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news internazionali : ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
Inviato da Redazione il 7/11/2004 9:15:40 (3109 letture)

ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ

Il vizio del colonialismo è duro da far passare. Ti resta nella pelle, nei gesti, nel tono della voce, e si traduce - oggi ad esempio - nella posizione che ha assunto la Francia in Costa d'Avorio, già dalla primavera del 2003, grazie alla sempre più ambigua connivenza delle Nazioni Unite.

Nessuno si era accorto di niente, ma proprio mentre i francesi inondavano di sdegno gli Stati Uniti per la loro guerra illegale in Iraq, si facevano legalizzare a tutti i costi la propria, specularmente molto simile, nella loro ex-colonia africana. Qui il petrolio si chiama cacao, l'ONU si chiama ECOWAS (Economic Community of West African States, le cui forze sono state autorizzate dall'ONU), e Operation Enduring Freedom si dice Operatiòn Unicorn. Ma stranamente i buoni sono sempre i cristiani del Sud, ...

... che stanno sotto il governo ufficiale, tenuto su in qualche modo con la complicità francese, e i cattivi sono i musulmani del Nord, che diventano quindi, per l'ennesimna volta, "i ribelli". (Dovrebbe bastare un minimo di copertura-stampa mondiale, a questo punto, perchè diventino anche loro "terroristi" in piena regola).

La Francia ha degli investimenti, in Costa d'Avorio, che si aggirano sui tre miliardi di dollari, ed oltre al cacao, fonte prima del sostentamento della nazione, ci sono anche i diamanti della vicina Sierra Leone, e le ottime probabilità di trovare petrolio nel sottosuolo, a rendere appetibile quella fetta di territorio dimenticata dal mondo.

All'inizio dell'anno scorso il presidente Laurent Gbagbo, eletto - si fa per dire - ancora col supporto di Jospin, aveva mandato un elicottero a spare all'impazzata su un villagio del Nord, ed era bastato questo "massacre horrible" a sollevare in Francia un'ondata di sdegno sufficiente a giustificare l'invio delle loro truppe. I 4000 soldati circa di Chirac erano spalleggiati da uno sparuto gruppetto di duecento uomini dell' ECOWAS, proprio per dare una parvenza di legittimità alla faccenda.

Lo scopo ufficiale delle truppe francesi era quello di fare da "cuscinetto" fra i ribelli del Nord e i regolari del Sud, ma in realtà si era andati a proteggere i secondi dalle incursioni dei primi, mentre si chiudevano ambedue gli occhi sul sistematico genocidio a danno dei primi, da parte delle bande di miliziani sponsorizzate da Gbagbo.

Ora qualcosa deve essere andato storto, fra i francesi e il presidente locale, poichè ieri la sua aviazione "si è sbagliata", ed ha ammazzato otto soldati francesi, ferendone altri ventitrè. Chirac ha fatto subito sapere che chi sbaglia paga, e ha ordinato la distruzione degli aerei avoriani che hanno colpito i francesi, mentre mandava un paio di MIG a far la voce grossa sui cieli della capitale.

Non dovrebbe essere difficile a questo punto immaginare come, se Gbagbo non metterà presto la testa a posto, verranno indette nuove "elezioni democratiche", in cui questo fantoccio verrà sostituito da un altro un pò più malleabile.

E' la storia di Saddam in Iraq, di Karzai in Afghanisìtan, di Diem in Vietnam, dello Scià nell'Iran di Mossadek, e di tutti i governi fantoccio messi in piedi dagli invasori nel corso della storia, per arrivare fino all'Erode della Giudea, messo su dai Romani di Augusto.

L'unica differenza è che, negli ultimi anni, si è presa l'abitudine di passare prima dall'ONU a farsi timbrare i propri progetti di conquista e di dominio, pagando in cambio con l'autorizzazione a delinquere per uno degli stati concorrenti.

L'importante è non pestarsi i piedi a vicenda.

