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Indice del forum Luogocomune
   Nuovo Ordine Mondiale e società segrete
  mafia e massoneria al TG!

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  •  tommasso
      tommasso
mafia e massoneria al TG!
#1
Mi sento vacillare
Iscritto il: 12/5/2006
Da ZENA
Messaggi: 722
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"I nostri nemici sono creativi e pieni di risorse, e lo siamo anche noi. Loro non smettono mai di pensare a nuovi modi per danneggiare il nostro paese e la nostra gente, e nemmeno noi." 5 agosto 2004 G.W.Bush
Inviato il: 17/6/2008 19:17
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  •  Descartes
      Descartes
Re: mafia e massoneria al TG!
#2
Dubito ormai di tutto
Iscritto il: 21/6/2006
Da Christ = Sun God
Messaggi: 1087
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Questa confessione di un pentito è quanto ho trovato di meglio, e sembra confermare il legame Mafia-Massoneria:

Tutti i capi mafia sono massoni - intervista al collaboratore di giustizia Maurizio Avola


[...]Signor Avola, il suo passato rappresenta o no un tormento? “Se fossi davvero pentito, sì, lo sarebbe. Ma io sono soltanto un collaboratore di giustizia, il mio unico rimorso è di aver messo nei guai la mia famiglia condannandola a vivere nel terrore della vendetta di . Sono stato egoista con i miei figli. E’ vero, lo Stato dopo la mia collaborazione mi ha scarcerato, ma non era quello che volevo. Avrei desiderato rifarmi una vita all’estero, utilizzando documenti che mi avrebbero regalato una nuova identità. Alla maniera dei collaboratori dell’Fbi. Mi sarebbe piaciuto trasferirmi in Germania o in Olanda. Ma i patti non sono stati rispettati. Le mie confessioni valevano per lo Stato uno stipendio mensile di due milioni e seicentocinquantamila lire. Non pochi, potevo campare bene, ma le promesse erano altre. Mi sono sentito tradito anche perché mi sequestrarono una villa da settecento milioni che non avevo finito di pagare. Volevo andare in Sudamerica e loro niente. Ho così commesso delle sciocchezze, partecipando a quelle rapine romane, ma, ripeto, era un atto di sfida allo Stato che mi aveva profondamente deluso. In più, sono finito in una sezione carceraria con persone immonde: omosessuali, drogati, bruti. Per il mio senso dell’onore, era davvero troppo. Ho pensato addirittura al suicidio. In Cosa Nostra è l’unico modo per salvare la famiglia, come ha fatto Nino Gioè. Però, ho giurato a mia moglie che non tornerò mai più indietro, per questo motivo sto continuando a collaborare”. Ha rimpianti per quei tempi passati? “Sì, perché oggi mi manca il potere decisionale. Una volta ero qualcuno… al ristorante, al supermercato, nel negozio più esclusivo di Catania. Tutti sapevano chi fossi. Nessuno osava sfidarmi scavalcandomi nella fila. Addirittura, quasi si scostavano per lasciarmi il passo. Dottori, ingegneri e politici. Prego - mi dicevano - prego, come se fossi l’invitato speciale di una festa. Un divo del cinema, il numero uno. Adesso mi guardo allo specchio e non so più spiegarmi chi sono io.

