Re: L'angolo della letteratura

Inviato da  doktorenko il 17/11/2014 9:43:53
«E ricorrere alla medicina», continuai, «non solo per ferite o per certe malattie che si ripetono ogni anno, ma anche perché, a causa della pigrizia e del regime di vita che abbiamo descritto, ci si riempie di umori e vapori come le paludi, e costringere i dotti Asclepiadi a dare alle malattie i nomi di flatulenze e catarri, non ti sembra vergognoso?»

«E come!», rispose. «Questi nomi di malattie sono davvero nuovi e strani».

«Ma non esistevano», dissi, «al tempo di Asclepio, credo! Lo arguisco dal fatto che a Troia, quando Euripilo fu ferito, i suoi figli non trovarono nulla da ridire alla donna che gli diede da bere vino di Pramno cosparso di molta farina e formaggio grattato, una medicina che mi sembra infiammatoria, né rimproverarono Patroclo per la sua cura».

«In effetti», disse, «è una pozione strana per chi è in quelle condizioni!».

«No», replicai, «se consideri che la medicina d'oggi, educatrice delle malattie, a quanto dicono non era praticata dagli Asclepiadi prima che nascesse Erodico. Questi era un allenatore che, ammalatosi, mescolò la ginnastica alla medicina e dapprima tormentò soprattutto se stesso, in seguito molti altri».

«In che modo?», chiese.

«Prolungando la propria morte», risposi. «Benché seguisse attentamente il decorso della sua malattia mortale non riuscì, credo, a guarirne, ma passò la vita a curarsi mettendo da parte ogni altro interesse e tormentandosi per ogni minima trasgressione al suo consueto regime, e grazie alla sua abilità giunse mezzo morto alla vecchiaia».

«Ha riportato davvero un bel premio per la sua arte!», esclamò.

«Quello che si addice», ripresi, «a chi ignora che Asclepio non rivelò ai suoi discendenti questo aspetto della medicina non per ignoranza o per inesperienza, ma perché sapeva che in ogni città governata con buone leggi a ciascuno è assegnato un compito da eseguire, e nessuno ha tempo libero per stare malato e curarsi tutta una vita. Ed è ridicolo che noi facciamo caso a questo comportamento negli artigiani, ma non lo avvertiamo in quelli che danno l'impressione di essere ricchi e felici».

«In che senso. », domandò.

«Un falegname», spiegai, «quando si ammala, chiede al medico di dargli una pozione per vomitare fuori la malattia, oppure di guarirlo con una purga o con una cauterizzazione o con un'incisione; se però gli viene prescritta una cura lunga, che prevede berretti di lana in testa e cose del genere, dice subito che non ha tempo per essere malato e non gli serve vivere badando alla sua malattia e trascurando il lavoro che lo attende. Dopo di che manda tanti saluti a un medico simile e ritorna al regime di vita consueto, riacquista la salute e vive praticando il suo mestiere; se invece il suo corpo non è in grado di reggere, si libera dei suoi affanni con la morte».

«A un uomo del genere», disse, «sembra proprio confacente questo utilizzo della medicina».

«Ma non è forse perché aveva un lavoro da svolgere, e se non lo avesse fatto non gli sarebbe servito continuare a vivere?»

«è evidente», rispose.

«Mentre il ricco, diciamo, non ha per le mani un lavoro tale, che non gli consente di vivere se è costretto a starne lontano?»

«Così almeno si dice».

«Allora», proseguii, «non ascolti le parole di Focilide: quando si ha di che vivere, si deve esercitare la virtù».

«Bisogna farlo anche prima, penso»

La Repubblica, Platone

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