Vajont: 43 anni sotto il fango

Data 9/10/2006 9:50:00 | Categoria: storia & cultura

di Claudio Gasparato

Marco Paolini è un “beumat” (o “belumat”), un bellunese, attore, autore e regista che nel 1990 fondò la compagnia Moby Dick – Teatri della Riviera, dove per Riviera s’intende la Riviera del Brenta e precisamente i comuni di Dolo e Mira. È sulle rive del Naviglio Brenta che nasce l’Orazione Civile che avrebbe portato il nome di Marco Paolini sulla bocca di tutta Italia, dalla Vetta d’Italia a Lampedusa. È in questi luoghi, dove sono nato e cresciuto, che si è sviluppata una vicenda che costituisce ancora, a quanto ne so, un episodio unico e irripetibile nella storia della televisione italiana.

Nell’era dell’informazione a valanga, che tutto travolge e tutto mischia, la storia dell’Orazione Civile mi ricorda gli aedi che nella Grecia arcaica giravano di paese in paese per raccontare le storie e i miti; con una forzatura, potremmo considerarlo il cinema di allora. Gli aedi tramandavano una storia anche per centinaia di anni, ...
... in periodi, come il cosiddetto medioevo ellenico, in cui praticamente non esisteva la scrittura e per questo svilupparono una capacità mnemonica eccezionale. È in questo modo, per fare un esempio, che si sono propagate e tramandate le vicende della guerra di Troia. L’aedo dei giorni nostri, Marco Paolini, ha cominciato a raccontare una storia tremenda nel 1993 e l’ha ripetuta centinaia e centinaia di volte, cominciando dalle case degli amici, per arrivare nelle piazze e passando per scuole, ospedali, circoli culturali, teatri… A differenza degli aedi, che inghirlandavano le loro storie a mano a mano che ci si allontanava dal momento raccontato (l’Iliade è un magistrale miscuglio di mitologia, storia, epos e poesia), Paolini ha aggiunto dati, notizie e fonti negli anni che vanno dal 1993 al 1997 ed è arrivato sul palcoscenico sormontato dal mostro che fa ancora bella mostra di sé, la diga del Vajont, con tutta la storia nella testa. Come per le storie degli aedi, che ebbero in Omero, o chi per lui, il redattore che ne ha conservato i racconti tramandati per secoli, quel patrimonio racchiuso nella testa di Marco Paolini meritava di essere raccolto e portato a conoscenza di un pubblico più vasto possibile. È proprio quello che è successo e questo non può che destare meraviglia.

Mia mamma viveva in una famiglia “benestante”, nel senso che, a differenza della famiglia di mio padre, riusciva a mettere insieme ogni giorno pranzo e cena; a differenza di mio padre, che ha dovuto abbandonare la scuola per cominciare a lavorare all’età di nove anni, mia madre aveva anche la possibilità di fare le vacanze estive in montagna. Merito delle zie suore che la ospitavano, ma tant’è. Le sue vacanze estive significavano Erto, uno dei paesi a monte della diga, che con Casso formava il comune impronunciabile di Erto-Casso. Avevo sette o otto anni quando facemmo una gita nei luoghi delle vacanze adolescenziali di mia madre, a bordo della Fiat 600 che sputava vapore ad ogni salita più lunga di un chilometro. Io ero il classico bambino rompiballe, di quelli da una media di mille “perché?” all’ora, sopportato a fatica e giustamente. Dovevo raccogliere notizie e informazioni dai discorsi dei grandi, che ai miei “perché?” rispondevano immancabilmente con un “tasi!”, “sta xito!” e da quelle informazioni slegate e frammentarie capii che in quei luoghi era successo qualcosa di mostruoso… La diga, però, l’avevano già ricostruita, pensai: era lì, massiccia, imponente, altissima.

È incredibile constatare che l’ignoranza di un bambino di sette, otto anni sia paragonabile all’ignoranza di gran parte del circo mediatico dell’informazione. Ancora in occasione dei quarant’anni dalla tragedia, nell’ottobre del 2003, i servizi e i singoli giornalisti che parlavano di “crollo” della diga non si contavano. No, la diga non è crollata per niente. La diga, come dice Paolini, era un gioiello dell’ingegno e dell’ingeneria italici. Da esserne orgogliosi, da gonfiare il petto...