Forse sono soltanto uno che spara cazzate a raffica. Come l’ultimo degli infami. Ho tradito quel mondo… sono stato tradito!”. E perché si sente tradito? “Perché io avevo dato tanto alla ‘famiglia’. Quindici anni e un sacco di omicidi, sempre pronto a tutto e alla fine hanno cercato di eliminarmi perché sapevo troppe cose della ‘famiglia’. Eppure, anch’io ho ucciso un sacco di miei compagni per questo motivo, ovvero perché sapevano tante cose. Ero divenuto ‘inaffidabile’ e avevo fatto il loro stesso gioco, ero finito nella loro trappola”. Le stragi del ‘92, le bombe dell’estate del ‘93. La nuova strategia della tensione. Lei è stato uno dei primi collaboratori di giustizia a parlarne con i magistrati. “Vorrei chiarire subito che il gruppo Santapaola era fermamente contrario alle stragi. La sera in cui morì Giovanni Falcone mi trovavo all’interno di un bar con Marcello D’Agata che mi ripeteva che era stato un grande errore e che lo Stato ci avrebbe distrutto. Aveva visto bene. Anche Santapaola, che ci raggiunse poco dopo, era convinto dello sbaglio commesso. Ma aveva dovuto abbozzare di fronte alle scelte di Totò Riina. Secondo lui, tutto questo avrebbe portato alla distruzione di Cosa Nostra. Spesso ripeteva: ‘Se si voleva uccidere Giovanni Falcone, bisognava farlo subito, all’inizio del 1985′. Santapaola non ha mai voluto combattere lo Stato, neanche uccidere un poliziotto a Catania, non voleva la guerra con i carabinieri che definiva sempre ‘educatissimi ragazzi’. Una sola eccezione, e a malincuore, fu quella che portò alla morte dell’ispettore Lizzio… Poi cambiò qualcosa: nelle nostre riunioni si parlava di un vento nuovo. Una volta, nel 1992, Eugenio Galea, una sorta di ambasciatore della ‘famiglia’ Santapaola, tornò da Enna dove c’era stato un vertice con Totò Riina e ci disse che bisognava appoggiare un partito nuovo. Solitamente i vertici si tenevano ogni lunedì negli autogrill dell’autostrada Catania - Palermo, all’altezza di Termini Imerese.

Ogni provincia aveva il suo rappresentante”. Un nome che ricorre spesso nelle sue deposizioni è quello del faccendiere barcellonese Rosario Cattafi… “E’ una persona molto potente. Saro Cattafi per noi era più importante degli altri uomini d’onore perché eravamo convinti che fosse legato ai servizi segreti e anche alla massoneria. Cattafi rappresenta l’anello di congiunzione tra la mafia e il potere occulto. Del resto, molti capi mafia sono massoni. Lo zio Nitto diceva di essere un massone e, a quanto mi risulta, anche Totò Riina lo è”. Spesso nei suoi verbali si fanno riferimenti ad un partito nuovo, ai cambiamenti politici definiti necessari. Ma cosa sa dei rapporti tra Cosa Nostra e la classe politica? “Ognuno ha i suoi agganci. Ad esempio, a Catania i contatti li teneva personalmente lo zio Nitto, quindi non ho una conoscenza diretta di quei legami. Però, ricordo benissimo quando ci parlava dei suoi rapporti con i socialisti. Agli inizi degli anni ‘90 appoggiavamo il partito del garofano perché il ministro Claudio Martelli aveva promesso aiuti all’organizzazione. Aldo Ercolano aveva un rapporto con il ministro Gianni De Michelis. Sapevo di alcuni investimenti fatti assieme a Roma in alcuni negozi di via Condotti.

Rapporti buonissimi persino con Bettino Craxi. Fu proprio per fare un favore a lui che, nel 1992, in piena tangentopoli, avremmo dovuto uccidere l’allora giudice Antonio Di Pietro. L’omicidio si doveva fare a Bergamo, dove viveva Di Pietro. Per lui era pronta un’autobomba come per Giovanni Falcone. L’esplosivo sarebbe arrivato dalla ex Jugoslavia. Si decise il piano in un vertice all’hotel Excelsior di Roma: mi risulta che fossero presenti oltre a Marcello D’Agata ed a Eugenio Galea, anche un trafficante d’armi messinese, Filippo Battaglia, e il faccendiere Francesco Pacini Battaglia, oltre all’uomo dei servizi deviati, Saro Cattafi. Per eseguire l’attentato Marcello aveva scelto proprio me. Quell’assassinio sarebbe servito a togliere dai guai alcuni amici politici e imprenditori che erano indagati dal magistrato”. Perché non uccideste Antonio Di Pietro? “Alla fine non se ne fece nulla perché, secondo lo zio Nitto, i socialisti non avevano rispettato certi accordi. Ricordo in proposito che durante una riunione successiva venne ribadito il concetto: ‘Cazzi loro, non facciamo nessun favore ai socialisti dopo che ci hanno tradito…’. In quel vertice ad Enna si era parlato anche di un partito nuovo, formato da persone non compromesse con la politica, però legate a Casa Nostra. Eugenio Galea rimase perplesso. Alla riunione c’era anche Riina. Addirittura si parlò di una Sicilia indipendente. Siamo nel 1992. Di Forza Italia iniziai a sentirne parlare nel ‘93. Me lo disse Marcello D’Agata, allora in carcere per detenzione di armi. Venni a sapere che era nato un partito nuovo: era il mese di maggio. In seguito l’ordine fu di votare Forza Italia. Poi me ne parlò anche il nipote di Giuseppe Pulvirenti, detto u’malpassotu. La strategia era chiara: colpire lo Stato nei punti vitali. Un ricatto. ‘Noi la smettiamo, tu Stato cosa ci dai in cambio?’. In realtà, il nostro obiettivo era di spingere questa formazione politica a fare gli interessi dell’organizzazione mafiosa: soprattutto eliminare il 41 bis e screditare i pentiti”. Che strano!

