Re: Il rifiuto della comunità.

Inviato da  nessuno il 31/8/2007 9:03:38
Citazione:
la società attuale mi è sufficientemente chiara.


Meno male che a qualcuno è chiara! A me non ancora. (Avrò bisogno di molta più esperienza [intesa come vuoi tu ] prima di arrivare al tuo livello).

Citazione:
La comunità, o meglio le sue caratteristiche, rappresenta semmai ciò che nello status quo che ci circonda manca ed è causa del profondissimo e capillare malessere contemporaneo.


In una frase abbiamo diagnosi e soluzione. Si ignora la prognosi, ma attendiamo con trepidazione. Ora, potresti provare a definire meglio quale sia il "profondissimo e capillare malessere contemporaneo"? Così, tanto per discutere di qualcosa di concreto...

Citazione:
Essendo qualcosa che oggi manca, è piuttosto difficile fornirne esempi concreti a noi contemporanei; per cui, se rifiuti le indicazioni relative alle comunità pre-industriali nelle quali i "termini altamente astratti" trovavano concreta esistenza, non so proprio come venirti incontro.


Non le rifiuto. Le accetto e ci tornerò su. Per ora dico solo che mi sembra tu assegni alla comunità una serie di caratteristiche che valuti come positive, in contrasto con la forma attuale dello status quo contemporaneo (che, secondo molti sociologi, può essere definito - più semplicemente - società). Ti chiederei, se ti va, di confermare o smentire questa mia impressione, perché non ho il dono di saper leggere la mente altrui.

Citazione:
Se la piantassimo con questa simpatica fola della diversità radicale fra gli esseri umani? Gli esseri umani sono assai più simili che dissimili. Fisicamente e psicologicamente. In caso contrario un sacco di professioni (fra cui lo psicologo) che hanno come oggetto proprio l'uomo sarebbero implicitamente basate sul nulla. Cosa che, dall'esperienza (intesa come preferisci tu), non sembra proprio.


Lasciando a parte gli aggettivi (che non aggiungono né tolgono nulla a quanto si dice), quando mai ho sostenuto una diversità radicale?.
Comunque, se accetti come punto di partenza un dato che ci viene dalla genetica delle popolazioni: bisogna in realtà considerare che la diversità genetica tra gli individui di una popolazione è maggiore di quella media osservabile tra due popolazioni..
Dal punto di vista genetico, tutti gli esseri umani condividono il 99,9% del DNA. Da questo punto di vista hai ragione. Sono più simili che dissimili. Ma questo dato (assieme ad altri) non fa altro che corroborare la mia ipotesi che non abbiamo alcun bisogno di costruire delle caratteristiche comuni. Basterebbe riconoscere quelle che esistono.

Non entro nel merito della tua ipotesi circa le professioni, perché richiederebbe un thread a sé. Mi limito a constatare che l'idea che hai del lavoro dello psicologo corrisponde assai poco alla realtà del lavoro dello psicologo, e che antropologia, sociologia, psicologia e altre "scienze umane" lavorano assai più nel mettere in luce le differenze che non le somiglianze.
Anzi, l'esistenza di differenze è non solo la loro ragione d'essere, ma addirittura (come nel caso dell'antropologia) la loro origine. (per una buona trattazione della questione, nel caso dell'antropologia, vedi: AFFERGAN Francis, Esotismo e alterità. Saggio sui fondamenti di una critica dell’antropologia, Mursia, Milano 1991 (1987)).
Inoltre, dato che mi chiedi spesso di portare dati a sostegno delle mie affermazioni (giustamente), mi sento di chiederti la stessa cosa, e di provare a sostenere questa tua affermazione circa la similitudine degli esseri umani con dei dati.

Citazione:
Io pensavo che una comunità esprimesse una cultura, e che "cultura" e "sapere consolidato" avessero un certo grado di parentela.


