Re: Morto ex ciclista Valentino Fois

Inviato da  caio il 29/3/2008 14:49:33
All’epoca della morte di Marco Pantani (14 febbraio 2004), scrissi un paio di articoli che mi sono andato a rileggere oggi, alla notizia del decesso di Valentino Fois. Ne riporto alcuni stralci, senza la preoccupazione degli anni trascorsi: dal punto di vista del doping, a parere del sottoscritto, non è cambiato nulla, se non (forse) le sostanze e i trucchi per nasconderle. Per notizia, sono un ex atleta mezzofondista, praticante a livello agonistico per sedici anni.

Io ho imparato che nell’atletica non s’inventa nulla e che l’unico modo per migliorare è l’aumento della quantità di allenamento, che però ha dei limiti fisici e temporali. Di questi limiti si resero conto, molti e molti anni fa, i finlandesi, coloro che inventarono quella pratica che viene definita “autoemotrasfusione”.

Dato che non è possibile aumentare a dismisura il chilometraggio, i finlandesi pensarono di “aiutare” le gambe portando loro molto più ossigeno di quello normalmente trasportato dalla nostra quantità normale di sangue. Togliendo del sangue all’atleta, molto tempo prima della competizione su cui puntare, si permette al corpo di ripristinare la quantità normale, reimmettendolo in circolo in prossimità della gara: l’atleta si troverà con molto più sangue a disposizione, il quale trasporterà molto più ossigeno alle gambe, innalzando di molto la cosiddetta “velocità d’innesco”, la velocità, cioè, alla quale i muscoli cominciano a produrre acido lattico, la bestia nera del mezzofondista. Più alta è la velocità d’innesco, più l’atleta sarà in grado di “passeggiare” a ritmi veloci, più tardi arriverà la crisi. L’allenamento quotidiano e continuo del mezzofondista, è volto ad alzare la velocità d’innesco da una parte e ad incrementare la capacità lattacida dall’altro, ossia, la capacità di continuare a correre il più possibile, senza rallentamenti, con la muscolatura delle gambe inondata di acido lattico (“La capacità lattacida esprime la quantità massima di lattato che l’atleta può accumulare e sopportare per periodi di tempo medio-lunghi ad una elevata velocità, con limitata diminuzione del rendimento meccanico”). L’autoemotrasfusione ha fatto fare un balzo in avanti su questa strada e per molti anni è stata considerata una pratica tacitamente lecita, tanto che molti atleti ammettevano candidamente di praticarla. Quando anche l’autoemotrasfusione diventò doping, sembrò che nessuno ne avesse mai sentito parlare (tra i più famosi “smemorati”, ricordo il campione olimpico, mondiale ed europeo Alberto Cova).

A dispetto di ciò che si pensa comunemente, del doping si parla pochissimo. I luoghi comuni e le bugie si sprecano in questo campo e l’atleta “beccato” dall’antidoping, fa l’effetto contrario di ciò che si dovrebbe pensare: non sono i controlli che funzionano, è l’atleta trovato positivo e il suo staff che hanno sbagliato tempi, dosi o sostanze. È una verità ammessa anche dagli esperti del campo, che il doping è sempre, come minimo, un passo avanti all’antidoping.

Una delle tante storie del passato, sepolte e dimenticate. Kaarlo Maaninka era un mezzofondista finlandese che, alla vigilia delle Olimpiadi di Mosca del 1980, vedeva la più grande manifestazione sportiva del mondo alla sua portata. Maaninka era tra i migliori atleti finlandesi dei 5000 e 10000 metri e tolta la poltrona offerta “al buio” dalla sua federazione al mito di Lasse Viren (vincitore delle due specialità nelle precedenti Olimpiadi di Monaco e Montreal), sapeva bene di poter aspirare ad un posto in squadra; alla soglia dei trent’anni, si rendeva conto che quella era la sua ultima occasione. Purtroppo, se ne rese conto anche la federazione finlandese, che, in parole povere (ma chiare), ricattò l’atleta: o autoemotrasfusione o niente Olimpiadi. Maaninka accettò, proprio in virtù (!) della considerazione sull’ultimo “bus” disponibile e gli andò più che bene: medaglia d’argento nei 10000 e medaglia di bronzo nei 5000, in entrambi i casi alle spalle dell’uomo senza età, l’etiope Miruts Yfter. Qualche anno dopo, Maaninka denunciò il ricatto del quale era stato vittima e mise in guardia verso gli effetti dell’autoemotrasfusione (che all’epoca non era ancora considerata pratica dopante) che cominciavano a creargli gravi problemi di salute (non vorrei ricordare male, ma mi sembra che Maaninka fosse intenzionato addirittura a restituire le due medaglie vinte). La cosa, come scritto, non ebbe la benchè minima ripercussione.