Marco Paolini è arrivato alla fine di quel lungo percorso, iniziato nel 1993 a Marano Veneziano (primo racconto pubblico), il 9 ottobre 1997. L’Orazione Civile poteva andare in scena nel luogo naturale, il Vajont, all’ombra della diga e con un megafono non da poco, la diretta sul secondo canale della Rai Radio Televisione Italiana. Minchia! Un attore e autore sconosciuto ai più, per quanto bravo, in diretta in prima serata e per tre ore per merito di una delle ammiraglie del carrozzone mangiasoldi chiamato Rai. Tutto questo per raccontare la figura di merda (scusate…) di SADE, ENEL, stato, enti locali e chi più ne ha più ne metta. Se qualcuno si è scandalizzato per la parola “merda”, mi scuso ancora e cambio vocabolo: assassina! Va meglio?

Il racconto di Paolini è vibrante, ironico, comico in alcuni tratti, preciso, documentato, senza sbavature. È intuibile che, da buon aedo, la storia ce l’ha completamente in testa, non ha bisogno di parole scritte e se ogni tanto legge qualcosa, è solamente per non intimidire noi poveri esseri umani. Sì, perché in quelle serate, come ha raccontato lo stesso attore, Paolini era qualcosa di più di un essere umano; o meglio, quell’essere umano è riuscito a convogliare su di sé e a rimandare agli altri, tutta la rabbia, la frustrazione, le lacrime e anche l’odio, sì, l’odio, delle persone che da quarant’anni attendono giustizia. Una concentrazione tale di sentimenti da distruggere una mente, da farla potenzialmente esplodere. Non è successo, o meglio, è successo che quell’esplosione virtuale si sia propagata in maniera benefica verso chi ascoltava. Ne riparleremo (chi si è stancato di leggere, può tranquillamente smettere, perché la storia è ancora lunga).

Pensando al disastro indiano di Bhopal, è difficile non porre in rilievo le coincidenze tra quella tragedia e la storia pazzesca del Vajont. Interessi economici più che rilevanti, sottovalutazione dei rischi ambientali, assoluta noncuranza verso la popolazione locale, le avvisaglie del disastro incombente e pure il giornalista che cerca di mettere in guardia dal pericolo, in entrambi i casi, sottostimando l’entità della catastrofe reale e futura. Paolini ha dedicato la sua passione civile anche ai morti di Bhopal: specializzato in disastri? Teatro delle lacrime e del dolore? No! Storia degli uomini, tragedia moderna composta di nomi che impongono e di masse che subiscono. Nei casi di Bhopal e del Vajont, infatti, i nomi ci sono, non siamo nel caso degli “innominabili” di Giorgio Gaber: di noi posso parlare, cantava Gaber, perché so chi siamo. Noi sappiamo chi sono gli altri e molti altri conoscono e hanno conosciuto quei nomi da quel 9 ottobre 1963. Quei nomi li sa anche Marco Paolini, tanto che la sua Orazione Civile, in alcuni momenti, si trasforma in un potenziale verbale della Questura.

Chi giunge a Longarone, lungo la valle del Piave, entra in un paese moderno, un paese che, a differenza di altri della stessa zona, sembra non avere una storia scritta sulle case; ma non ci si fa caso, si passa e si continua verso Cortina e le montagne del Cadore. Chi si ferma in paese può darsi un’occhiata in giro e puntando lo sguardo verso est, introfularsi verso una gola strettissima e minacciosa: eccola la figura grigia e funerea della diga, ecco lo scivolo lungo il quale i milioni di metri cubi d’acqua si sono lanciati nella loro corsa verso la distruzione di interi paesi, il primo dei quali è quello che vi ospita in questo momento, il paese, Longarone, che non ha storia, perché la sua storia è stata spazzata via in pochi secondi più di quarant’anni fa. Paolini comincia da Longarone, da quella fermata ferroviaria che lui vedeva ogni estate sulla via delle vacanze. “Un sasso è caduto in un bicchier d’acqua”, scrisse Dino Buzzati l’11 ottobre 1963. Il sasso, il bicchiere, la tovaglia con le migliaia di moscerini umani che non potevano difendersi (Giorgio Bocca): belle parole, poetiche quasi. Buzzati e Bocca, tuttavia, nel loro afflato poetico, si dimenticano dei moscerini, quasi che un Raskolnikov e un Dostoevskij siano passati invano e si concentra sul bicchiere. Il bicchiere che non si è rotto. O gioia, o gaudio…

Tra i ricordi personali e i momenti gustosi, come la gita in sidecar del geologo Giorgio Dal Piaz e dell’ingegnere Carlo Semenza, Paolini snocciola dati come un computer.

- Ricordate la tragedia della Val di Stava, 18 luglio 1985? 268 morti per il crollo di una diga della Montedison. 450.000 metri cubi di fango.
- Ricordate la frana della Valtellina, estate 1987? 45 milioni di metri cubi di montagna che crollano e cambiano la geografia della zona.

