Re: L'angolo della letteratura

Inviato da  doktorenko il 21/7/2015 19:23:59
Per chi non si droga, colui che si droga è un "diverso". E come tale viene generalmente destituito di umanità, sia attraverso il rancore razzistico che si attirano sempre addosso i "diversi", sia attraverso l'eventuale comprensione o pietà. Nei rapporti col "diverso" intolleranza o tolleranza sono la stessa cosa.
C'è da dire tuttavia che mentre gli intolleranti credono che la diversità dei diversi non abbia spiegazioni e quindi meriti soltanto odio, i tolleranti si chiedono spesso, più o meno sinceramente, quali siano le ragioni di tale "diversità".

Ora tanto io che il mio lettore siamo dei "tolleranti": c'è da avere qualche dubbio su questo? Perciò la domanda che pongo è la seguente: "Per quale ragione quei "diversi" che sono i drogati si drogano?"
C'è indubbiamente una spiegazione che riguarda i singoli, e cioè la psicologia. Se io parlo e analizzo - senza né moralismo né sentimentalismo né complicità - un singolo drogato, ho subito una vita concreta da prendere in esame: con la sua infanzia, i suoi genitori, i suoi mali, ecc. Quindi quel poco di sapere psicanalitico di cui ogni intellettuale può disporre è sufficiente a trarre qualche diagnosi: la quale diagnosi è però eternamente la stessa: desiderio di morte. Tale "fine" individuale - spesso anche consapevole - getta una luce, retroattiva e dal basso, su tutta l'individualità analizzata, che ne è così resa profondamente coerente:un tutto unico a sé stante. La "diversità" è sempre inaccessibile.

Ma se il rapporto col singolo drogato non ha, come dire, sbocchi, è irrelato - e l'eccesso di concretezza di un "caso" umano, è come sempre elusivo rispetto alla storia - al contrario il rapporto con la massa dei drogati, o, meglio, col fenomeno della droga, può essere reso parlabile, razionalizzato, storicizzato.

"Per quanto riguarda la mia personale, e assai scarsa esperienza, ciò che mi par di sapere intorno al fenomeno della droga, è il seguente dato di fatto: la droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. Detta così la cosa è certo troppo lineare, semplice e anche generica. Ma le complicazioni realizzanti vengono quando si esaminano le cose da vicino. A un livello medio - riguardante "tanti" - la droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura.

Per amare la cultura occorre una forte vitalità. Perchè la cultura - in senso specifico o, meglio, classista - è un possesso: e niente necessita di una più accanita e matta energia che il desiderio di possesso. Chi non ha neanche in minima dose questa energia, rinuncia. E poiché in genere, a causa dei suoi traumi e della sua sensibilità si tratta di un individuo destinato alla cultura specifica, dell'élite, ecco che si apre intorno a lui quel vuoto culturale da lui del resto disperatamente voluto (per poter morire): vuoto che egli riempie col surrogato della droga. L'effetto della droga, poi, mima il sapere razionale attraverso un'esperienza, per così dire, aberrante ma, in qualche modo, omologa ad esso.
Anche a un livello più alto si verifica qualcosa di simile: ci sono dei letterati e degli artisti che si drogano. Perchè lo fanno? Anch'essi, credo, per riempire un vuoto: ma stavolta si tratta non semplicemente di un vuoto di cultura, bensì di un vuoto di necessità e di immaginazione. La droga in tal caso serve a sostituire la grazia con la disperazione, lo stile con la maniera. Non pronuncio un giudizio. Dico una cosa. Ci sono delle epoche in cui gli artisti più grandi sono appunto dei disperati manieristi.

Il lettore avrà sicuramente notato che fin qui ho parlato del fenomeno della droga negli stessi termini in cui avrei potuto parlarne dieci o venti anni fa; per non dire un secolo fa.

