Re: Adriano Olivetti

Inviato da  Al2012 il 19/2/2013 2:07:19
Ora passo al copia/incolla, mi limiterò a evidenziare qualche passaggio.

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Olivetti, l’utopia felice del capitalismo dal volto umano

«Le cose nuove si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo, e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità consuetudinaria».
Era il 1955, mille anni fa. Così parlava Mario Tchu, figlio di un diplomatico cinese e padre del primo computer mondiale, l’Elea.
Una macchina rivoluzionaria, prodotta dall’industriale più eretico e geniale di tutti i tempi, Adriano Olivetti.

Il suo credo: «I lavoratori sono persone: bisogna premiarli, dar loro fiducia».
Riletta oggi, la vicenda di Olivetti sembra fantascienza. Fatturati record, operai felici, prodotti d’avanguardia.
Per i ras del capitalismo italiano, che invece puntavano sull’industria pesante – auto e chimica – l’eretico di Ivrea era «un bubbone da estirpare».

E così fu: come tutti i grandi italiani, Adriano Olivetti fu incompreso, isolato e poi dimenticato.

Padre ebreo, madre valdese, fede socialista. Ingegnere con studi in America, debutta come operaio nella fabbrica paterna.
Attivo antifascista, deve riparare in Svizzera per non finire in galera, ma prima fa in tempo a mettere in salvo il padre del socialismo italiano, Filippo Turati: è Olivetti a guidare personalmente l’auto che trasporta Turati, ricercato dalla polizia fascista, fino al porto di Savona dove il leader socialista sarà imbarcato per la Francia.

A guerra finita, Olivetti torna a Ivrea con un progetto rivoluzionario.
Vuole far crescere l’impresa con la partecipazione diretta dei dipendenti: il profitto va reinvestito per il bene della comunità.
La fabbrica di Ivrea è costruita a misura d’uomo: abbandonata l’alienazione della catena di montaggio, si lavora attorno a “isole” produttive.

I dipendenti dispongono di mense, biblioteche, ambulatori medici, asili nido.
Nasce un welfare avanzato, con decenni di anticipo.

«L’idea di Adriano – racconta un lungo servizio televisivo realizzato da “La Storia Siamo Noi” – è che l’incremento della produttività sia strettamente legato alla motivazione personale del lavoratore ed alla partecipazione degli operai alla vita dell’azienda.

Il modello Olivetti, criticato da molti come contrario ad ogni logica economica, si mostra presto una ricetta di successo; in poco più di un decennio la produttività cresce del 500% e il volume delle vendite del 1300%.
La Olivetti raggiunge rapidamente una notevole fama internazionale e la macchina da scrivere “Lettera 22”, disegnata da Marcello Nizzoli nel 1950, viene definita da una giuria internazionale “il primo dei cento migliori prodotti degli ultimi cento anni”.
E’ la prima volta in Italia che si introduce il design e l’estetica come aspetti fondamentali del prodotto industriale».

La rivoluzione continua: nel 1948 negli stabilimenti di Ivrea viene costituito il Consiglio di Gestione, per molti anni unico esempio in Italia di organismo paritetico con poteri consultivi sulla destinazione dei finanziamenti per i servizi sociali e l’assistenza.
Si costruiscono quartieri per i dipendenti e nuove sedi per i servizi sociali.
Vengono ingaggiati i migliori architetti italiani: Figini, Pollini, Zanuso, Vittoria, Gardella, Fiocchi, Cosenza.

La fabbrica di Ivrea è moderna e spaziosa, luminosa, tutta vetri.
Adriano Olivetti vuole che gli operai lavorino «circondati e avvolti dalla luce».
I dipendenti godono di benefici eccezionali per l’epoca: salari superiori del 20% della base contrattuale, servizi sociali gratuiti, maternità retribuita per 9 mesi, settimana corta col sabato libero, orario lavorativo ridotto.

Per Olivetti il lavoratore è innanzitutto un essere umano, deve essere produttivo perché la realtà industriale possa essere competitiva, ma per farlo la contropartita non è l’alienazione ma la partecipazione, il coinvolgimento, la crescita sociale.
L’efficienza del lavoratore non va imposta con il suo iper-utilizzo, ma migliorando le condizioni di lavoro: è un’idea di sviluppo industriale sociale e sostenibile.

Il Rinascimento di Ivrea recluta i migliori intellettuali.
A organizzare la vita in fabbrica intervengono sociologi, storici, architetti, scrittori, poeti, scienziati della politica e dell’organizzazione industriale, psicologi del lavoro: Franco Momigliano, Paolo Volponi, Giovanni Giudici, Geno Pampaloni, Bobi Bazlen. E poi Luciano Gallino, Franco Fortini, Bruno Zevi, Furio Colombo, Franco Ferrarotti, Tiziano Terzani.

La Olivetti diventa un cenacolo, un crocevia intellettuale, qualcuno la definisce “la Atene degli anni Cinquanta”.
Ad affrescare un’officina viene chiamato Renato Guttuso, mentre gli operai assistono a uno storico concerto di Luigi Nono.

