(La maggior parte dei credenti scivola/sorvola - si sa. Altri/non molti preferiscono inciampare e rompersi qualche osso! Dunque...)
Mi chiedo se ho bisogno d’uno psichiatra che studi un segmento del mio emisfero cerebrale destro/avariato, anzi del tutto fuori/uso (però attivo e produttivo in uno schizofrenico – pare – in cui genera visioni e vaniloqui) per rendermi conto che una comunicazione insulsa e ripetitiva, in cui mi trovi alla lunga invischiato, mi nuoce alla coscienza. La mia coscienza è graduale, divenente… – certo!
Beh, subito mi rispondo: no, non ho bisogno/lo so da me. Se perdo tempo/troppo in una comunicazione sterile perché infantile, balorda o demente (come stare in una chat per ore a schizzare cretinate, o balbettare il tran/tran giorno per giorno con gente che non ha un grammo di sale nella zucca, e stordirmi diversamente, magari drogarmi…) nel preciso istante in cui mi scuoto e mi sveglio so perfettamente di riprendere il mio processo cognitivo. Che chiamo coscienza. Che mi rende continuo/progressivo – m’illudo – in un divenire mentale. (E parallelamente, ad essere sempre più cosciente di me, mi di atrofizzerebbero segmenti del cervello – qualcuno ragiona fitto?… Bene/mi sta bene! – gli fo il verso sbrigativo.)
Mi sembra ovvio che da una comunicazione qualsiasi, che abbia il carattere dell’insuperato o dell’insuperabile – cioè ripetitiva, estenuante, regredente – derivino stati di pseudo/consapevolezza in un perpetuo ossessivo déja-vu – cioè bloccati, calcinati, pietrificati.
Se un primitivo… (Ma quale?… di oggi o di ieri? di qualche millennio fa? dei primordi? – ogni riferimento relativo cambierebbe paurosamente il discorso.) si fa un’idea/una ragione, o semplicemente registra per curiosità, paura, imitazione, brama, libidine, automatismo o altro un evento qualsiasi, un oggetto qualsiasi, un individuo qualsiasi, e tira fuori una formula magica, un disegno evocativo, una orazione appassionata, e finisce coll’inginocchiarsi a uno sciamano/ad un prete o diventarlo lui stesso, io per questo sarei autorizzato, anzi obbligato, ad organizzare la mia idea della trascendenza su quei vecchi fondamenti di visioni e vaniloqui di antenati, gente trapassata chi sa, uomo di Neanderthal?… Macché!
Al presente penso al Divino, non a ‘Dio’: come ‘dopo/morte’, come ‘aldilà’, come dimensione/altra intuendolo scenario, palcoscenico, paesaggio… E lo faccio per scelta/volontà, per crescita/coscienza, per avvicinamento/spazio. A mano a mano mi ci avvicino più che mai attento, riconoscendolo come riconoscerei un uomo che da punto nero in fondo a una strada lunga mi arrivi in faccia a guardarmi… Bene, lo guarderei anch’io forte, fino a girare lo sguardo forse e andarmene salutandolo di sicuro annoiato. (Ah la mia coscienza come si giuoca i vecchi dèi e il dio degli altri!)
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