In un caso sono stato testimone del collasso di un atleta, salvato dal pronto intervento di un medico presente in campo; quell’atleta, a trent’anni suonati, aveva sbriciolato i suoi record personali nei 5000 e 10000 metri nella prima parte della stagione, record che aveva stabilito tra i 20 e i 22 anni, tutto questo, l’anno dopo aver cambiato allenatore e aver cominciato le frequentazioni di un centro medico-sportivo ferrarese oggetto d’indagini nelle inchieste sul doping.

ERWANN MENTHÉOUR: “L’IMPORTANTE È NON PISCIARE”

Scoprii il caso di Erwann Menthéour grazie ad un articolo di Linus (numero 7, anno XXXV, luglio 1999). Menthèour era alla Parigi-Nizza: al termine di una tappa gli fu riscontrato un valore di ematocrito di 58, inspiegabilmente, da un certo punto di vista. Il giorno prima aveva 48, era tranquillo, ma il comportamento metabolico non è un’assoluta certezza. Il ciclista avrebbe potuto ricorrere ad uno dei trucchetti usati dai direttori sportivi in caso di ematocrito troppo alto, un’assunzione di sodio o comunque di sostanze anticoagulanti e vasodilatatorie, ma il dato era troppo alto: “Al massimo lo avrei portato a 52-53, proprio come quello di Pantani”.
L’episodio porta Menthéour a riflettere, forse per la prima volta dopo anni. È sposato, è diventato padre alla giovane età di vent’anni: ha un senso tutto questo? Potrebbe incassare la squalifica di pochi mesi, ritornare il sella e ricominciare quella vita fatta di medicinali per andare più forte e di medicinali che cercano di attenuare gli effetti dei medicinali precedenti. No, qualcosa non funziona in tutto questo, specialmente la scoperta che gli ex ciclisti difficilmente diventano nonni, stroncati dalle sostanze e dalla fatica.

Erwann Menthéour decide di smettere e di raccontare tutto, prima attraverso la stampa e la televisione e poi con un libro, provocando una sollevazione da parte di tutti i “veri” sportivi e accuse d’invenzione e d’esagerazione, fino a quando l’ex direttore sportivo dello stesso Erwann, Marc Madiot, fu incarcerato per possesso di anfetamine.
Gli esperti tacquero e si misero in moto i “professionisti”: minacce di morte dirette allo stesso Menthéour, riferimenti anonimi alla scuola frequentata dalla figlia e alla targa della propria automobile. Menthéour si ritrovò nel girone delle persone indesiderabili da chiunque. Lo “sportivo” in pantofole non vuole vedere i propri miti distrutti, preferisce non sapere; il giornalista “per modo di dire” non accetta che gli si tolga il pane con cui lavora tutti i giorni e infine, il collega corridore, che sa perfettamente come vanno le cose, preferisce tacere.
Menthéour decide di parlare e di abbandonare il ciclismo, anche perché toccato da vicino dal caso di un amico che prendeva le sue stesse sostanze: l’amico e collega ebbe un malore gravissimo, poi contrasse il cancro e nel 1999 era in punto di morte. Il fatto, molto vicino a lui come persona e non come atleta, unito alla squalifica per doping, provocò il rigetto.