E il Vajont? 260 milioni di metri cubi di roccia che precipitano come un sasso nel bicchiere di Buzzati e spazzano via duemila moscerini incoscienti che invece di volare via se ne stavano sulla tovaglia. Metafora troppo forte parlando di esseri umani? Giorgio Bocca scrisse di tragedia pulita in tempi di bomba atomica, una tragedia sulla quale gli uomini non hanno messo le mani. “Se davvero la natura si decidesse a colpirci…”, aggiungeva Bocca. La natura, purtroppo, non ha pensato di colpire la sua penna in quei giorni. Non poteva sapere, si potrebbe pensare. Si sapeva, eccome se si sapeva. Tina Merlin aveva dalla sua la malaugurata sorte di essere comunista e di scrivere per il foglio comunista, l’Unità, ai tempi, per quanto ne so, poco più di un foglio di partito (per molti lo è stato anche ai tempi di Veltroni e lo è ancora oggi, ma non addentriamoci). La Merlin, come quell’oscuro giornalista indiano che aveva tentato di denunciare la tragedia imminente di Bhopal, cercò di fare la Cassandra della situazione che si stava profilando nel Vajont, ma nemmeno la sua influenza di parlamentare socialista riuscì a smuovere nulla. Era la solita catastrofista, insomma e di lei i vari Bocca, Buzzati e Montanelli non si ricordarono nemmeno a sasso caduto e tovaglia bagnata.

Il racconto di Paolini prosegue ormai cronologicamente con le fasi della costruzione, i primi sgomberi delle case che verranno invase dal lago che si formerà sull’invaso, i dubbi di questo e di quello, subito rassicurati da chi di dovere. Si arriva ai collaudi e alle prove di invaso. Prima di tutto questo, una frana piomba sulla diga di Pontesei, poco a nord del Vajont. Un campanello di allarme? Ma no: è morto un solo moscerino, che per di più non stava su nessuna tovaglia, ma sul bordo del bicchiere. Il suo corpo non verrà mai più ritrovato: occhio non vede, cuore non duole.

La SADE, nazionalizzata e diventata ENEL, ha fretta di entrare in azione. Il tempo passa e bisogna fare “schei”, come direbbe un Paperon de’ Paperoni veneto. Un geologo austriaco dice che c’è un’enorme frana che incombe sull’invaso della diga? Balle. L’ingegno italico non si può fermare, tanto più per le parole invidiose di un nemico che ci aveva invaso (ironia delle parole). Le prove d’invaso, insomma, continuano e si arriva alla terza, la più importante, il collaudo definitivo della diga. Il livello arriverà a 715 metri sul livello del mare, di soli sei metri sotto l’orlo della diga, nonostante le raccomandazioni dell’ingegner Ghetti di non superare quantomeno quota 700. Balle. Quei quindici metri, secondo Ghetti, in caso di frana provocherebbero un’onda di “proporzioni infinitamente più grandi”. Ghetti insegna all’Università di Padova, cosa ne sa di montagne e di frane coi suoi minuscoli Colli Euganei? Si va avanti. Si riempie e l’acqua sale, sale, sale. All’inizio di settembre si raggiunge quota 710 e la frana si muove sempre di più, fino a quando, il 2 settembre, il monte Toc (“toco”, pezzo…) molla un peto sotto forma di un terremoto del settimo grado della scala Mercalli. Il comune di Erto si allarma, anche perché alcune case del paese crollano in seguito alla scossa, avvertita anche in fondo alla valle, a Longarone. Balle. La situazione è sotto controllo. Secondo le colonnine-indicatori piazzate dai geologi, la montagna si è spostata (tutta assieme!) di ventidue centimetri in avanti, ma la situazione è sotto controllo. Siamo o non siamo i geni italici?

Un dubbio, però, s’insinua anche tra i tranquillizzatori. Le colonnine che si spostano tutte assieme, confermano che il geologo austriaco, quel nemico, aveva ragione: la frana del Toc è proprio un pezzo unico ed è qualcosa di più di un sasso. Viene fermato il collaudo, ma la frana non ne vuole sapere di fermarsi. È ciò che succede di solito: la pressione dell’acqua dovrebbe fermare il movimento franoso, ma in questo caso la frana è ribelle e continua a muoversi, 22 millimetri al giorno.
Cos’era successo? La montagna, quel “toco” immenso, era diventata una spugna che beveva come gli “inbriaghi” delle nostre parti, che cominciano con le “ombre de vin” fin dal primo mattino. Il livello freatico della montagna era pari al livello del lago, non poneva più alcuna resistenza. Risultato: togli l’acqua e viene giù tutto, lascia l’acqua e potrebbe venir giù tutto, ma su un livello tale da provocare un’ondata di catastrofiche dimensioni.