Massimo Mazzucco

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I commenti sono proprietà dei rispettivi autori. Non siamo in alcun modo responsabili del loro contenuto.
Autore Albero
iela
Inviato: 7/11/2004 17:39  Aggiornato: 7/11/2004 17:39
So tutto
Iscritto: 26/5/2004
Da:
Inviati: 15
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
Citazione:
L'importante è non pestarsi i piedi a vicenda.
Mica tanto. Da un pò di tempo gli Stati Uniti stanno cercando di allargare le proprie amicizie anche nell'Africa ex-francese, dove (per ovvi motivi) i presidenti, se vogliono rimanere al governo per più di pochi giorni, devono sottostare ai dettami delle ditte multinazionali soprattutto francesi. Quindi i francesi si preoccupano che i nuovi padroni del luogo possano licenziarli, e senza liquidazione. Detto ciò, chiarisco subito: non sto affatto difendendo l'operato dei francesi in questo campo, è solo una precisazione della frase che ho citato sopra. Anzi, abbiamo visto come statunitensi e francesi abbiano collaborato ad Haiti, nonostante le divergenze sull'Iraq... Quindi, prepariamoci a psicodrammi franco-statunitensi sul futuro dell'Africa e dei suoi abitanti (eufemismo per dire "le industrie e le risorse naturali africane"). Riporto di seguito due articoli tratti da "Le Monde Diplomatique", mensile francese ma non sospettabile di simpatie filocolonialiste o filochiracchiane, per dare un'idea di cosa dobbiamo aspettarci. *** Consiglieri speciali, cooperazione tecnica progetti petroliferi a tutti i livelli Washington ridisegna la presenza militare in Africa Col pretesto della «guerra contro il terrorismo», gli Stati uniti hanno rafforzato la loro presenza in Africa. Consapevole della sua dipendenza nel campo delle materie prime strategiche, Washington moltiplica gli accordi politici e militari con un gran numero di paesi africani, alfine di «rendere sicuri» i rifornimenti. L'esercito, le compagnie petrolifere e le società americane consulenti in sicurezza fanno man bassa. Di fronte a un attivismo che attenta alle sue tradizionali zone di influenza, la Francia sembra restare passiva. Pierre Abramovici Il 23-24 marzo 2004 i capi di stato maggiore di otto paesi africani (Ciad, Mali, Mauritania, Marocco, Niger, Senegal e Tunisia) hanno partecipato per la prima volta a una riunione svoltasi con discrezione presso la sede del comando europeo dell'esercito americano (Us-Eucom) a Stoccarda. Presentato come un'iniziativa «senza precedenti», l'incontro, i cui lavori sono rimasti segreti, aveva come tema la «cooperazione militare nella lotta globale contro il terrorismo»; riguardava il Sahel, zona cuscinetto tra il Maghreb e l'Africa nera, tra le zone petrolifere del nord e quelle del golfo di Guinea. Nel giro di pochi anni l'interesse politico e militare degli Stati uniti per l'Africa si è ravvivato notevolmente, come dimostrano la visita del segretario di stato Colin Powell in Gabon e Angola nel settembre 2002 (un'ora in ogni paese, il tempo di ribadire la sua presenza), il viaggio del presidente George W. Bush in Senegal, Nigeria, Botswana, Uganda e Sudafrica nel luglio 2003, e la tournée del generale Charles F. Wald, comandante aggiunto dell'Eucom, in dieci paesi (Ghana, Algeria, Nigeria, Angola, Sudafrica, Namibia, Gabon, Sao Tomé, Niger e Tunisia), due settimane prima dell'incontro di Stoccarda. Più significativa è invece la partecipazione indiretta di Washington, nel mese di marzo 2004, a un'operazione militare condotta da quattro paesi del Sahel (Mali, Ciad, Niger e Algeria) contro il Gruppo salafista per la predicazione e il combattimento (Gspc). Il «numero 2» dell'organizzazione, Ammari Saifi, noto con il soprannome di «Abderrazak il parà», sarebbe stato arrestato in Ciad nel mese di maggio (1). E, in giugno, l'esercito algerino ha annunciato di aver abbattuto Nabil Sahraoui, principale dirigente del gruppo. Il Gspc, come peraltro il Gia, figura sulla lista americana delle organizzazioni terroriste ed è sospettato da Washington di mantenere legami con al Qaeda. Si è fatto conoscere con il rapimento di trentadue turisti nel Sahara algerino, all'inizio del 2003. L'operazione era una prima assoluta in Africa e confermava la stretta collaborazione degli Stati uniti con l'Algeria. Fin dal gennaio 2004, l'esercito americano ha dispiegato mezzi cospicui per sostenere la lotta delle truppe locali contro il Gspc. L'aiuto è stato organizzato nell'ambito del programma di assistenza militare Pan Sahel Initiative (Psi), operativo a partire dal novembre 2003, con uno stanziamento di 6,5 milioni di dollari per il 2004. Il programma punta ad aiutare Mali, Ciad, Niger e Mauritania a combattere «il contrabbando, la criminalità internazionale e i movimenti terroristi». Circa 250 tonnellate di materiali di vario genere e 350 soldati sono stati inviati nella regione con un ponte aereo di due settimane, partendo dalla base aerea di Rota in Spagna. Una volta inviati le truppe e i materiali, i mezzi aerei di protezione sono stati messi a disposizione dalle basi della Royal Air Force a Mildenhall e Lakenheath in Gran Bretagna. Per la protezione dell'operazione sono stati mobilitati inoltre elementi del 32° Gruppo operazioni speciali, una unità collegata alla Cia. Nelle settimane precedenti l'operazione, elementi del 10° Gruppo Forze speciali con base a Stoccarda erano stati inviati sul posto per fungere da supervisori all'addestramento delle truppe del Mali. «La Psi è uno strumento importante nella guerra contro il terrorismo, e ha contribuito molto a rafforzare i legami in una regione che avevamo largamente ignorato in passato, in particolare tra l'Algeria e il Mali, il Niger e il Ciad - ha spiegato, il 23 marzo scorso, il colonnello Victor Nelson, responsabile di questo programma per l'Ufficio del Dipartimento della difesa, incaricato dei problemi connessi alla sicurezza internazionale - Dicevamo già da tempo che, se ci sarà troppa pressione in Afghanistan, in Pakistan, in Iraq e altrove, i terroristi troveranno nuovi territori in cui lavorare, e le regioni del Sahel e del Maghreb fanno parte appunto di questi nuovi territori (2)». Nel breve volgere di nove mesi, dalla visita del presidente Bush alla conferenza di Stoccarda, l'impegno militare americano in Africa ha subito una decisa accelerazione, dopo una lunga pausa negli anni successivi alla fine della guerra fredda. Washington ha preso coscienza della sua situazione di dipendenza nei confronti delle materie prime fornite dal continente: il manganese (per la produzione dell'acciaio), il cromo e il cobalto indispensabili per le leghe (soprattutto in aeronautica), il vanadio, l'oro, l'antimonio, il fluoro, il germanio... a cui bisogna aggiungere anche, naturalmente, i diamanti a uso industriale. Zaire e Zambia possiedono il 50% delle riserve mondiali di cobalto; il 98% delle riserve mondiali di cromo si trova nello Zimbabwe e in Sudafrica; quest'ultimo paese concentra inoltre il 90% delle riserve di metalli del gruppo del platino (platino, palladio, rodio, rutenio, iridio e osmio). E la sete di petrolio degli americani all'inizio del nuovo millennio accrescerà ulteriormente l'importanza di paesi come l'Angola e la Nigeria. Dopo l'insuccesso dell'intervento Usa in Somalia, iniziato il 9 dicembre 1992 e conclusosi il 31 marzo 1994, il presidente Bill Clinton