capisco bene che le teorie di Jaynes possano essere accolte con una certa cautela, ed è giusto che sia così, ma bisogna sempre tenere conto che egli formula questa teoria dopo aver passato la propria vita professionale a studiare il problema della schizofrenia, e ad investigare quegli aspetti della malattia stessa che ancora non avevano una risposta scientifica.
Come ricorda Padma: Quando parla di persone letteralmente possedute, in grado di parlare lingue a loro sconosciute o simili, beh, o mente, oppure questo è un fatto, ed un fatto non scientificamente spiegabile. Per questo, Jaynes offre una chiave di interpretazione. Formula una teoria.
Questo è il punto principale. Nel link riportato sopra c’è materiale abbondante per chi volesse farsi un’idea più completa del libro.
Nero: In merito alle voci e apparizioni degli dei, se si prende alla lettera l'Iliade, saremmo in presenza di voci e allucinazioni collettive che, se non ho frainteso, sarebbero in contrasto con la teoria dello stesso Jaynes.
Jaynes sostiene addirittura che in epoche arcaiche le “allucinazioni” fossero collettive, e in seguito le voci si frammentarono generando confusione ed incomprensione. Tutte le sue asserzioni, anche quelle che appaiono improbabili, sono spiegate e giustificate con un attento studio, con il quale ovviamente si può concordare o meno.
Arriva a fare affermazioni “estreme” come questa:
Formulerò la mia tesi in modo semplice e chiaro. I primi poeti furono dèi. La poesia ebbe inizio con la mente bicamerale. Il lato divino della nostra forma mentale antica, almeno in certi periodi della storia, si esprimeva di solito, o forse sempre, in versi. Ciò significa che in un certo periodo la maggior parte degli uomini doveva udire, durante la giornata, poesia (una specie di poesia) composta e recitata all’interno della propria mente.
Le prove di quanto sostengo sono ovviamente solo indirette. Esse consistono nel fatto che tutti gli individui rimasti bicamerali fino all’epoca cosciente, quando parlavano del o col lato divino della loro mente si esprimevano in poesia. I grandi poemi epici della Grecia venivano ovviamente uditi e recitati dagli aedi come poesia. Gli antichi scritti della Mesopotamia e dell’Egitto sono oscurati dalla nostra ignoranza della pronuncia di queste lingue, ma stando alle traslitterazioni più fidate, anche questi scritti, quando venivano letti, erano poesia. In India i testi letterari più antichi sono i Veda, che furono dettati dagli dèi ai rsi o profeti: anche i Veda erano poesia. Gli oracoli parlavano in versi. Di tanto in tanto i responsi di Delfi e di altri oracoli furono messi per iscritto, e tutti quelli che sopravvivono e che sono più lunghi di una semplice frase sono in esametri dattilici, esattamente come i poemi epici. Anche i profeti ebrei, quando riferivano le parole di Yahwèh da loro udite nelle allucinazioni erano spesso poeti, anche se i loro scribi non preservarono sempre tale linguaggio in versi.
Con lo svanire della mente bicamerale e allorché gli oracoli raggiungono il loro quinto livello, cominciano a manifestarsi le eccezioni. Qua e là i responsi in versi degli oracoli vengono meno. Nel I secolo d.C., per esempio, l’oracolo di Delfi parlava evidentemente sia in versi sia in prosa, e i responsi in prosa venivano poi versificati da poeti al servizio dei templi.
Ma l’impulso stesso a trasporre la prosa oracolare in esametri dattilici è espressione, secondo me, della nostalgia per il divino esistente in questo periodo tardo; esso dimostra ancora una volta che gli oracoli in versi erano stati in precedenza la regola. Anche in epoca posteriore alcuni oracoli continuavano a parlare esclusivamente in esametri dattilici.
Tacito, per esempio, visita l’oracolo di Apollo a Claro attorno al 100 d.C. e descrive come il sacerdote in trance ascolti le richieste dei suoi supplici, poi «beve un sorso d’acqua da una fonte misteriosa e, sebbene sia per lo più ignorante di lettere e di poesia, emette responsi stilati in versi».
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