Ma anche una società esprime una cultura. Sono, semplicemente, due culture diverse, come sono diverse le culture delle diverse comunità, a seconda della loro storia e degli uomini e donne che le compongono. Il sapere consolidato ha un certo grado di parentela con la cultura ma, a volte, più che di fratelli mi pare si tratti di lontani cugini. La geometria dei triangoli simili mi pare rappresenti un sapere alquanto consolidato, ma la sua conoscenza non appartiene se non ad una minima parte della popolazione. Viceversa, le vicende di Corona sembrano appartenere alla cultura di un'ampia fetta di popolazione, pur non potendo essere definite "un sapere consolidato".

Citazione:
E, sempre a mio parere, parlare di "abbandono senza patemi d'animo" è cosa sia superficiale sia presuntuosa. Perlomeno se non a fronte di un'esperienza di vita individuale assai lunga, ampia e profonda, tanto da consentire di mettere in discussione con criterio - e non per semplice incapacità di comprendere - ciò che moltissimi individui prima di te hanno ritenuto degno di essere selezionato e messo da parte per essere trasmesso ai propri successori, considerandolo evidentemente un frutto prezioso delle loro vite.


E' il tuo parere e lo prendo come tale. Legittimo. Ma, se vuoi convincermi che sia anche verosimile, gli aggettivi non sono sufficienti.
Tuttavia, ho l'impressione che questa tua posizione sia per te alquanto centrale nel tuo schema di ragionamento, quindi provo a discuterne alcuni aspetti.
questa è una frase che, ad una prima lettura, potrebbe sembrare estremamente intelligente. Implica che un cambiamento vada attuato in modo cauto, attento, meditato e consapevole. Occorre, per quel che comprendo, vagliare con cura quanto è stato selezionato dai propri predecessori, esaminarlo con attenzione e, dopo molto tempo e molte riflessioni, apportare ad esso solo quei cambiamenti che, con criterio, vanno apportati.
Ma nell'applicazione concreta di un simile principio, converrai con me che possono sorgere innumerevoli problemi:
a) chi è vissuto prima di me poteva avere perfettamente ragione al suo tempo, ma non è affatto detto che abbia ragione ora. Le società non sono oggetti inanimati, né statici. Anche lo fossero, non lo è il mondo fisico nel quale si trovano a vivere. E mantenersi fedeli a ricette consolidate in un mondo che cambia e si trasforma mi pare il modo migliore per estinguersi rapidamente. In sostanza, dal mio punto di vista, un comportamento o un'idea o una teoria ha valore se funziona, non se è tradizionalmente accettata. Può essere che il tuo punto di vista sia diverso, nel qual caso, ne prendo atto e riconosco una diversità sostanziale.
b) Chi decide quanto debba essere lunga e profonda l'esperienza? La comunità? Il soggetto che deve prendere la decisione? E, se si tratta della comunità, cosa è preferibile in caso di disaccordo con il soggetto?
c) Idem per la questione del criterio: chi decide quale sia il o i criteri validi? E nel caso di conflitto, ancora una volta, come si decide?

Citazione:
Guarda, si levi dalla testa chi eventualmente ce l'avesse quest'idea che ciò che l'individuo produce spontaneamente sia, in quanto tale, sempre oro puro. Le problematiche che si propongono nel corso dell'esistenza sono molte e assai complesse e l'individuo spessissimo non ne è, semplicemente, all'altezza, commettendo errori anche estremamente gravi, nei propri come negli altrui confronti. E' perlopiù, proprio come dicevo, un dilettante allo sbaraglio, senza che tale definizione voglia essere riduttiva o dispregiativa: è una semplicissima constatazione. Per questo motivo, in moltissimi casi, basarsi sul sapere consolidato è cosa più che opportuna se si tiene alla bontà del risultato.


Sono perfettamente d'accordo con te su questo. Ma non vedo che c'entri con la necessità dell'esistenza di una comunità.


Citazione:
Tendenzialmente, nei limiti del possibile, preferirei che "chi ne è oggetto" fosse preservato, tramite l'esperienza accumulata dalle generazioni precedenti, dal dilettantismo dei principianti.