“Mi ha fatto impressione, perché sta dicendo esattamente quello che dicevo io quando mi hanno beccato dopo la Parigi-Nizza del ’97. Dicevo che non era possibile, che non avevo i livelli così alti. Che non poteva essere. Negavo il negabile”. È Menthéour che parla di Pantani, nel 1999. Quanti ciclisti assumono sostanze dopanti, in particolare l’Epo, chiede l’intervistatore: “Ti posso dire che due anni fa in Francia, il 90% dei corridori lo prendeva. Che dico, il 99. Ma non è solo il ciclismo. Nel calcio ci sono tanti che prendono l’Epo, soprattutto da voi, che siete stati i primi al mondo a prendere questa sostanza”.
È chiamata la “rinascita italiana” o il “rinascimento italiano” nel mondo drogato del doping. Fu proprio in Italia che si cominciò a usare l’Epo, nel lontano 1990.
Pantani, fermato al giro d’Italia del 1999, fu un capro espiatorio per molti, continua Menthéour: “Sono tutti contenti, perché hanno beccato lui e non loro”. Pantani era invischiato in quel gioco, molto più grande di lui, in un periodo in cui le vicende del doping nel ciclismo avevano scosso l’opinione pubblica. Ben venga l’agnello sacrificale, in sostanza.
Erwann Menthéour, a 24 anni, fu una vera promessa del ciclismo francese. Il 1997 doveva essere l’anno della sua esplosione. In una delle prime gare dell’anno, la Classica Almeira, Menthéour partì in fuga solitaria poco dopo mezz’ora di corsa: 200 chilometri in testa con tre squadre al completo a lavorare nel gruppo nel tentativo di arginarne i minuti di vantaggio. Il corridore francese fu ripreso a tre chilometri dal termine dal già campione del mondo russo Konyshev, il quale gli chiese se avesse pedalato dietro a una macchina. “Il mio tachimetro oscillava continuamente tra i 55 e i 60 orari. Sensazioni straordinarie”. La successiva Parigi-Nizza lo vide tra i favoriti, ma una forte diarrea, che lo colpì alla vigilia del prologo, aggiunta all’assunzione dell’olio di Haarlem per pulire il fegato, lo portò alla disidratazione. I controlli del sangue erano da poco obbligatori e i corridori ne erano terrorizzati. La squadra di Menthéour controllò l’emotocrito del francese: 57! Gli venne somministrato ACTH, un farmaco che provoca ritenzione idrica e quindi, dovrebbe portare alla diluizione del sangue. Menthéour ebbe la (s)ventura di essere sorteggiato per il controllo dell’ematocrito. Nelle sue condizioni, si diffuse il panico nella squadra; il medico gli praticò un’iniezione di soluzione glucosata, ma fu tutto inutile. L’ematocrito riscontrato a Menthéour, 58 per cento, doveva prevedere, in teoria, una sospensione di quindici giorni (decisa dagli stessi corridori all’inizio di quella stagione per gli atleti con un livello di ematocrito superiore al 50%), la stessa che doveva essere comminata agli altri due ciclisti beccati con il corridore francese, gli italiani Luca Colombo e Antonio Santaromita. Le pressioni di un direttore sportivo, Manolo Saiz della Once, fecero chiudere un occhio, anzi, tutti e due, ai dirigenti dell’Unione Ciclistica Internazionale e i ciclisti, con una decisione incredibile, furono autorizzati a partire per il prologo della Parigi-Nizza. La squalifica giunse in una delle tappe successive.

Dall’inizio del 2003 al giorno della morte di Pantani, 14 febbraio 2004, sono sette i ciclisti morti in circostanze dubbie, senza contare Marco Pantani. L’ultimo proprio il 14 febbraio: Johan Sermon, giovane promessa belga di 21 anni, morto nel sonno, una notizia passata sotto silenzio, ovviamente, come tutti i casi simili del passato che non abbiano coinvolto un nome famoso. Prima di lui, muore nel dicembre 2003 José Maria Jimenez, grande scalatore spagnolo: infarto a 32 anni, durante un ricovero in una clinica psichiatrica in seguito a una profonda depressione. In gennaio era toccato a Denis Zanette, altro infarto a 33 anni. In giugno il 23enne Fabrice Salanson era deceduto nel sonno, alla vigilia del Giro di Germania; in novembre era toccato a una speranza del ciclismo italiano, Marco Rusconi, 23 anni e ancora infarto.

Tutto normale? L’inchiesta cominciata a Padova dalla Guardia di Finanza nel 1999 e continuata con i blitz al Giro d’Italia del 2001 e alla Tirreno-Adriatico del 2002, ha portato a risultati clamorosi, ma noti a pochi intimi. I “cosiddetti” giornalisti seri non hanno tempo per queste baggianate. Lo sapevate che Ivan Gotti, vincitore di due Giri d’Italia (compreso il Giro del 1999, quello della squalifica Pantani), ha patteggiato dopo l’accusa di doping al Giro del 2001? Patteggiare significa ammettere il dolo per avere uno sconto di pena. Nel camper dei genitori di Gotti fu trovato di tutto in occasione di una tappa di montagna di quel Giro, una vera e propria farmacia ambulante. Gotti ha chiesto il patteggiamento con una pena di cinque mesi, ma ancora una volta, è noioso ripeterlo, il fatto è passato sotto silenzio o quasi. Bisognerebbe rileggersi le dichiarazioni dello stesso Gotti, avviato verso la vittoria del suo secondo Giro d’Italia dopo l’esclusione di Marco Pantani, nel 1999.