aveva rilanciato la politica africana di Washington. Questo ritorno d'interesse si era manifestato clamorosamente dal 15 al 18 marzo 1999, allorché gli Stati uniti ospitarono il primo incontro tra i responsabili di otto organizzazioni regionali africane, ottantatre ministri del continente e le loro controparti americane. Questa riunione, svoltasi a Washington, mirava a «rafforzare il partenariato tra gli Stati uniti e l'Africa» e «a dare maggiore impulso allo sviluppo economico, agli scambi commerciali, agli investimenti, alle riforme politiche e alla crescita economica reciproca nel XXI secolo (3)». Anche se si parla del terrorismo, a causa degli attentati del 1998 contro le ambasciate americane a Nairobi e a Dar es-Salaan attribuiti ad al Qaeda, il principale follow up dell'incontro sarà l'adozione dell'Agoa (Legge per la crescita e l'opportunità), che allarga l'accesso dei prodotti africani sul mercato americano. Con maggior discrezione si procede al graduale insediamento di un sistema molto coeso di assistenza militare a partire dalla metà degli anni 1990. Nel 1996 Washington crea l'Acrf, una Forza di risposta alle crisi africane. Poco dopo, questa viene sostituita da un'altra struttura, l'Acri (African Crisis Response Initiative) (4). La missione ufficiale dell'Acri è l'addestramento per «il mantenimento della pace» e «l'aiuto umanitario», e i materiali forniti sono di tipo «non letale». In realtà, l'Acri ha il compito di modernizzare e adattare agli standard americani le forze armate locali, soprattutto di fronte all'emergenza del terrorismo in Africa. Mira anche, naturalmente, a evitare il ripetersi di disastri tipo quello della Somalia. Per quanto l'Acri sia una creatura del dipartimento di stato americano, a coordinare i mezzi militari e soprattutto il ricorso alle Forze speciali, è il comando europeo dell'esercito americano (Eucom). Alcune imprese private specializzate nel settore, come Logicon del gruppo Northrop-Grumman o Military Professional Resources Inc (Mpri), assicurano il supporto logistico (fornitura di materiali o di «personale civile specializzato»). Mpri è una ditta di consulenza privata nel settore della sicurezza, diretta soprattutto da ex funzionari americani; opera per conto dei governi di tutto il mondo, Iraq compreso. La cooperazione «offensiva» Se l'Acri ostenta obiettivi umanitari, il suo coordinatore dei programmi di addestramento è il colonnello Nestor Pino-Marina, ex ufficiale con un curriculum di tutto rispetto: esule cubano, prende parte allo sbarco fallito della Baia dei porci nel 1961; ex agente delle Forze speciali, attivo in Vietnam e nel Laos, durante l'era reaganiana è un membro dell'Inter-American Defense Board e partecipa alle operazioni clandestine contro i sandinisti a fianco dei Contra nicaraguensi negli anni novanta. Sarà poi accusato di aver partecipato al traffico di droga per finanziare le spedizioni di armi in Centramerica... Il programma di addestramento dell'Acri è mirato a sviluppare le competenze militari di base, rafforzare le formazioni di combattimento e potenziare le capacità degli stati maggiori. Il tutto, sotto il titolo di «minime attrezzature, massimo addestramento», si articola su sei «elementi chiave»: standardizzazione, interoperatività, istruzione degli istruttori, trasparenza, supporto, lavoro di squadra. Si prevede inoltre di estendere le norme di addestramento a programmi condotti da altri paesi come la Francia, il Regno unito, il Belgio e di cooperare con loro. Dal luglio 1997 al maggio 2000, l'Acri ha organizzato la formazione di battaglioni (da 800 a 1.000 uomini) in Senegal, Uganda, Malawi, Mali, Ghana, Benin e in Costa d'Avorio; il dipartimento di stato ha fornito a oltre 8.000 uomini attrezzature leggere (generatori di elettricità, veicoli, rilevatori di mine, visori notturni...) e soprattutto strumenti di comunicazione. Il programma ha ricevuto uno stanziamento di 30 milioni di dollari per due anni, nel 2001 e 2002. L'Acri porta avanti una serie di programmi specifici di assistenza militare e civile fornita dagli Stati uniti fin dai primi anni 1990, e gestiti dal Dipartimento della difesa. È questo il caso del Mali (vedi riquadro). Analogamente, nel luglio 2001, 400 soldati senegalesi, sempre nell'ambito dell'Acri, hanno seguito un corso di formazione alla «guerra psicologica». Secondo il colonnello Nestor Pino-Marina, «sono state assimilate le dottrine Nato vigenti (5)». Sono stati inoltre organizzati seminari politico-militari per 65 ufficiali per «prepararli alle azioni di mantenimento della pace». Il culmine dell'esercitazione è stata la simulazione informatica, grazie a mezzi satellitari, di una situazione di crisi. Il programma Janus, elemento portante dell'esercitazione, è stato ideato da Logicon. Si punta sempre a sviluppare l'integrazione e l'operatività in base alle norme vigenti al Pentagono, e a dotarsi stabilmente di apparecchiature americane. Ma l'Acri è soltanto un tassello nel quadro di un impegno militare crescente degli Stati uniti in Africa. Costituito nel 1999, il Centro africano di studi strategici - Africa Center for Strategic Studies, Acss - è una ramificazione dell'Università nazionale di difesa del Pentagono. Questa istituzione accademica fornisce un insegnamento destinato a personale militare di «alto livello» ma anche a «leader» civili (responsabili di partiti politici o associazioni, capi d'impresa, ecc.). I programmi vertono sulle relazioni tra militari e civili, la sicurezza nazionale, l'economia della difesa, ecc. Nel maggio 2003 il Mali è stato scelto come sede di un seminario dedicato alla lotta contro il terrorismo nella regione: vi hanno partecipato Algeria, Ciad, Mali, Mauritania, Marocco, Niger, Nigeria e Senegal. Erano rappresentate anche Francia e Germania. Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, gli Stati uniti hanno aumentato i loro investimenti militari in Africa. La «guerra contro il terrorismo» offre loro i pretesti necessari. Come ha affermato il presidente Bush nella sua tournée africana del luglio 2003, «Non permetteremo che i terroristi minaccino i popoli africani, o che utilizzino l'Africa come base per minacciare il mondo (6)». Nella primavera 2002, l'amministrazione Bush ha così trasformato («riorganizzato»; come dicono al Pentagono) l'Acri in Acota-Africa Contingency Operations Training Assistance. Oltre al «mantenimento della pace e all'aiuto umanitario», l'Acota ormai include l'addestramento offensivo, soprattutto per unità regolari di fanteria e piccole unità sul modello delle Forze speciali, come pure la preparazione ad affrontare un ambiente «ostile». Le forze africane ormai sono dotate di materiali offensivi standardizzati (fucili d'assalto, mitragliatrici, mortai, ecc.). A Washington non si parla più di armi «non letali», come ai tempi dell'Acri, e si insiste sulla cooperazione «offensiva»: «Se le forze schierate nell'ambito dell'Acri non si sono mai trovate in una situazione in cui sia stata minacciata la loro sicurezza, quelle che opereranno nell'ambito dell'Acota, proprio perché saranno incaricate di ristabilire la calma, dovranno essere pronte ad affrontare il pericolo (7).» L'Acota è legata a centri di formazione militari del Jcats (Joint Combined Arms Training Systems), definiti «indispensabili», in quanto consentono di mantenere