapevolezza della propria natura
trascendente, e che tale presa di coscienza avvenisse mediante una sofferta gestazione animica e spirituale.
Sofferenza che, male intesa e male indirizzata, doveva piú volte rivelarsi causa di malessere sociale, di conflitti e
incomprensioni. Ce lo conferma Massimo Scaligero: «Il male non è nelle cose, ma nell’uomo, nell’anima: se l’anima
non è capace di autoconoscenza, le è necessario sperimentare il male, proiettandolo fuori di sé, perché le ritorni
contro e le sia conoscibile, come idea. Chi non sa pensare mediante pensieri, viene costretto a pensare mediante
fatti. Cosí, chi ha la lotta in sé, la porta fuori di sé: la sua incapacità di confutare se stesso lo porta a confutare gli
altri, a contestare ad accusare. Tende a mutare all’esterno qualcosa che dovrebbe mutare in se stesso»(6). Ne
deriva pertanto sofferenza per tutti, senza che però questa contribuisca a migliorare l’uomo. «Viene impedito che
il dolore individuale si trasformi in conoscenza, e che la conoscenza di sé e delle proprie responsabilità divenga
azione, cooperazione cosciente con il karma, atto libero. …Il karma bloccato diviene una potenza ancora piú
determinante nella storia umana, nel senso di un divenire fatale non piú controllato dalla conoscenza»(7).
Tuttavia nessun bilancio, fosse anche il piú negativo – e non è in definitiva il caso di quello riferito alla civiltà
umana – può chiudersi omettendo le strategie e i propositi di recupero. Il futuro è una grande risorsa, e
Massimo Scaligero ce ne indica le potenzialità sociali e spirituali: «Non esiste provvedimento socioeconomico, o
rivoluzione, o trasferimento dei mezzi di produzione, che possa risolvere un problema la cui interna sostanza è
il tessuto stesso delle forze con cui l’uomo quotidianamente pensa, sente e agisce: forze che fanno appello a
una conoscenza capace di afferrare i loro impulsi edificatori secondo la logica della loro struttura intemporale:
la cui correlazione temporale, lo scorrere dal passato nel presente, esige la conoscenza dell’uomo libero. Né il
meccanismo ideologico, né l’intelligenza virtuosistica, o lo Gnosticismo, consentono tale libertà, perché ne
verrebbero infranti. È la libertà che l’uomo consegue mediante la reale conoscenza: per virtú della quale egli
può aiutare l’umile e lo sprovveduto a risolvere le sue difficoltà: non mettendolo contro di esse, non togliendogli
le forze per affrontare se stesso, ma fraternamente sostenendolo mediante la soluzione socioeconomica che
favorisca l’armonica formazione interiore di lui, come elaboratore egli stesso del proprio destino…»(8).
Con questo auspicio di riscatto umano, salutiamo la nascita del Sole rinnovato. Le tenebre sono alte e spesse,
ma la sua luce è grande e possente. Alla fine il chiarore vincerà, illuminando il fatale divenire dell’uomo
realizzato nella sua divinità.
Leonida I. Elliot
(1)R. Steiner, Storia dell’arte, specchio di impulsi spirituali – I, O.O. 292, Ed. Antroposofica, Milano 1992, pp. 14-15.
(2)op. cit., pp. 14-15.
(3)op. cit., p. 15.
(4)idem.
(5)R. Steiner, Storia dell’arte, specchio di impulsi spirituali – IV, O.O. 292, Ed. Antroposofica, Milano 1996, pp. 63-64.
(6)M. Scaligero, Lotta di classe e karma, Perseo, Roma 1970, pp. 140.
(7)op. cit., p. 141-42.
(8)op. cit., p. 143.

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