Ho parlato cioè di un insieme di singoli, che, per delle loro buone ragioni, hanno voluto perdersi, fare il "gran rifiuto", rinunciando al grande e consolatorio usufrutto dei valori vigenti di una cultura e alle lusinghe di quel possesso oggettivo in cui essa consiste nel caso concreto e individuale. Ho parlato infatti della cultura specifica, di élite: di classe.

Ma la parola "cultura" non indica soltanto la cultura specifica, d'élite, di classe: indica anche, e prima di tutto (secondo l'uso scientifico che ne fanno gli etnologi, gli antropologi, i migliori sociologi) il sapere e il modo di essere di un paese nel suo insieme, ossia la qualità storica di un popolo con l'infinita serie di norme, spesso non scritte, e spesso addirittura inconsapevoli , che determinano la sua visione della realtà e regolano il suo comportamento.

Ora, ci sono dei periodi storici in cui non c'è spazio per la droga: o meglio, tale spazio in altro non consiste che nel vuoto culturale "interiore" di singoli individui, che hanno deciso di anticipare con tale vuoto la propria morte e di accelerarla col surrogato culturale della droga. Uno dei periodi storici in cui non si è avuto spazio per la droga è stato per esempio il periodo storico che abbiamo da poco e, a quanto pare, così felicemente, superato: si trattava infatti di un periodo di repressione clerico-fascista (i vent'anni di fascismo e i trent'anni democristiani). In tale periodo infatti (parlo dell'Italia: sono, ancora, a mio scorno, italianista e dialettologo) persisteva nella classe dominata - cioè praticamente in un paese che non aveva fatto nessuna rivoluzione - in cui la classe dominante era numericamente un'oligarchia (il Vaticano, le grandi industrie del nord e poco altro) - e i ceti medi non erano altro che grandi masse plebee a un livello economico appena più alto - persisteva, dico, nell'intero popolo italiano contadino e paleoindustriale, una cultura - o meglio, un insieme di culture particolariste - in cui i valori e i modelli erano solidissimi, e la "tradizione" esclusiva.

"Reprimere" tale popolo, da parte dei poteri clerico-fascisti che si sono succeduti, consisteva nel dare un senso ufficiale (e quindi idiota, alienato) ai valori reali di tale tradizione popolare: e imporlo con la forza poliziesca.

In una tale situazione storica il fenomeno della droga non poteva che essere un fenomeno strettamente borghese: la droga cioè non poteva che essere il surrogato di una cultura specifica, d'élite, classista. Il popolo non c'entrava. La sua "cultura" non era in discussione né in crisi: era così com'era da secoli, per non dire da millenni (ogni tradizione popolare è in realtà transnazionale).
E' vero che anche oggi, se vado a Piazza Navona e incontro un drogato che passa ciondolando con aria noiosa e vagamente sinistra, sento in lui i caratteri dell'infelicità e del rifiuto piccolo borghese: e maledico la misteriosa circostanza che ha costretto, lui singolo, a fumare dell'hascisc invece di leggere un libro. Tuttavia l'incontro di Piazza Navona, pur essendo per così dire rituale, non è però tipico. E' infinitamente più tipico incontrare un drogato in un bar di Piazza del Cinquecento o al Quarticciolo.

Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che il fenomeno della droga ha cambiato radicalmente carattere rispetto a quello che esso era dieci o vent'anni fa. E' divenuto cioè un fenomeno che riguarda la massa e comprende dunque tutte le classi sociali (anche se il suo "modello" resta piccolo borghese, ed è magari quello fornito dalla contestazione).
Dunque noi oggi viviamo in un periodo storico in cui lo "spazio" (o "vuoto") per la droga è enormemente aumentato. E perché? Perché la cultura in senso antropologico, "totale", in Italia è andata distrutta. Quindi i suoi valori e i suoi modelli tradizionali (uso qui questa parola nel senso migliore) o non contano più o cominciano a non contare più.