La mafia doveva votare Forza Italia e intanto metteva le bombe alla Standa. Sembra un controsenso. “La bomba alla Standa di Catania fu un mezzo per costringere Marcello Dell’Utri a patteggiare con la nostra ‘famiglia’. Si diceva che avesse dei legami con i palermitani, ma noi catanesi eravamo decisi a stabilire con lui un rapporto autonomo. Santapaola voleva costringere il manager di Publitalia a venire ad un accordo. Così lo zio Nitto autorizzò Aldo Ercolano a bruciare la sede della Standa a Catania. I palermitani non la presero bene. Nacquero dei problemi che si sono risolti solo con l’arresto di Riina e Santapaola. Rapporti strani tra le cosche. Ad esempio, Santo Mazzei, nemico giurato di Santapaola, venne fatto uomo d’onore a Palermo per poi essere infiltrato a Catania. Lo stesso gioco che aveva fatto Nitto Santapaola con Calderone nel 1978”. Saranno anni d’incomprensioni, poi acuite dalla latitanza nel Barcellonese di Nitto Santapaola… Alla fine, come reagì Dell’Utri? “Scese a patti.

Per risolvere la vicenda Standa piombò subito in Sicilia In cambio - mi raccontò Marcello D’Agata - la ‘famiglia’ fece un grosso investimento di un centinaio di miliardi in attività della Fininvest. I contatti li prese Salvatore Tuccio, nostro rappresentante. Ci furono diversi incontri. Non è un caso che gli attentati terminarono dopo l’incontro tra Dell’Utri e lo zio Nitto. Diciamo che è vicina alla massoneria per alcuni ricevuti e fatti. Mi spiego meglio: certi omicidi sono compiuti per regalare favori alle logge. Per quanto mi risulti anche lo zio NItto era un massone. Tutti i capi mafia sono massoni. I collegamenti tra mafiosi e la massoneria sono necessari per garantirsi le coperture giudiziarie e per pianificare gli investimenti dell’organizzazione. Un esempio è la strategia del 1990. Fu Marcello D’Agata a confidarmi che Santapaola era entrato nella massoneria. Come Salvatore Riina. Poi c’era quel personaggio importante per la ‘famiglia’ che si chiama Saro Cattafi. Lui non è ‘uomo d’onore’, ma per Cosa Nostra rappresenta il collegamento tra politici e l’organizzazione. Io sapevo che apparteneva ai servizi segreti deviati. Mi risulta fosse anche lui un massone”. Lei ha dichiarato ai magistrati che il frutto di queste riunioni furono le stragi e le successive bombe. “Nel gennaio del 1992 trasportai 200 chili d’esplosivo a Termini Imerese con Marcello D’Agata all’interno di una Fiat Uno bianca. Non posso certo dire che siano serviti per la strage di Capaci. Sapevo, tramite Aldo Ercolano, che Cosa Nostra stava preparando degli attentati. Ero a conoscenza, inoltre, che c’era uno bravo a maneggiare l’esplosivo, credo che si riferissero a La Barbera. Già si parlava d’altri attentati. Uno di questi era quello del giornalista Maurizio Costanzo.