La risposta dei dirigenti internazionali? Un calendario sempre più folto, una stagione sempre più lunga, prestazioni sempre più difficili da mantenere anno dopo anno. Quando Ben Johnson fu trovato positivo alle Olimpiadi di Seul del 1988, le reazioni furono scandalizzate, le dichiarazioni improntate unanimemente verso la lotta senza quartiere al doping: “I controlli ormai sono impossibili da aggirare”, dissero in molti. Prova che tutte le prestazioni precedenti al 1988 dovevano essere messe in dubbio, evidentemente. Quali furono le mosse della IAAF, la Federazione Internazionale dell’Atletica Leggera, allora guidata da Primo Nebiolo? Prima di tutto, la “grazia” a Linford Christie, trovato positivo in quelle stesse Olimpiadi e tenuto in gara, poi i Campionati del Mondo di atletica leggera ogni due anni, invece dei quattro precedenti. Decisioni dure e sofferte, sicuramente.
Primo Nebiolo fu tra i protagonisti della mitica sceneggiata del salto in lungo ai Campionati del Mondo di atletica leggera del 1987, a Roma. Con una serie di manovre raccontate dettagliatamente in un libro di Sandro Donati, l’organizzazione italiana spostò tutti i giudici stranieri (o estranei al complotto) dalla pedana del salto in lungo, piazzandone altri a conoscenza di ciò che si doveva fare e “regalò” una quarantina di centimetri all’ultimo salto di Giovanni Evangelisti, fino a quel momento quarto; con quei centimetri, Evangelisti ebbe il terzo posto e la medaglia di bronzo (in seguito restituita al legittimo proprietario). È questo il grado di etica sportiva e rispetto verso la vita degli atleti, di chi dovrebbe combattere il doping dall’alto, dai vertici.

I nomi che posso fare non sono segreti, i fatti neppure. È solo che queste vicende, specialmente nel passato, sembravano scritte con il bromuro invece che con l’inchiostro. Alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 si corse un incredibile 10.000 metri, non tanto per il risultato cronometrico finale, ma per ciò che successe da metà gara in avanti. Il finlandese Marti Vainio scattò ai 5000 metri, dopo una prima parte di gara lenta e si tirò dietro il solo Alberto Cova. Fu una seconda metà gara pazzesca a livello cronometrico, ma chi non è addentro perfettamente nei meccanismi dei tempi e delle gare, difficilmente può stupirsi di fronte a prestazioni simili. Cova vinse in volata e dopo la vittoria disse di non avere mai fatto tanta fatica. La gara di Marti Vainio fu decisamente marziana e quella di Cova, l’unico a resistergli, pure. Qualche giorno e giunse la notizia della squalifica di Vainio per doping, nell’indifferenza generale. In quelle stesse Olimpiadi, il martellista Giampaolo Urlando conquistò un ottimo quarto posto e poi si fermò negli Stati Uniti per una serie di gare. In una di queste, fu trovato positivo e squalificato e in quell’occasione decise di terminare la propria carriera. In Italia, silenzio quasi totale.
In quegli anni moltissimi mezzofondisti venivano colpiti dalle microfratture da stress. L’autoemotrasfusione porta l’atleta verso limiti impossibili da raggiungere normalmente e il fisico, comprese le ossa, a un certo punto cede. Dave Moorcroft, inglese primatista del mondo dei 5000 metri, riportò microfratture alle ossa di entrambi i piedi e dovette smettere l’attività.

Negli anni ’70 molti si chiedevano come fosse concepibile una carriera come quella del finlandese Lasse Viren, vincitore di 5000 e 10000 metri in due Olimpiadi consecutive (Monaco 1972 e Montreal 1976; in quest’ultima corse anche la maratona, piazzandosi quinto) e capace ancora di un quinto posto sui 10000 alle Olimpiadi di Mosca del 1980. Tra un’Olimpiade e l’altra, Viren era un anonimo mezzofondista capace di rare imprese (come il terzo posto agli europei di Roma del 1974). Le pratiche allora lecite venivano ammesse senza problemi e l’autoemotrasfusione, inventata proprio dai finlandesi, era all’ordine del giorno. Fu in quegli anni ’70 che gli italiani cominciarono a scegliere la Scandinavia e in particolare la Finlandia, per la rifinizione della preparazione. Il doping, insomma, affonda le sue radici nel passato più o meno remoto. Smettiamola di credere a un’era d’oro dello sport pulito, immancabilmente posta nel passato. Chi ha letto qualcosa della storia greca, per fare un esempio illuminante, si è imbattuto nei racconti delle pratiche dopanti degli atleti durante le Olimpiadi antiche. La differenza è tutta nella sistematicità e nella professionalità sempre più scientifica delle pratiche e dei metodi. Il mondo del doping difficilmente potrà essere sconfitto, troppi gli interessi e i soldi che alimenta e non sto parlando dello sport professionistico: l’iceberg, la parte nascosta e difficilmente rilevabile, è tutta nello sport amatoriale. Il disgusto totale per l’ambiente sportivo che mi fece abbandonare l’atletica molti e molti anni fa, è ancora presente. È inaccettabile che la condotta di atleti come Marco Pantani, atleti che fanno sognare le persone e in special modo i ragazzini che si avvicinano allo sport, sia responsabile del circolo vizioso che porta quegli stessi ragazzini a contatto con gli spacciatori travestiti da direttori sportivi o allenatori. È questo che fa incazzare. È questo che aumenta la tristezza per la morte di un ragazzo naturalmente dotato come Marco Pantani, ma che in un mondo sportivo immerso nelle sostanze dopanti non avrebbe avuto la possibilità di emergere.