Il centro di formazione è in una villa medicea, perché Olivetti crede che la bellezza possa salvare il mondo.

La fabbrica di Ivrea è un fiorire di eventi culturali, mostre, proiezioni di film.
Si spende, si investe, si sperimenta: nasce una sorta di socialismo aziendale, che punta sulla cultura e insegue la felicità.

Olivetti estende alla cittadinanza di Ivrea il suo modello di welfare, mette a disposizione servizi sociali, diventa sindaco, disegna il piano regolatore della città, crea persino un movimento politico comunitario e nel ‘58 viene eletto deputato con 178.000 voti.

Sperava di promuovere le sue idee, il suo capitalismo dal volto umano, ma viene completamente ignorato.
«Andava solo, con il suo passo randagio», lo ricorda Natalia Ginzburg in “Lessico famigliare; «Gli occhi perduti nei suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre. Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio».

Il sogno finisce con la sua morte improvvisa, nel febbraio 1960, dopo due anni critici nei quali Olivetti si è indebitato fino al collo per rilanciare ancora una volta la sua èscommessa eretica – l’alleanza fra capitale e lavoro – e giocare la carta mondiale dell’informatica, acquistando l’americana Underwood.

La crisi si avvita, ricorda Paolo Bricco sul “Sole 24 Ore”: tre anni dopo, i debiti ammontano al doppio del patrimonio netto dell’azienda.
Il gruppo di intervento organizzato da Mediobanca insieme con Fiat, che non ha mai approvato la politica di Olivetti, salverà un’impresa ricca di prodotti, competenze, estetica e cultura internazionale, ma povera di capitali e molto indebitata.

Per la Fiat, l’elettronica di Ivrea è un tumore da estirpare; per Enrico Cuccia, l’Italia deve puntare sulla chimica.
Tuttavia, il seme di Adriano Olivetti avrebbe ancora generato nel 1965 il “Programma 101”, il primo personal computer da tavolo.

Già alla metà degli anni ’60, scrive Giuseppe Mariggiò su “data Manager”, fu chiaro che la famiglia non era in grado di sostenere lo sviluppo dell’azienda: la Olivetti si tenne le macchine per scrivere ma cedette l’elettronica alla General Electric.

Nel 1978 Carlo Debenedetti erediterà una situazione pre-fallimentare, fra debiti ed esubero di manodopera; manovrando in Borsa riuscì a reinserire la Olivetti tra i principali produttori di computer, ma la ristrutturazione degli anni ’90 condannò l’azienda, oggi incorporata dalla Telecom dopo l’ultima spettacolare operazione finanziaria targata Colaninno, Pirelli e Benetton, nell’epoca delle speculazioni finanziarie che avrebbero portato alla “bolla” della new-economy, «nulla di più lontano – annota Mariggiò – dalla filosofia industriale di Adriano Olivetti».

Cosa resta del sogno?
«Molti, oggi, sono “olivettiani” e non lo sanno. Le idee camminano adagio, talvolta sotto mentite spoglie», dice ancora Mariggiò.

Sembra incredibile, scrive Andrea Chirichelli su “Wired”, che un paese come l’Italia oggi così rattrappito, lento e quasi neoluddista nel suo rapporto con le tecnologie (cellulari a parte) abbia ospitato un’azienda come la Olivetti, leader nell’innovazione tecnologica e capace di realizzare prodotti a dir poco avveniristici.

Valorizzazione del lavoro, ricerca, fiducia nei giovani, responsabilità sociale, cultura, attenzione per l’ambiente.
«Può l’industria darsi dei fini?», si domandava il grande eretico di Ivrea. «Si trovano questi fini semplicemente nell’indice dei profitti?».
Olivetti inseguiva «una trama ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica».


Negli anni ’50, ricorda “Wired”, le calcolatrici e le macchine per scrivere Olivetti erano l’emblema mondiale della nascente Information Technology: oggetti di culto, come oggi lo sono i prodotti Apple, Microsoft e Google.
E mentre i “padroni delle ferriere” – Fiat in testa – con l’aiuto della cattiva politica dettavano i tempi dell’industrialismo pesante a basso contenuto tecnologico che avrebbe devastato la società, sfigurato il territorio e preparato le crisi, l’eretico di Ivrea costruiva il suo modello antagonista, la sua utopia realizzata e poi circondata, assediata, costretta alla resa.

Natalia Ginzburg rievoca il giorno in cui Adriano Olivetti la andò a soccorrere dopo l’arresto di suo marito, Leone Ginzburg, incarcerato dalla polizia fascista:
«Ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura che mi era così familiare, che conoscevo dall’infanzia, dopo tante ore di solitudine e di paura, ore in cui avevo pensato ai miei che erano lontani, al Nord, e che non sapevo se avrei mai riveduto; e ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere per le stanze i nostri indumenti sparsi, le scarpe dei bambini, con gesti di bontà umile, pietosa e paziente.
E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventoso e felice di quando portava in salvo qualcuno».


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Tratto da qui

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