E' una preferenza legittima. Mi limito a chiedermi in base a quali considerazioni una sofferenza abbia un valore superiore ad un'altra.
Ma apro ad un tema differente, che pure, secondo me, è presente in modo sotterraneo in ogni discussione come quella che stiamo conducendo: è la nostalgia, o - in altri casi - l'utopia di un'età dell'oro, nella quale tutto va bene, non ci sono problemi, le persone sono tutte sagge, buone, brave. Ma gli esseri umani sono eterni dilettanti:
Darwin fu il primo a utilizzare il termine “bricolage” Per descrivere l'azione dell'evoluzione. A Francois Jacob va il merito di aver reinventato questo termine e di averne ampliato l'uso.
L'azione di “bricolage” dell'evoluzione è particolarmente chiara a livello molecolare: per assicurare nuove funzioni, l'evoluzione non fa comparire negli esseri viventi nuove proteine, ma utilizza le proteine già esistenti, di cui essa modifica la funzione originale. L'evoluzione può anche combinare e risistemare frammenti di proteine, creando così proteine-chimera.


A livello genico, essa ricombina elementi di regolazione per generare nuovi profili d'espressione. L'azione di bricolage dell'evoluzione si può notare anche a livelli più elevati di organizzazione, per esempio nella formazione degli organi: così, il cervello dei mammiferi sarebbe la sovrapposizione di tre cervelli diversi, comparsi successivamente nel corso dell'evoluzione, più o meno bene articolati fra loro.
Mettere in primo piano l'azione di bricolage dell'evoluzione è un modo per insistere sul ruolo del caso, e per sottolineare l'imperfezione delle creazioni dell'evoluzione.
Vuol dire tentare di spiegare la formazione delle “novità” nel corso dell'evoluzione, difficoltà notevole per il neo-darwinismo; e d'altronde semplice tentativo, poiché il bricolage è solo una metafora affascinante, non una teoria scientifica.

Da: I grandi della scienza, Monod, Jacob, Lwoff, Le Scienze, N°3, febbraio 2003.




Citazione:
Oh, niente. Mi fa solo un po' strano che il tuo sè parli di "sé" dicendo il mio corpo. Sembrerebbe lui il primo a mettere una certa distanza tra le due entità.


Touché. Critica corretta. Ma, su questo punto, sono d'accordo con quanto afferma shampoo (benvenuto tra noi, ma calma i bollenti spiriti. E' una discussione, non una lotta all'ultimo sangue ). Se posso, preciso meglio: il termine "sé" è un termine non definibile se non per approssimazioni e circumnavigazioni. In qualche modo descrive la totalità dell'individuo. E' difficile, dal punto di vista linguistico, trovare un modo per dire quel che penso. Ma quando dico il mio corpo intendo qualcosa del tipo: io corpo. Peraltro, a meno che tu non pensi di avere un qualche "io" all'interno del tuo corpo, da esso separato e che gli ordina che fare e che non fare (ma mi pare strano tu la pensi così), quel che facciamo lo fa il nostro corpo, quel che pensiamo lo pensa il nostro corpo. Quindi, identificare corpo e sé a me sembra un'opzione interessante.

Sull'ultimo punto: la percezione è già interpretazione. Noi non vediamo le lunghezze d'onda della liuce. Vediamo i colori. Ma colore e lunghezza d'onda non sono la stessa cosa (per una buona trattazione della questione: Semir Zeki - La visione dall'interno Arte e cervello. Editore Bollati Boringhieri Collana Nuova cultura. 2003)
Il fatto che tu ritenga la visione dei colori come appartenente al campo delle "impressioni sensoriali", mi fa pensare che tu consideri la "interpretazione" come qualcosa che rientra nella sfera della "consapevolezza". Mi spiace, ma devo contraddirti. Gli esseri umani interpretano il mondo in continuazione. A volte consapevolmente, il più delle volte no.
Poi, se non vuoi considerarmi "controparte", non c'è problema. E' una scelta tua. Ma ti suggerirei di approfondire la questione della percezione e del suo rapporto con l'interpretazione. E' più complicata di quanto mi sembra tu pensi.

Ad maiora, carissimo

Buona vita

Guglielmo

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