alto il livello di qualificazione e di addestramento militare. Il primo è stato inaugurato a Abuja, in Nigeria, il 25 novembre 2003. I Jcats sono gestiti dall'Mpri e si basano «sull'impiego di sofisticati software di simulazione bellica che si ispirano alle condizioni realmente esistenti sui campi di battaglia (...). Niger e Canada sono gli unici due paesi al mondo a disporre del software Jcats (8)». Secondo il colonnello Victor Nelson, ex attaché militare degli Stati uniti presso la Nigeria, e incaricato della Pan Sahel Initiative, «è un mezzo poco costoso per assicurare la formazione dei quadri. Anche paesi dotati di scarse risorse possono ricorrere ai Jcats. Si tratta in realtà di riunire le persone per una quindicina di giorni per esercitazioni di guerra, cosa che già fanno i militari americani del XXI secolo (9)». Oltre all'Acota, quarantaquattro paesi africani partecipano ad un programma specifico destinato agli ufficiali: l'Imet (International Military Education and Training Program), che nel 2002 ha addestrato più di 1.500 ufficiali. Per i sette paesi principali interessati (Botswana, Etiopia, Ghana, Kenya, Nigeria, Senegal, Sudafrica), il costo totale dell'Imet è passato da 8 milioni di dollari nel 2001 a 11 milioni nel 2003. Infine, il programma Africa Regional Peacekeeping Program (Arp) prevede l'addestramento alle tattiche offensive e il trasferimento di tecnologia militare. Dal 2001 al 2003, l'Arp ha ricevuto finanziamenti dell'ordine di circa 100 milioni di dollari. La strategia americana in Africa potrebbe riassumersi in due assi fondamentali: da una parte l'accesso illimitato ai mercati chiave, alle fonti d'energia e alle altre risorse strategiche, dall'altra, la sicurezza manu militari delle vie di comunicazione, soprattutto per consentire l'invio delle materie prime verso gli Stati uniti. «Quel che il popolo americano ha imparato dalla guerra del Golfo, è che è molto più facile andare a prendere a calci in culo la gente del Medioriente che non fare sacrifici per limitare la dipendenza dell'America dal petrolio importato», diceva già nel settembre 1992 James Schlesinger, ministro per l'energia del presidente Carter, in occasione del quindicesimo Consiglio mondiale dell'energia. Evidentemente quello che interessa agli Stati uniti è il petrolio africano (10). E il 5 settembre 2002, Colin Powell, da Johannesburg, dove partecipava al Vertice della Terra, si recava a Luanda in Angola, prima di raggiungere Libreville, nel Gabon - due paesi produttori di petrolio. Gli esperti concordano nel dire, che nell'arco dei prossimi dieci anni, il continente africano diventerà, dopo il Medioriente, la seconda fonte di petrolio e probabilmente di gas naturale degli Stati uniti. Almeno in attesa che «le cose si calmino». Due percorsi strategici sono al centro del pensiero militare americano: a ovest, l'oleodotto Ciad-Camerun e, ad est, l'oleodotto Higleig-Porto Sudan. E si parla del progetto di un oleodotto che collegherebbe il Ciad al Sudan. Nel luglio 2003, un tentativo di colpo di stato a Sao Tomé e Principe, piccolo stato ricchissimo di riserve di petrolio associato alla Nigeria, ha pronunciato un precipitoso intervento di Washington nell'arcipelago. Appena tre mesi dopo, le compagnie petrolifere, soprattutto americane, hanno offerto oltre 500 milioni di dollari per esplorare le acque profonde del golfo di Guinea che separano la Nigeria da Sao Tomé e Principe. È il doppio della cifra che i due paesi speravano di ottenere. La posizione strategica del Sudafrica Sull'onda degli eventi, l'esercito americano ha annunciato un programma di aiuti alle piccole forze di sicurezza locali. Sarebbe prevista l'installazione di una base militare. Il Congresso degli Usa e l'amministrazione Bush hanno dichiarato ufficialmente che questa regione è di «vitale interesse» per gli Stati uniti. Tramite il dipartimento di stato e il ministero della difesa, Washington ha preparato il terreno con grande attenzione: il generale Carlton W. Fulford, comandante in capo dell'Eucom, si è recato a Sao Tomé nell'ottobre 2002 per studiare la possibilità di costituire un mandato regionale nell'Africa occidentale, e l'Mpri addestra la guardia costiera della Guinea e dell'Angola. Sul continente nero, gli Stati uniti cercano di stabilire delle partnership con tutti i paesi con i più svariati pretesti. E così, gli americani affermano che l'esercito sudafricano non sarebbe in grado di eseguire operazioni ad ampio raggio, in quanto, a sentir loro, il 75% degli effettivi sarebbero sieropositivi. E quindi, Pretoria avrebbe bisogno di un deciso sostegno da parte di Washington, per far fronte a questa debolezza. E così il Sudafrica si appresta ad aderire al programma Acota. Stranamente, non tutti i soldati sudafricani devono essere malati, dato che a migliaia sono impiegati in Iraq come «civili di complemento» dalle aziende private. In realtà, il Sudafrica interessa gli Stati uniti per via della sua posizione strategica. Ai tempi della guerra fredda, Pretoria aveva aperto le sue basi alle forze armate americane, consentendo così a Washington di controllare l'oceano indiano tra l'Africa e la base navale di Diego Garcia. Era anche una pedina indispensabile nella lotta contro i movimenti di liberazione africani sospetti di fedeltà a Mosca. Nel 2001 l'ambasciatore degli Stati uniti Cameron Hume dichiarava che i sudafricani e gli americani «condividevano un simile impegno per la democrazia, l'economia di mercato, e la ricerca di un futuro migliore per tutti (11)». Naturalmente l'interventismo militare degli Stati uniti in Africa interferisce con le zone d'influenza tradizionali delle ex potenze coloniali, soprattutto la Francia. Questa concorrenza è quanto mai evidente a Gibuti, uno dei paesi più poveri del pianeta, desertico e privo di risorse. Un paese senza interesse apparente... se non fosse per la sua posizione strategica. Si tratta infatti di una posizione avanzata su una zona marittima ove transita un quarto della produzione mondiale di petrolio (senza contare la prossimità geografica con l'oleodotto sudanese), e contemporaneamente si trova anche ben posizionato sulla striscia strategica Sahel-Corno d'Africa, che Washington si attiva a «mettere in sicurezza». Anche se la Francia vi mantiene la sua principale base militare all'estero, Camp Lemoine, Gibuti è diventata una base americana permanente (12). Comandante in seconda dell'Eucom, il generale Charles F. Wald trascorre molto tempo in Africa. Nel marzo 2004 ha visitato ben undici paesi in una settimana (Marocco, Algeria, Nigeria, Angola, Sudafrica, Namibia, Gabon, Sao Tomé, Ghana, Niger e Tunisia). Dopo aver sottolineato, in occasione di una conferenza stampa organizzata a Washington per i giornalisti africani, che gli Stati uniti e la Francia avevano numerosi interessi in comune, il generale Wald ha precisato: «Ci sono paesi francofoni che hanno legami antichi e storici con la Francia. (...). I francesi potrebbero essere coinvolti in questo quadro (13)». Una maniera non troppo elegante di dividere i compiti e di ribadire la presenza politica di Washington in Africa. note: * Giornalista, autore di Un rocher bien occupé, Seuil, Parigi, 2001. (1) Annunciato dal Ciad il 18 maggio, l'arresto è stato confermato soltanto dalla Germania citando fonti del Ciad. (2) Jim Fisher-Thompson, «La Pan Sahel Iniziative incoraggia la cooperazione tra i paesi del Sahel e del Maghreb», Washington File, Servizio informazioni del dipartimento di stato degli Usa. (3) Incontro ministeriale Usa-Africa. Una partnership per il XXI secolo, http://usinfo.state.gov/regional/af/usafr/frenchmn/frsked.htm (4) Si legga Philippe Leymarie, «In Africa la "nuova frontiera" americana», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 1998. (5) Charles Cobb Jr, «Brigade Level Peacekeeping Exercise Begins», www. All Africa.com 10 luglio 2001. (6) Servizio informazioni del dipartimento di stato degli Usa. Washington Files. 