Re: Civiltà Ebraica

Inviato da  edo il 4/3/2012 10:07:58
Quei bambini legati mani e piedi ad una sedia
Tommaso Caldarelli

INSULTI E MINACCE – Trattati come pezze da piedi, quando va bene. “Arrestati di notte”, racconta il Guardian, “legati mani e piedi con corde di plastica, accecati, abusati verbalmente e fisicamente, minacciati”, trattati a male parole (“figlio di p*****, cane” sarebbero improperi particolarmente comuni), “trattenuti in isolamento”, senza che i genitori nulla sappiano del loro destino al momento dell’arresto, senza tutela legale e in strutture in prevalenza israeliane, “il che rende particolarmente difficile” qualsiasi ipotesi di visita o di contatto con le famiglie, palestinesi e dunque persone non gradite oltre i confini del loro contestato Stato. Come abbiamo detto, l’articolo del Guardian è una raccolta di una grande serie di documenti ufficiali elaborati da organizzazioni non governative che si occupano di studiare e tutelare i bambini palestinesi nei territori israeliani: sono realtà “bipartisan”, potremmo dire, nel senso che sia organizzazioni israeliane che palestinesi raccolgono dati, testimonianze e documenti utili a denunciare ed affrontare il problema: fra i documenti citati, c’è No Minor Matter, della “B’Tselem – The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories”, e le testimonianze raccolte dalla sezione palestinese di Defense for Children International: “Non stiamo dicendo che non ci sono colpe. Diciamo che i bambini hanno diritti”, dice il responsabile di DCI. “Indipendentemente dalle accuse a loro carico, non dovrebbero essere arrestati di notte in terribili raid, non dovrebbero essere legati e bendati per ore, dovrebbero essere informati del diritto di rimanere in silenzio e dovrebbe essere permessa la presenza di un genitore durante gli interrogatori”. Nella tabella del rapporto della B’Tselem, i numeri di questi arresti.

MOHAMMED – Il racconto della loro esperienza nelle prigioni di Al Jalame e Petah Tikva è particolarmente crudo nelle parole dei piccoli. Ad esempio, Mohammed viene da Tulkarm, città della striscia di Gaza. Lo scorso gennaio, all’età di 16 anni, i militari hanno fatto irruzione in casa sua intorno alle 2 del mattino: “Erano in quattro e mi hanno detto devi venire con noi, senza dirmi perché, senza dire niente a me o ai miei genitori”. Legato, accecato, secondo ciò che lui pensa sarebbe stato condotto in una delle colonie israeliane, dove è stato fatto inginocchiare per un ora in una strada asfaltata nel freddo della notte. Poi, è stato portato ad Al Jalame, struttura detentiva sulla strada che va da Nazareth ad Haifa. Test medico, e poi è stato sbattuto nella cella 36, dove ha passato 17 giorni in isolamento. “Stavo da solo, ero spaventato e avevo bisogno di parlare con qualcuno. Ero disperato, volevo qualcuno da incontrare, con cui parlare. Ero annoiato, così tanto che quando ho visto la polizia fuori dalla cella e ho visto la polizia che parlava in ebraico, io non parlo ebraico, ma annuivo ad ogni cosa dicessero. Ero disperato, volevo parlare con qualcuno”. Certo, non come è stato costretto a parlare, interrogato nella stanza, legato alla sedia: “Mi hanno minacciato, hanno detto che avrebbero arrestato la mia famiglia se non avessi confessato”. Di qualcosa che lui non aveva fatto, a suo dire, dato che si è sempre professato innocente. “Ho visto un avvocato non prima di 20 giorni dopo l’arresto”, racconta Mohammed.

E GLI ALTRI – Sameer Saher è di Azzer. Aveva 12 anni quando gli agenti di polizia sono entrati a casa sua, sempre di notte. “Un soldato mi ha preso per le gambe e mi ha portato alla finestra; mi ha detto: ‘Quasi quasi ti butto di sotto’, ricorda il ragazzo. “Mi hanno picchiato sulle gambe, sullo stomaco, sul volto”, racconta Sameer. Ezz ad-Deen Ali Qadi, diciassette anni quando è stato arrestato, in prigione stava lentamente impazzendo. “Mi ripetevo le domande degli interrogatori, chiedendomi”, racconta, “se avessero ragione. Inizi a sentire la pressione della cella, allora pensi alla tua famiglia. E ti senti come se perderai il futuro. Lo stress è enorme”, racconta; come se non bastasse, i secondini si prendono anche gioco dei ragazzi: “Ti chiedono se hai sete, portano l’acqua e se la beve il poliziotto”. Alla fine, i piccoli confessano: Mohammed ha confessato di essere affiliato ad un’organizzazione proibita, il che gli è costato oltre un mese di galera. Ezz ha confermato di aver tirato pietre e di aver “pianificato operazioni militari”, il che gli è costato sei mesi di libertà; “il Guardian ha documenti di altri cinque giovani detenuti in isolamento ad Al Jalame e Petah Tikva. Tutti hanno confessato dopo essere stati interrogati”. Il padre di Yahir è riuscito ad entrare nella cella dove il figlio era detenuto: non lo ha trovato molto in forma. “Ho visto i segni dell’elettroshock, erano visibili da dietro il vetro. Gli ho chiesto se lo avevano utilizzato su di lui, e ha annuito. Aveva paura che qualcuno lo stesse ascoltando”, ha detto Odwan.
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