Sarà tutto vero perché questa è la strategia che usa Salvatore Riina. Nessuno avrebbe potuto contraddirlo, neppure Santapaola che è pur sempre secondo a Riina. Non dimentichiamo che il capo di Cosa Nostra è Totò Riina. Così, anche se capisce che Riina gli sta facendo le scarpe, deve stare al gioco. Altrimenti bisognava attaccare i corleonesi e noi non eravamo in grado di far loro la guerra. Già, perché loro sono tutta la Sicilia Occidentale”. In ogni caso, Benedetto Santapaola aderì alla strage. “Sì, ma con la morte nel cuore. Capiva che sarebbero poi accadute cose da pazzi. Decise così di non inviarmi all’appuntamento. Fu Marcello D’Agata ad avvertirmi che era troppo pericoloso anche perché meno persone mi conoscevano in faccia, meglio era per la nostra . Agli incontri per gli altri attentati del ‘93, invece, partecipai personalmente. Fui io, ad esempio, a verificare la possibilità dell’attentato di Firenze. Nella mia mente c’era il David di Donatello. Volevo mettere una bomba senza colpire le persone”. Non sono tardive queste sconvolgenti rivelazioni? “Ho sempre parlato di Marcello Dell’Utri ai magistrati fin dall’inizio della mia collaborazione. E vi ricordo che collaboro dal 1994. All’inizio avevo paura di parlare di certe cose perché conosco la forza di ed i suoi collegamenti con le Istituzioni. Chiunque avrebbe potuto tradirmi. Anche un capitano dei Carabinieri o un colonnello. Io non ho molto fiducia nello Stato. Avevo paura che parlando di certi personaggi o riunioni mi avrebbero ucciso anche in carcere. Anche se ho sempre messo in conto che uscendo da casa avrei potuto trovare la morte in qualsiasi momento. La morte ha sempre camminato con me! Non ho finito il mio lavoro di collaboratore e, interrompendolo ora, mi sembrerebbe di lasciare qualcosa d’incompleto”. Si rende conto che le sue dichiarazioni potrebbero aver firmato la sua condanna a morte? “Per questa mia scelta di collaborare con lo Stato, mi ha già condannato a morte. Però, loro sanno che non devono uccidere i familiari di Avola perché a quel punto sarei pronto ad uccidere i loro. Sono sempre un killer! L’obiettivo deve essere Maurizio Avola e basta. L’organizzazione sa che in ogni caso dal carcere esco prima io di loro. Se i miei capi prendono trent’anni, a me ne toccheranno ventinove, dunque uscirò prima… Io mi ricorderei sempre di chi ha ucciso mio figlio. Conosco i loro segreti e come agiscono. Per loro è facile attaccare una famiglia mafiosa. Ma difendersi da una persona sola è molto più difficile. Prendete Ferone, quello che ha ammazzato la moglie di Santapaola.

E’stato scoperto perché ha chiesto aiuto ad altre persone. Se avesse agito da solo non lo avrebbero mai individuato. Che fosse stato un pentito ad uccidere la moglie di Santapaola, lo avevo intuito subito. Lo dissi immediatamente al giudice Amedeo Bertone. Sbagliai solo il nome del sicario. Il fatto è che nessuno dell’organizzazione si sarebbe potuto permettere di uccidere la moglie di Nitto. La decisione di Ferone maturò solo per un desiderio di vendetta. La mafia catanese gli aveva ucciso il padre ed il figlio! Oggi sono tremendamente incazzato con lo Stato che ha tradito la mia fiducia. Mi hanno lasciato senza documenti di copertura, hanno abbandonato al loro destino mia moglie e i miei figli. Mi hanno trattato male. Sono convinto che certi atteggiamenti siano stati provocati dal fatto che abbia parlato di stragi, fatto nomi importanti, richiamato in gioco i servizi segreti, di aver coinvolto le logge massoniche. I giudici di Catania che mi hanno gestito, però, sono degli onesti. Su tutti, il dottor Amedeo Bertone e Nicolò Marino. Lo stesso non posso dire delle Istituzioni di Roma”. Anche lei si è pentito di essere un pentito? “Forse sì. Io ho iniziato a collaborare perché Nitto Santapaola mi voleva uccidere. Era già toccato al mio amico fraterno Pinuccio DI Leo.