16 luglio 2003. (7) Jim Fisher-Thompson, «Gli Usa contribuiscono ad addestrare i militari nigeriani», Washington File. 3 dicembre 2002. (8) Jim Fisher-Thompson, op. cit. (9) Di imminente pubblicazione. (10) Si legga Jean-Christophe Servant, «Offensiva sull'oro nero africano», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2003. (11) Servizio informazioni del dipartimento di stato degli Usa. Washington Files, Washington, 1° novembre 2001. (12) Si legga Philippe Leymarie, «Gibuti tra superpotenza e superpovertà», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2003. (13) Servizio informazioni del dipartimento di stato degli Usa. Washington Files, Washington, 8 marzo 2004. (Traduzione di R.I.) *** UNA PRIORITà GEOSTRATEGICA Offensiva sull'oro nero africano L'Africa, considerata finora dagli Stati uniti come un'entità di scarso interesse, sta ormai diventando per Washington una priorità geopolitica. Mentre prepara la guerra contro l'Iraq, l'amministrazione Bush ridisegna la carta dei suoi approvvigionamenti di petrolio. Il continente nero, con le sue riserve di ottima qualità potrebbe fornire il 25% delle importazioni Usa di greggio da oggi al 2020. In tutti i principali paesi produttori - Nigeria, Guinea equatoriale, Angola - Washington intensifica la sua presenza, insedia consiglieri militari e compagnie petrolifere. Kean-Christophe Servant Mentre gli Stati uniti affilano le armi contro l'Iraq, Washington conduce un'altra battaglia, meno militare ma altrettanto strategica, a diverse migliaia di chilometri dal Golfo. Si tratta di un'«offensiva tranquilla», come la definisce il quotidiano nigeriano The Vanguard (1), ed è «fatta in parte per non irritare gli alleati mediorientali, in parte per ovviare ad una convinzione diffusa secondo la quale l'America s'interessa solo delle risorse africane (2)» e mira al petrolio sub-sahariano. Secondo Walter Kansteiner, sottosegretario di stato americano incaricato delle questioni africane, il petrolio del continente nero «è diventato per gli Stati uniti un interesse strategico nazionale (3)». Da parte sua, l'influente senatore repubblicano della California, Ed Royce, presidente della sotto-commissione Africa all'interno della commissione esteri della Camera dei rappresentanti, dichiara che «dopo l'11 settembre, il petrolio africano dovrebbe essere considerato una priorità per la sicurezza nazionale (4)». Il Congresso e la Casa bianca non hanno ancora ufficializzato questa strategia. Nell'attesa, la manovra sembra confermata da molti interventi, discreti ma significativi, nei confronti dei paesi produttori, in particolare il sostegno portato, all'inizio del 2002, alle trattative di pace in Sudan e i pressanti inviti rivolti alla Nigeria per convincerla ad abbandonare l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Inoltre, nel 2002 Colin Powell ha fatto una storica visita in Gabon - la prima di un segretario di stato americano - mentre, il 13 settembre 2002, il presidente George W. Bush ha offerto una colazione, altrettanto emblematica, a dieci capi di stato dell'Africa centrale. Infine, nel luglio 2002, un alto responsabile del comando militare degli Stati uniti in Europa, il generale Carlton Fulford, si è recato a S‹o Tomè-e-Principe per studiare la questione della sicurezza dei tecnici del petrolio nel Golfo di Guinea, e verificare la possibilità di installarvi un nuovo sotto-comando regionale militare americano, simile a quello esistente nella Corea del sud. Questo rinnovato interesse per l'Africa - che peraltro nel 2000 il candidato Bush affermava «non essere una priorità strategica nazionale» - si spiega con proiezioni economiche decisamente allettanti. La Conferenza delle Nazioni unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad) ritiene che le riserve totali del continente ammontino a 80 miliardi di barili di petrolio, ossia l'8% delle riserve mondiali di greggio (5), e secondo le proiezioni del National Intelligence Council americano, entro il 2015 gli Stati uniti potrebbero importare il 25% del loro petrolio dall'Africa sub-sahariana contro l'attuale 16%. Meglio il petrolio o meglio il buon governo? Già oggi l'Africa nera, con oltre 4 milioni di barili di petrolio al giorno, ha raggiunto una produzione assai rilevante nel quadro mondiale. La sua produzione è aumentata del 36% in dieci anni, a fronte del 16% degli altri continenti. Il Sudan, che ha cominciato ad esportare petrolio tre anni fa, estrae oggi 186.000 barili al giorno (6). La Nigeria - primo esportatore africano di greggio - dovrebbe portare la sua produzione giornaliera da 2,2 milioni di barili a 3 milioni entro il 2007, per poi raggiungere i 4,42 milioni nel 2020. L'Angola, secondo grande produttore continentale, uscito nella primavera 2002 da quindici anni di guerra civile, dovrebbe, sempre entro il 2020, raddoppiare la sua produzione e raggiungere i 3,28 milioni di barili. Nello stesso lasso di tempo, le acque della Guinea equatoriale, che detengono attualmente (insieme all'Angola) il record mondiale in quanto a numeri di permessi di ricerca petrolifera in corso, potrebbero permettere a questo paese di diventare, entro il 2020, il terzo produttore africano di greggio (davanti a Congo e Gabon), fornendo 740.000 barili/giorno. Promettenti, i giacimenti africani presentano anche sicuri vantaggi politici: da una parte, tutti i paesi, ad eccezione della Nigeria, sono fuori da quell'Opec «che l'America, impegnata in una strategia a lungo termine, cerca d'indebolire privandolo di alcuni paesi emergenti (7)». D'altra parte, come sottolinea Robert Murphy, consigliere del dipartimento di stato per l'Africa, queste riserve petrolifere sono fondamentalmente «offshore... al riparo da eventuali tumulti politici e sociali. Nei paesi africani produttori di petrolio, le tensioni politiche, così come qualsivoglia altro motivo di discordia, non hanno grandi probabilità di assumere una dimensione regionale o ideologica tale da provocare un nuovo embargo». Il golfo di Guinea, con i suoi 24 miliardi di barili di petrolio di riserva, dovrebbe così diventare a breve termine il primo polo mondiale di produzione in offshore molto profondo. Infine, le riserve del continente - ad eccezione dei campi sudanesi - arrivano già direttamente sulla costa atlantica, in attesa dell'oleodotto Ciad-Camerun, che drenerà altri 250.000 barili di petrolio al giorno verso l'Atlantico. Per i produttori di petrolio americani (sia i due giganti Exxon-Mobil Corporation e Chevron-Texaco Corporation, che i più modesti Amerada Hess, Marathon od Ocean Energy), che nel 2003 dovrebbero investire laggiù oltre 10 miliardi di dollari, l'Africa petrolifera era chiaramente diventata una priorità