Si comincia a togliere l’acqua e la montagna dietro, come un cagnolino. Pericolo? Balle. È tutto sotto controllo, tanto che l’ingegnere responsabile parte per un viaggio negli Stati Uniti. Il livello arriva a 700 metri il 9 ottobre 1963. Siamo salvi!

È a questo punto che il racconto di Paolini si trasforma in una delle più straordinarie dimostrazioni dell’ingegno umano, altro che le dighe! Ho rivisto più volte l’Orazione Civile e non riesco ad abbandonare l’idea che Paolini in quel momento, nella parte finale del racconto, si trasformi da uno a tanti, che riesca a nutrirsi della rabbia e delle lacrime per lanciarsi in una delle più tremende invettive che le mie orecchie abbiano mai ascoltato. Non è un’invettiva fatta di parolacce, no, qui le parolacce non servono: basta il racconto e la forza delle parole di Paolini per far vergognare e smuovere tutto dentro.

È la sera di Glasgow Rangers – Real Madrid, in Eurovisione. A Longarone sono quasi tutti davanti ai televisori dei bar quando, alle 22 e 39, l’ultimo filo che teneva su la frana, “l’ultima bava di ragno” la chiama Paolini, cede e con un’accelerazione da 60 centimetri a 100 chilometri all’ora, piomba sul lago. 50 milioni di metri cubi d’acqua si alzano a formare un fungo di 250 metri che batte contro lo sperone roccioso di Casso, frantuma i tetti delle case con gli schizzi, ma non fa nessun morto. Mezza di quell’onda torna verso l’invaso e si dirige verso l’altra sponda, verso Erto. A Erto si contano i morti, ma l’onda nel suo viaggio ha perso potenza e i paesi delle frazioni sottostanti vedono un oceano passare a cinquanta metri sopra le loro teste e si rallegrano (?) di poterlo raccontare.

Moscerini di Casso illesi, mentre a Erto e frazioni si contano 160 morti. Una tragedia immane, ma chi si ricorda di loro? Dei 50 milioni di metri cubi d’acqua innalzatisi dal lago, sono “solo” 25 quelli interessati ai paesi in eterno conflitto di Erto e Casso: gli altri 25 si dirigono verso il fondo valle, attraverso quel canalone costruito nel tempo dal torrente Vajont, verso la tovaglia che si chiama Longarone e verso i suoi moscerini. La diga è una bazzecola: nel punto più alto, l’acqua sovrasta il bordo di 230 metri, mentre un rombo di tuono che non è un tuono e che mai dovrebbe essere udito da orecchio umano e che ancora oggi segna i ricordi dei sopravvissuti, annuncia l’arrivo del convoglio. Prima dell’acqua, però, arriva il messaggero, l’aria: il Giorgio Bocca che usava il paragone tra l’era atomica e la tragedia “pulita” del Vajont, non pensò allo spostamento d’aria provocato da quel lago immenso che s’incanalava nella stretta gola del torrente, come poteva? Dei duemila corpi di Longarone, se ne trovarono non più di mille: gli altri? Spazzati dallo spostamento d’aria che toglie indumenti, pelle, organi interni, ossa, tutto, come una bomba atomica. Ciò che resta viene frantumato dall’interprete principale, l’acqua e i detriti che trasporta, un muro di 30 metri che piomba a una velocità di 80 chilometri all’ora sul Piave, sulle case, sulle strade… e sui moscerini. Come in un gioco osceno, l’onda spazza via Longarone e risale verso nord per due chilometri e poi ritorna per terminare il lavoro e dirigersi verso il mare: “60 chilometri dopo Longarone il muro della piena che corre lungo il Piave è alto a tratti ancora 12 metri”.

Paolini è un convoglio di emozioni mentre racconta i momenti finali della tragedia. Dopo aver atteso l’ora esatta di quel 9 ottobre 1963, si lancia come l’onda di piena, strabordante, inarrestabile, urlante tutto il dolore di quei momenti che lui non ha vissuto, ma ha interiorizzato, incanalato, macinato e restituito a tutti noi. L’Orazione Civile raggiunge un punto di non ritorno: non si può andare oltre, inutile andare oltre. I processi, le battaglie per i risarcimenti che non restituiranno a nessuno le perdite umane, che non sono moscerini, qualcuno lo dica a Giorgio Bocca, sono un tema diverso. Ciò che si doveva fare, lo si doveva fare prima, non dopo. Che il dopo sia uguale al prima, con le vergognose condotte di ENEL e stato, non fa che confermare che vicende come quella del Vajont servono a poco o nulla. È un bene che ci siano i Marco Paolini a ricordarcelo.

Vergogna!

Claudio Gasparato ("Caio")








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