Dopo “Pinuccio” era arrivato anche il mio turno. Se sono ancora vivo, lo devo al mio sangue freddo ed alla presenza di un poliziotto. I killers che mi dovevano sparare hanno avuto paura della polizia. Quei giorni hanno segnato la mia vita… Tutto era iniziato perché Pinuccio Di Leo non c’era più con la testa. Aveva paura di essere arrestato dopo il pentimento di Claudio Severino Samperi. Voleva scappare da Catania. E questi segni di debolezza all’interno dell’organizzazione alla fine li paghi. Non puoi lamentarti, né mostrare la tua paura se vuoi rimanere vivo dentro . Su ordine della ‘famiglia’, lo convocai a casa mia. Lo eliminò un amico poliziotto sparandogli due colpi alla nuca. Nel nostro gruppo c’erano carabinieri e poliziotti che la mattina facevano finta di indagare sugli omicidi da loro commessi. Una volta ci anticiparono una perquisizione nella zona dove si nascondeva lo zio Nitto e riuscimmo ad avvertirlo. Sono stati tutti arrestati e condannati all’ergastolo. Dopo aver eliminato Pinuccio, presi a schiaffi il suo cadavere. Gli urlai, quasi disperato: ‘E’ stata solo colpa tua. Mi hai costretto ad ucciderti!’. A conti fatti, devo ammettere di aver sbagliato a pentirmi. Ho messo a repentaglio la vita dei miei figli, di mia moglie, quella dei miei genitori, sono io stesso a rischio. Adesso vivono sotto protezione in una località segreta, ma non basta. La famiglia di Avola potrebbe rimanere uccisa se lo Stato decidesse di rispedirla a Catania. Spero che almeno questo patto lo Stato lo mantenga. La giustizia sa cosa ha riferito Maurizio Avola.

Ho raccontato tutti gli affari di Cosa Nostra. Ho verbalizzato per tre mesi ininterrottamente dal lunedì al venerdì, dalla mattina alla sera. Da luglio del ‘97 sono senza protezione per via delle rapine compiute a Roma. Dopo la mia scelta di sfidare lo Stato con quelle rapine, avrei voluto mandare tutti a quel paese. Io spero che lo Stato mi dia un’altra possibilità”. Nonostante tutto, nutre ancora la speranza di potersi rifare una vita? .”Sì. Continuo a ripetermi che domani uscirò… sarà difficile ma io devo vivere con questa speranza. Non è facile sopportare certe umiliazioni. Minchia, come vorrei tornare indietro… Quando vado a deporre ai processi e vedo dietro le gabbie i ragazzi cui ho insegnato a sparare, mi sento una carogna, vorrei essere al posto loro con quelle facce fiere che non hanno nulla di cui pentirsi. Un giorno, Salvatore Barcella, un ex poliziotto che faceva il killer per conto di Santapaola, gridò in aula: ‘Signor Presidente, mi vergogno per Avola!’. Credetemi, sentire quelle parole uscire dalla bocca di un poliziotto, per giunta corrotto, mi ha fatto sentire una merda… Guardate questo dito, è quello che premeva il grilletto della pistola, vedete è ancora consumato. Ora, altro che pistola: sparo solo cazzate. Se sono ancora disponibile a collaborare lo devo a mia moglie che mi ha convinto a tenere duro. E’ solo per merito suo se sto continuando a parlare con i giudici”.

Da: IMGpress


fonte: http://hovistocosechevoiumani.wordpress.com/2008/08/24/tutti-i-capi-mafia-sono-massoni/
Inviato il: 26/8/2008 1:42
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