geopolitica ben prima dell'11 settembre 2001. Già nel marzo 2000 lo avevano dichiarato alla sotto-commissione Africa della Camera dei rappresentanti, durante una riunione dedicata ai potenziali energetici africani. In quell'occasione, si era fatto notare in modo particolare l'Institute for Advanced Strategic and Political Studies (Iasps) (8). Creato nel 1984 a Gerusalemme, questo think tank è molto vicino sia al Likud, il partito di destra che da sempre sostiene una strategia di disimpegno nei confronti del petrolio saudita, che ai neo-conservatori americani. La vittoria di George W. Bush è anche quella dei produttori di petrolio texani e, dopo l'11 settembre, gli obiettivi dello Iasps cominciano a trovare consenso tra i consiglieri del settore energetico dell'amministrazione e, più in generale, tra i «falchi» della Casa bianca. Il 25 gennaio 2002, lo Iasps ha organizzato un seminario al quale hanno assistito Walter Kansteiner e diversi membri dell'amministrazione Bush (da Barry Schutz, specialista dell'Africa, al tenente colonnello Karen Kwiatkowksi, ufficiale dell'aeronautica militare alle dipendenze del segretario alla difesa), alcuni membri del Congresso (come William Jefferson, rappresentante della Louisiana) e anche consulenti internazionali, responsabili dell'industria petrolifera e di società d'investimento. Da questa sessione nascono l'African Oil Policy Initiative Group (Aopig), interfaccia tra il settore privato e pubblico, e un Libro bianco intitolato African Oil, A Priority for Us National Security and African Development (9). Il messaggio inviato in questa occasione dai produttori di petrolio all'amministrazione Bush è estremamente chiaro: «If you lead, we'll follow [Mostrateci la strada, e noi vi seguiremo]». Da questo seminario in poi, la politica energetica del governo americano mostra segni evidenti dell'influenza esercitata dalla lobby. Svelate nel maggio scorso da Richard Cheney, le scelte energetiche della politica nazionale americana lo dimostrano. Per il vicepresidente americano, «il petrolio africano, grazie alla sua alta qualità e al basso tasso di zolfo, rappresenta un mercato in crescita per le raffinerie della Costa est». A metà di luglio, quindi abbastanza di recente, l'Aopig è corso in aiuto della Nigeria - il nord del paese essendo agitato da disordini politici e sociali - , inviando a Lagos una missione condotta dall'«evangelista del petrolio (10)» Michael Wihbey. Ufficialmente, la missione avrebbe dovuto creare una Commissione del Golfo di Guinea per riunire gli stati produttori di greggio della regione. Ufficiosamente, avrebbe invece affrontato il tema della fuoriuscita dall'Opec, voce poi smentita da Abuja. «Per evitare gli errori commessi nel Golfo», il Libro bianco dell'Aopig propone, tra l'altro, di prestare maggiore attenzione alla trasparenza nelle dichiarazioni dei redditi basati sul petrolio e di ampliare le facilitazioni doganali già offerte dall'America all'Africa. Suggerisce anche un impegno prudente e controllato degli Stati uniti a favore dell'annullamento del debito. Se queste intenzioni dovessero «trasformarsi un giorno nella vera politica americana (11)», allora le cose da fare sarebbero veramente tante. Petrolio e «buon governo» restano infatti antinomici. In un testo pubblicato nel luglio 2002, l'Associazione delle conferenze episcopali della regione dell'Africa centrale (Acerac) ricorda «la complicità esistente tra le compagnie petrolifere e i politici nella regione», come pure il fatto che «i proventi del petrolio sono utilizzati per mantenere al potere alcuni regimi (12)». In Angola, dove la società Chevron controlla il 75% della produzione petrolifera, secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), i futungo (cricca compradora vicina al potere) nel 2001 avrebbero stornato oltre il 30% dei profitti provenienti dalla manna petrolifera. Ma è uno dei più piccoli paesi produttori, la Guinea equatoriale, che riassume nel modo più crudo come gli Stati uniti stanno ridisegnando la loro strategia petrolifera. In questo «Kuwait africano» il cui prodotto interno lordo (Pil) è cresciuto del 70% nel 2001 e che sembrerebbe disporre di riserve valutate in 2 miliardi di barili di petrolio, gli Stati uniti si apprestano a riaprire un consolato (chiuso dall'amministrazione di Clinton per motivi di bilancio) e a cancellare questo stato dalla lista dei 14 paesi africani accusati di non rispettare i diritti umani. D'altronde questo paese, descritto dal rapporto annuale della Cia come una nazione gestita «da dirigenti senza legge che hanno saccheggiato l'economia nazionale», dispone di un ambasciatore negli Stati uniti (il genero del presidente Teodoro Obiang), che ha assistito al forum dello Iasps. E peraltro, come ricorda un'interessante inchiesta di The Nation (13), due terzi delle concessioni petrolifere della Guinea equatoriale sono state assegnate a operatori americani che vantano «legami molto stretti con l'amministrazione Bush». E infatti William Mc Cormick, proprietario della compagnia petrolifera Cms Energy, ha contribuito con 100.000 dollari alla cerimonia d'investitura presidenziale di George W. Bush. Dal canto suo, Ocean Energy, altra società petrolifera attiva nel Golfo di Guinea, ha assunto come consulente a Malabo Chester Norris, ex ambasciatore degli Stati uniti nel paese, durante l'amministrazione di Bush padre. Per completare questo quadro degno di una repubblica delle banane, i giacimenti offshore della Guinea equatoriale dovrebbero prossimamente essere difesi da guardiacoste formati dalla Military Professional Ressources Inc, una società privata gestita da alti gradi in pensione del Pentagono (presente anche in America latina, come subappaltatrice, nel Plan Colombia). All'ambasciata della Guinea equatoriale a Washington, la situazione viene riassunta così: «nel nostro paese, sono le compagnie petrolifere che informano il dipartimento di stato americano». La visita che George W. Bush ha in programma nella primavera 2003 in Africa - e in primo luogo in Nigeria - potrebbe dunque, per più di un motivo, rivelarsi storica. note: * Giornalista. (1) The Vanguard, Lagos, 30 settembre 2002. (2) James Dao, «In Quietly Courting Africa, U.S. Likes the Dowry: Oil», The New York Times, 18 settembre 2002. (3) Conferenza dello Iasps, 25 gennaio 2002, http://www.iasps.org (4) Conferenza dello Iasps, op. cit. (5) Conferenza delle Nazioni unite per il commercio e lo sviluppo: «Les services énergétiques dans le commerce international et leurs incidences sur le développement», giugno 2001. www.unctad.org (6) Si legga Gérard Prunier, «In Sudan, la pace introvabile», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2002. (7) «Roger Diwan della Petroleum Finance Company, The New York Times, 18 settembre 2002. (8) www.iasps.org. (9) Consultabile per esteso su www.marekinc.com/BustEcoUSAO61301.html (10) Si legga «US Leads Oil Boom in «Other Gulf»», Associated Press, 19 settembre 2002. (11) Malcom.E.Fabibyi: «The Wisdom in remaining with Opec», su www.gamji.com (12) Conferenza episcopale delle chiese dell'Africa centrale: «L'église et la pauvreté en Afrique centrale: le cas du pétrole» luglio 2002, http://www.eireview.org (13) Ken Silverstein, «Oil Politics in the Kuwait of Africa, The Nation, New York, 22 aprile 2002. (Traduzione di G.P.)