Per esempio: i due valori "Dio" e "famiglia", che sono due valori idioti e alienati quando in nome loro parlano i preti o i moralisti (magari in divisa), ma che sono invece due valori tout court, quando in nome loro si istituisce una vita popolare - magari sotto il livello di quella che noi chiamiamo storia - oggi non contano più: in nome loro non si può più parlare ad alcun giovane; e tanto meno ad un giovane drogato. La caduta del prestigio "irrelato" di tutti i valori di una intera cultura, non poteva non produrre una specie di "mutazione" antropologica, e non poteva non causare una crisi "totale". Tutte le classi sociali ne sono coinvolte, e la perdita dei valori riguarda tutti, benché i più colpiti siano i giovani delle classi povere: appunto perchè essi vivevano una "cultura" ben più sicura e assoluta di quella vissuta dai giovani delle classi dominanti.

Vedo che sull'Unità (20 luglio 1975) si tende a "limitare" il fenomeno della droga, con preoccupazione in fondo sdrammatizzante, o colpevolizzando, secondo uno schema troppo classico, la società. In realtà il fenomeno della droga è un fenomeno nel fenomeno: ed è questo secondo fenomeno più vasto che importa: che è, anzi, una vera grande tragedia storica. Si tratta, insisto, della perdita dei valori di una intera cultura: valori che però non sono stati sostituiti da quelli di una nuova cultura (a meno che non ci si debba "adattare", come del resto sarebbe tragicamente corretto, a considerare una "cultura" il consumismo.
Il grande fenomeno della perdita non risarcita dei valori - che include il fenomeno estremistico di massa della droga - riguarda dunque tutti i giovani del nostro paese (eccettuati per ora, come ho già avuto occasione di dire, coloro che hanno fatto l'unica scelta culturale elementare possibile: i giovani iscritti al Partito Comunista Italiano). I giovani italiani nel loro insieme costituiscono una piaga sociale forse ormai insanabile: sono o infelici o criminali (o criminaloidi) o estremistici o conformisti: e tutto in una misura sconosciuta fino ad oggi. Poiché i drogati si pongono per così dire all'avanguardia di questa irrevocabile determinazione dei giovani a vivere un vuoto e una perdita, e di mettersi in condizione di essere inaccessibili, cioè di non accettare più nulla in nome di cui parlare loro (a meno che non si tratti di argomenti sotto-culturali) - per questa ragione, dico, non sono affatto tenero con i giovani che si drogano. Anzi tendo ad avere per essi una aprioristica e forte antipatia. Da una parte c'è la loro ricattatoria presunzione nel compiere un atto sotto-culturale che essi mitizzano; dall'altra c'è la mia insofferenza personale ad accettare la fuga, la rinuncia, l'indisponibilità.

E' per questo che quando Pannella ha compiuto il suo gesto di "disobbedienza" per la depenalizzazione della droga leggera, mi sono subito venuti in mente almeno dieci altri motivi per cui compiere un simile gesto di disobbedienza: naturalmente scavalcando Pannella a sinistra. Prima o poi dirò questi motivi. Ma intanto devo dire che ho capito, tuttavia, che la lotta per la depenalizzazione della droga (per quanto mi riguarda, anche di quella pesante) è un atto centrale e non marginale di una lotta per la reale tolleranza. Perchè?

I miei colleghi intellettuali si dichiarano quasi tutti convinti che l'Italia, in qualche modo, sia migliorata. In realtà l'Italia è un luogo orribile: basta andare qualche giorno all'estero e poi ritornare. Ho avuto la misura dell'abisso in cui gli italiani si dibattono, come vermi, addirittura tornando da Barcellona (città peraltro che dà un'angoscia da togliere il fiato: il passato è irrespirabile). E parlo soprattutto dell'Italia dei giovani. Dunque se c'è qualcuno che, accorgendosi inconsapevolmente, magari, e magari attraverso mitizzazioni sotto-culturali, di questo, vuole morire, come può una società che gli offre di sé un così tragico e ripugnante spettacolo, impedirgli di farlo?

Pier Paolo Pasolini
Corriere della Sera, 24 luglio 1975

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