Io sono solamente uno scemo che ha praticato lo sport a livello agonistico per sedici anni e che è stato sfiorato da casi simili. Sono solo un ex atleta che alla partenza di un 1500 metri, in un caldo pomeriggio di fine maggio del 1982, in compagnia di un’altra cinquantina di atleti, sentì dalla voce dello speaker la notizia della morte di Fulvio Costa, un talento naturale come pochi, vicentino di 23 anni, una morte avvolta nel mistero. Fulvio Costa fu morso da un cane mentre correva, un pericolo costante per quelli come me e come lui, fu ricoverato, peggiorò giorno dopo giorno e morì. Per il morso di un cane?
A quei tempi l’assunzione di Epo non era considerata doping. Ricordo che il padre di Fulvio Costa disse: “Cos’hanno fatto a mio figlio?” e non si riferiva a un cane che morde le persone. Ricordo che in quella stessa estate 1982, Alberto Cova vinceva a mani basse i 10.000 metri ai Campionati Europei di Atene. Ricordo che lo stesso Cova ammise candidamente, in un’intervista apparsa su un giornale di settore, di aver praticato l’autoemotrasfusione e di aver negato la stessa pratica qualche anno dopo, quando l’autoemotrasfusione diventò doping.
Ricordo che eravamo sulla linea di partenza di quella gara, un 1500 metri, la gara che aveva dato grandi soddisfazioni a Fulvio Costa, il titolo italiano a sorpresa del 1978, la seconda prestazione italiana di tutti i tempi, nel 1979, a nemmeno vent’anni. Ci venne dato un “al tempo”, ricordo la voce rotta dello speaker, la notizia terribile: Fulvio Costa è morto... Ricordo in quanti scoppiammo a piangere, chi lo conosceva di vista, chi lo conosceva da una vita.

Una delle poche notizie rintracciate sulla vicenda di Fulvio Costa:

“Ufficialmente la causa e' l'infezione ematica scaturita per il morso di un cane ricevuto durante un allenamento. Increduli commentiamo l'accaduto, quante volte correndo ci siamo trovati nella stessa situazione di pericolo; morire a 23 anni per una tale banalita' ci sembra assurdo per noi giovani atleti, sembrava inconcepibile incontrare la morte nel nostro momento di maggiore forza e vitalita'. Dopo quasi venti anni, pero', rileviamo dagli organi di stampa che degli inquetanti parametri vengono alla luce e fanno quantomento dubitare sulle ufficiali motivazioni. L'ematocrito al momento del ricovero era pari a 50, pochi giorni prima della morte cala a 16. Solo oggi la medicina rivela a tutti che la situazione e' analoga a quella che si riscontra negli odierni atleti che assumono massicce dosi di Epo e che cessano il trattamento. Questa morte assurda e' rimasta seppellita per anni fino a che il Pubblico Ministero andidoping, che ha preso in esame il fascicolo, ha formulato l'ipotesi accusatoria di omicidio colposo contro ignoti. I periti incaricati dal Pubblico Ministero, hanno appurato che l'atleta era stato sottoposto ad autoemotrasfusione e quindi l'infezione che ne ha distrutti i reni e' plausibile con queste pratiche mediche poi divenute illegali nel 1989. Altro fattore che incuriosisce su tutta questa dolorosa vicenda e' il fatto che la Federazione ha indirettamente ammesso la sua responsabilita' sull'accaduto, risarcendo la morte dell'atleta avvalendosi di una polizza assicurativa valida solo in caso di decesso od invalidita' legata solo ad attivita' agonistiche. Questa triste storia si interseca o forse e' stata riesumata in seguito all'avvio di un'altra indagine della magistratura che riguarda il Prof. Conconi”.

Caio

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