DIVA
Inviato: 7/11/2004 17:51  Aggiornato: 7/11/2004 17:51
Mi sento vacillare
Iscritto: 11/6/2004
Da:
Inviati: 530
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
iela...e in parole povere ?

Linucs
Inviato: 7/11/2004 20:10  Aggiornato: 7/11/2004 20:10
Sono certo di non sapere
Iscritto: 25/6/2004
Da:
Inviati: 3996
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
Boeing ed Airbus è un po' che si pestano i piedi, certo mai come Putin e Israele/Yukos

iela
Inviato: 7/11/2004 21:38  Aggiornato: 7/11/2004 21:38
So tutto
Iscritto: 26/5/2004
Da:
Inviati: 15
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
In parole povere... basta leggere prime righe (quelle che ho scritto io).

italofranc
Inviato: 8/11/2004 0:58  Aggiornato: 8/11/2004 0:58
So tutto
Iscritto: 7/11/2004
Da:
Inviati: 25
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
grazie Massimo di farmi entrare nella discussione dalla francia Chi ti srive è da un pezzo che ritiene Bush un criminale e che faccia parte del complotto dell'11/9/2001. Complimenti per i tuoi articoli, spero che molti italiani saranno convinti grazie a te. Detto questo devo commentare l'articolo in ogetto "anche la Francia...... la Francia, con tutte le sue colpe da neo-colonialista, ha da risolvere il grave compito di proteggere e rimpatriare circa 15.000 francesi residenti in COSTA D'AVORIO, anche donne e bambini. Lo so che per un italiano forse non è molto importante, pero' questa situazione mi fa ricordare quando ero in Tchad nel '79 con una ditta italiana e Ghedafi invadeva dal nord quel paese minacciando tutti (con una guerra civile imminente) . Ti giuro Massimo, dopo aver ricevuto in pieno deserto via radio dall'Ambasciatore Italiano rifugiato per primo in Cameroun le parole "Sono con voi, vi penso tutti!", e abbiamo visto la Legione Francese con gli elicotteri caricare e salvare tutte le nostre famiglie, la piu' parte italiane, c'erano poche critiche nei riguardi della Francia. Le famiglie romane che erano con noi dicevano tutte:"che paraculo il nostro ambasciatore". Morale: vacci piano se non conosci l'Africa, chiedi agli italiani che ci sono stati, tanti hanno salvato la pelle grazie all'amica Francia. Italofranc

Redazione
Inviato: 8/11/2004 8:58  Aggiornato: 8/11/2004 8:58
Webmaster
Iscritto: 8/3/2004
Da:
Inviati: 19594
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
Ciao e benvenuto, fa piacere di colpo accorgersi che veniamo letti non solo in Italia. (Se c'è qualcun altro che ci legge dall'estero, ce lo faccia sapere!) Non credo che siamo in disaccordo, alla fine. La mia era una rabbia rivolta soprattutto all'ipocrisia dell'Eliseo, che mentre faceva tanto moralismo contro gli USA, si organizzava zitto zitto la sua bella intrusione militare in Costa D'Avorio. Ma "la Francia" non sono i francesi, e la gente naturalmente è tutta un' altra cosa. Anzi, alla fine sono proprio quelli che sono rimasti intrappolati in Costa d'Avorio le prime vittime di questo neo-colonialismo ormai decisamente anti-storico. Lo stesso è successo per gli inglesi che hanno dovuto lasciare in gran fretta la Palestina, nel '48, che hanno passato davvero un brutto quarto d'ora, oppure per gli italiani che nel '67 hanno dovuto lasciare la Libia in sei ore, all'arrivo di Gheddafi. Mio nonno era fra quelli, fra l'altro, e quindi due storielle "in diretta" ho fatto in tempo a sentirle anch'io. Ma è sempre così, i tuoi governanti ti raccontano quello che vogliono, e solo quando sei lì in mezzo al deserto ti rendi conto che non ti avevano detto tutta la verità. A presto, Massimo

nuin
Inviato: 8/11/2004 10:52  Aggiornato: 8/11/2004 10:52
Ho qualche dubbio
Iscritto: 16/6/2004
Da:
Inviati: 279
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
E' incredibile dover stare a parlare di vecchie abitudine coloniali nel 2004, ma la verità è che quella che vediamo in questi giorni, che la francia è a tutt'oggi nel pieno diritto di mandare le sue truppe in un paese sovrano (sigh!) per appoggiare il suo governo fantoccio, che le assicura gli introiti previsti e concordati. Il punto non è stare a guardare i singoli eventi, nel singolo evento c'è sempre la singola persona che merita tutto il nostro rispetto e la nostra stima (ho conosciuto diversi cooperanti francesi che davvero spendevano la loro vita lavorando con amore nelle cosiddette ex-colonie), ma quello di guardare la situazione in maniera più globale, renderci conto che il colonialismo non è morto con la 2° guerra mondiale come ci insegnano nei libri di scuola, ma è sopravvissuto, appunto, grazie all'esistenza di questi governi fantoccio, che asssicurano ai paesi dominanti il controllo economico e politico sulla regione. E poco male se, ogni tanto, per non perdere questi introiti è necessario bombardare questa o quella etnia, questa o quella regione...in africa, nel silenzio mondiale assordante, interrotto solo dai cacciabombardieri che scorrazzano in iraq, sono tutt'ora in corso guerre, genocidi, epidemie mortali (e malattie che qui da noi vengono curate con farmaci alla portata di tutti...), il tutto nel disinteresse generale e in un altro silenzio assordante: quello ipocrita dell'onu.

Fra80
Inviato: 8/11/2004 11:20  Aggiornato: 8/11/2004 11:20
Ho qualche dubbio
Iscritto: 27/10/2004
Da: perugia
Inviati: 129
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
Grande nuin! Nn avrei saputo trovare parole migliori.Oggi nn si chiama più colonialismo,mi sa ke va sotto il nome di capitalismo.Permettetemi questo accostamento.

Fra




- "Chi ha il potere di farti credere a delle assurdità possiede anche quello di farti commettere delle atrocità"- Voltaire
vincenzo
Inviato: 8/11/2004 17:36  Aggiornato: 8/11/2004 17:36
Dubito ormai di tutto
Iscritto: 9/6/2004
Da: u-oy-topos middle Oceania
Inviati: 1304
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
Citazione:
il tutto nel disinteresse generale e in un altro silenzio assordante: quello ipocrita dell'onu.
Tanto per iniziare da uno spunto. Siamo d'accordo sul colonialismo capitalistico, finanziario soprattutto, finalizzato ad interessi geo-economici. Però non mi stupisce l'ipocrisia dell'onu, la francia ha diritto di veto. Piuttosto mi fa sentire ipocrita parlarne in continuazione, sempre gli stessi ragionamenti, senza concludere niente concretamente. Lo ripeto per la miliardesima volta, fintanto rimearremo a discuterne e ad incazzarci contro l'onu, zio sam, il capitalismo, i comunisti, i future, wall street, fintanto rimarremo dietro ad un monitor, LORO se ne strafottono di noi, pensando che le cose migliorino, ma in proprozione oggi c'è molta più gente che muore di fame rispetto a tanti anni fa.....e la Francia, o chicchessia continuano le loro guerre, quelle nascoste dietro le facce di cazzzzo dei giornalisti. Che ardano tutti. Che si distrugga pure il mondo, a quento pare l'unico modo per far piangere chi non si è accorto di nulla e crede di vivere una vita in pace alla faccia degli altri, i reietti dell'altro pianeta, i diseredati.....

