C'è, ora, qualcosa di cui stupirsi se, dopo essermi attribuita la fortezza e
l'operosità, rivendicherò anche la saggezza? qualcuno potrebbe dire che
è come accoppiare l'acqua e il fuoco. Eppure credo che riuscirò anche in
questo purché voi, come prima, mi prestiate benevola attenzione. In
primo luogo, se la saggezza si fonda sull'esperienza, a chi meglio
conviene fregiarsi dell'appellativo di saggio? Al sapiente che, parte per
modestia, parte per timidezza, nulla intraprende, o al folle che né il
pudore, di cui è privo, né il pericolo, che non misura, distolgono da
qualche cosa? Il sapiente si rifugia nei libri degli antichi e ne trae solo
sottigliezze verbali. Il folle affronta da vicino le situazioni coi relativi rischi
e così acquista, se non erro, la saggezza. Cosa, questa, che sembra
avere visto, benché cieco, Omero, quando dice: "Il folle capisce i fatti".
Sono due infatti i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la
vergogna che offusca l'animo, e la paura che, alla vista del pericolo,
distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai
e osare tutto: pochissimi sanno quale messi di vantaggi ne derivi.
Perché, se preferiscono attingere quella sapienza che consiste nel saper
giudicare delle cose, state a sentire, vi prego, quanto ne sono lontani
coloro che si spacciano per sapienti. In primo luogo, com'è noto, tutte
le cose umane, a guisa dei Sileni di Alcibiade, hanno due facce affatto
diverse. A tal segno che sulla faccia esteriore, come dicono, vedi la
morte, mentre, se guardi dentro, scopri la vita; e, viceversa, al posto
della vita scopri la morte, al posto del bello il brutto, della ricchezza la
miseria, dell'infamia la gloria, della dottrina l'ignoranza, del vigore la
debolezza, della generosità l'abiezione, della letizia la malinconia, della
prosperità la sventura, dell'amicizia l'inimicizia, del salutare il nocivo: in
breve, se apri il Sileno, trovi di tutte le cose l'opposto. Se poi qualcuno
giudica troppo filosofico questo discorso, mi spiegherò, come suol dirsi,
più alla buona.
Chi negherà che un re è ricco e potente? Eppure, se manca del tutto
dei beni dell'animo, se non è mai contento di nulla, è davvero il più
povero di tutti. Se poi il suo animo è una sentina di vizi, è addirittura
uno schiavo abietto. Lo stesso ragionamento si potrebbe fare anche per
gli altri. Ma accontentiamoci dell'esempio proposto. A che scopo?
domanderà qualcuno. State a sentire dove voglio arrivare.
Se uno tentasse di strappare la maschera agli attori che sulla scena
rappresentano un dramma, mostrando agli spettatori la loro autentica
faccia, forse che costui non rovinerebbe lo spettacolo meritando di
esser preso da tutti a sassate e cacciato dal teatro come un
forsennato? Di colpo tutto muterebbe aspetto: al posto di una donna
un uomo; al posto di un giovane, un vecchio; chi prima era un re,
d'improvviso diventa uno schiavo; chi era un Dio, ad un tratto appare un
uomo da nulla. Dissipare l'illusione significa togliere senso all'intero
dramma. A tenere avvinti gli sguardi degli spettatori è proprio la finzione,
il trucco. L'intera vita umana non è altro che uno spettacolo in cui, chi
con una maschera, chi con un'altra, ognuno recita la propria parte
finché, ad un cenno del capocomico, abbandona la scena. Costui,
tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse, in modo che chi prima si
presentava come un re ammantato di porpora, compare poi nei cenci di
un povero schiavo. Certo, sono tutte cose immaginarie; ma la commedia
umana non consente altro svolgimento.
A questo punto, se un sapiente caduto dal cielo si levasse d'improvviso
a gridare che il personaggio a cui tutti guardano come a un Dio e a un
potente, non è neppure un uomo, perché come le bestie si lascia
dominare dalle passioni, che spontaneamente asservito a padroni così
numerosi e turpi, è l'ultimo degli schiavi; e, se ad un altro che piange il
padre morto ordinasse di ridere perché il padre, finalmente, ha
cominciato a vivere, dato che questa vita altro non è che morte; e se
chiamasse plebeo e bastardo un terzo che mena vanto di una nobile
nascita, ma che è ben lontano dalla virtù, unica fonte di nobiltà: se allo
stesso modo parlasse di tutti gli altri, non agirebbe costui proprio in
modo da sembrare a tutti pazzo da legare? Nulla di più stolto di una
saggezza intempestiva; nulla di più fuori posto del buon senso alla
rovescia. Agisce appunto contro il buon senso chi non sa adattarsi al
presente, chi non adotta gli usi correnti, e dimentica persino la regola
conviviale: o bevi o te ne vai, e vorrebbe che una commedia non fosse
più una commedia. Invece, per un mortale, è vera saggezza non voler
essere più saggio di quanto gli sia concesso in sorte, fare buon viso
all'andazzo generale e partecipare di buon grado alle umane debolezze.
Ma, dicono, proprio questo è follia. Non lo contesterò, purché
riconoscano in cambio che questo è recitare la commedia della vita.