1 - Non fanno caso, costoro, che quando in Internet compare qualcosa di veramente scottante, scompare nell’arco di pochi minuti? Se invece qualcosa ci rimane per sempre – e pure in bella vista - vuole dire che lì da nascondere c’è ben poco.
nuin
Inviato: 8/11/2004 19:34  Aggiornato: 8/11/2004 19:34
Ho qualche dubbio
Iscritto: 16/6/2004
Da:
Inviati: 279
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
Fra80, l'accostamento va bene, uno non soppianta l'altro. Il colonialismo di vecchio stampo è stato semplicemente aggiornato in modo da essere compatibile in un mondo ormai "globalizzato", così viene definito neo-colonialismo; stessa cosa, ma invece di impiegare uomini e mezzi per muovere all'invasione, si preferisce invadere, solitamente, in modo apparentemente più soft, utilizzando i grandi capitali, le multinazionali, penetrando nei gangli economici del paese-preda, riunendoli poi tutti nelle mani del presidente-fantoccio di turno, messo lì a proteggere gli interessi del paese che, con la scusa degli aiuti, dell'esportazione della democrazia o dell'ennesima favoletta di turno, si è così, di fatto, appropriato delle ricchezze di qualcun'altro. Il capitalismo è solo il potere più forte che sottende a tutto ciò, in una immaginaria piramide si colloca in cima e da li tutto genera, tutto protegge, tutto gestisce. Sarebbe interessante provare ad immaginare cosa succederà quanto questo sistema, quello capitalistico, imploderà su se stesso, quando la produzione dovrà essere arrestata perchè il mercato non sarà più in grado di assorbirla....che succederà allora? Vincenzo, condivido la tua frustrazione ed il tuo senso di impotenza, anch'io tante volte penso che non sarà così che cambieremo le cose, non saranno i cortei pacifisti che fermeranno le guerre, non sarà qualche sciopero programmato ed strannunciato che estorcerà condizioni migliori per i lavoratori, che anzi, nel precariato stanno trovando la fine di tutte le certezze, le garanzie, i diritti. Personalmente ancora non ho individuato una strategia di lotta che possa portare a risultati concreti, subito, e questo mi fa sentire tanto più impotente e frustrata quanto più mi rendo conto che la maggior parte della gente si beve senza problemi le favole che gli vengono raccontate, ma che soprattutto è completamente inconsapevole di quanto il benessere di cui gode implica necessariamente la miseria di qualcun'altro, la pace in cui si bea si tiene su inconfessabili accordi che costringono alla guerra qualcun'altro, che la libertà di cui va tanto fiera viene pagata dalla schiavitù e dalla sottomissione di qualcun'altro. Ma, ripeto, non ho ancora trovato una strategia di lotta da proporre. Per il momento l'unica cosa che mi sembra importante è divulgare: divulgare i nostri dubbi, le nostre idee, quella che pensiamo essere, se non la verità, almeno la cosa che gli si avvicini di più, visto che anoi raccontano solo menzogne. E in questo divulgare, tentare di aprire gli occhi a più gente possibile: ogni persona a cui suscitiamo un dubbio, ogni persona che si pone una domanda in più, ogni persona che comincia ad ascoltare con un certo sospetto le notizie al tg della sera....sarà una piccola cosa che abbiamo fatto per questo mondo....una piccola cosa, piccolissima, ma se queste persone le moltiplichiamo in maniera esponenziale per quanti siamo noi, solo in questo sito...non credi che potremmo dire di aver già raggiunto un piccolo, piccolissimo risultato? Non credi che il male peggiore, in questo momento, sia proprio l'assoluto disinteresse, l'assoluto appiattimento sulle versioni ufficiali, l'assoluta inconsapevlezza di quali interessi muovano questo nostro mondo, sempre più ingiusto ed insicuro?

Mazzucco
Inviato: 8/11/2004 20:27  Aggiornato: 8/11/2004 20:27
Webmaster
Iscritto: 21/12/2003
Da:
Inviati: 193
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
VINCENZO: se tutti facessero solo un quarto dello sforzo che facciamo noi ogni giorno per ragionare... Piuttosto (leggi col tono di Gassman a teatro): io sento in te, ultimamente, come un "ribollire" di energie nuove, una sorta di giovanile istanza wertheriana (che sarebbe a dire, tradotto, "io me n'aggio a ire") che sta prendendo forma e consistenza... o sbaglio? Massimo

titusnefasto
Inviato: 8/11/2004 21:04  Aggiornato: 8/11/2004 21:04
Mi sento vacillare
Iscritto: 19/5/2004
Da: daumpa
Inviati: 417
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
hanno alzato le chiappe i nostri nonni le hanno alzate i nostri padri ora tocca a noi sebbene siamo su LC un "niente di nuovo sotto il sole" possiamo permetterci di dirlo, non per giustificare, ma per ribadire che bisogna agire se si vuole cambiare. prima o poi saremo costretti a farlo.

vincenzo
Inviato: 9/11/2004 9:22  Aggiornato: 9/11/2004 9:22
Dubito ormai di tutto
Iscritto: 9/6/2004
Da: u-oy-topos middle Oceania
Inviati: 1304
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
Citazione:
o sbaglio?
no, non sbagli affatto!

1 - Non fanno caso, costoro, che quando in Internet compare qualcosa di veramente scottante, scompare nell’arco di pochi minuti? Se invece qualcosa ci rimane per sempre – e pure in bella vista - vuole dire che lì da nascondere c’è ben poco.
nuin
Inviato: 9/11/2004 17:54  Aggiornato: 9/11/2004 17:54
Ho qualche dubbio
Iscritto: 16/6/2004
Da:
Inviati: 279
 Re: ANCHE LA FRANCIA HA IL SUO PICCOLO IRAQ
vero, titus.... ci sono generazioni che per motivi storici si ritrovano obbligati a "alzare le chiappe"....noi, fortunatamente o sfortunatamente (dipende da come la si vede ) siamo ancora un po' "in mezzo", forse, se mai ci sarà, la vera "rivoluzione" la faranno i nostri figli, ma, fosse anche così, mi sembra fondamentale cominciare a tracciare un solco: di idee, di valori, di principi, ma soprattutto di una rinnovata indignazione di fronte alla spirale barbarica in cui il mondo sta precipitando...e noi con lui...


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