USA e Iran nemici - amici per l'unità degli sciiti

Data 15/2/2007 12:00:00 | Categoria: Iraq

di Andrea Franzoni

Il 29 gennaio, nella città santa sciita di Najaf, le truppe americane intervennero offrendo supporto aereo a reparti dell’esercito irakeno impegnati in un conflitto a fuoco contro alcuni “miliziani” appartenenti a tribù locali. La potenza di fuoco americana, intervenuta sulla scorta della richiesta di sostegno mossa dalle truppe dell’esercito regolare che avevano parlato di un attacco da parte di gruppi terroristici legati ad Al Qaeda, risolse una battaglia feroce durata 15 ore lasciando sul campo 263 vittime tra i “miliziani” (tra cui donne e bambini). Ad oltre 20 giorni, tuttavia, una verità tragica e sconvolgente è filtrata quasi completamente grazie al lavoro di alcuni inviati coraggiosi che hanno raccolto le perplessità e le testimonianze dei capi tribali e della stampa locale.

La nuova versione dei fatti, confermata da fonti locali, è ancora più drammatica perché parla di un conflitto interno sorto tra gruppi sciiti vicini all’Iran (che detengono la maggioranza nel governo e nell’esercito irakeno) e gruppi sciiti ostili nel quale gli Stati Uniti, totalmente allo sbando, soli ed incapaci di muoversi in una realtà tanto complessa e tanto intrecciata come quella irakena, ...
... sono intervenuti sostenendo con la violenza proprio i gruppi filo-iraniani forse perché ingannati, o forse per un disegno politico paradossale.

Le 263 vittime, si è scoperto, facevano parte di una setta messianica che si stava recando in pellegrinaggio nella città santa per la festività dell’Ashura. Le notizie parlano di un gruppo locale, di origine sciita, che aveva riscosso successo anche tra i sunniti e predicava un superamento della divisione politica con modi pacifici in opposizione al governo centrale (espressione del partito Da’wa vicino all’Iran), alle bande confessionali che combattono sulla pelle della popolazione un tentativo di guerra civile, ed agli Stati Uniti. Giunti ad un check-point dell’esercito irakeno con una processione di almeno 600 persone (chiaramente armate vista la situazione irakena) sarebbe nato un conflitto a fuoco causato proprio dai soldati regolari (“filo-iraniani”, ma armati dagli Stati Uniti) che avrebbero ucciso il leader del gruppo di pellegrini provocando la reazione dei fedeli armati. Resisi conto della difficoltà della battaglia i soldati irakeni avrebbero quindi chiesto il sostegno degli Stati Uniti (millantando la presenza di uomini di Al Queda), che avrebbero risolto (nel sangue, e a favore della fazione filo-iraniana) la questione interna.

Nei giorni successivi le tribù locali diversi leader religiosi legati al gruppo, ma anche politologi ed osservatori internazionali, hanno chiesto al governo ed alle autorità americane un’inchiesta indipendente fino ad ora boicottata dal potere centrale. Nel frattempo però la realtà è riemersa, con tutto il suo carico di dubbi sulla presenza americana e, più in generale, sulle effettive conseguenze di un intervento estraneo (come quello americano) in una realtà variegata, ricca di storia e di intrighi, come quella di ogni nazione.

Pochi giorni fa Robert Gates, capo della CIA, esponente della corrente realista, aveva spiegato che «In Iraq non c’è una guerra ma ce ne sono quattro: una contrappone sciiti a sciiti, principalmente nel sud; la seconda e' un conflitto settario in corso principalmente a Baghdad; la terza e' portata avanti dai ribelli; e la quarta e' quella di al Qaeda». Gates, in questa analisi sostanzialmente credibile che aveva portato a conclusioni discutibili (la necessità della presenza americana), aveva però evitato di spiegare il ruolo degli Stati Uniti in questi conflitti ed in particolare nel conflitto meno noto e cioè, appunto, quello tra fazioni sciite.

La filosofia dell’”Impero Americano” (che non è solo un’interpretazione paranoica dell’attualità ma un’ideologia concreta, giudicata necessaria e sostenuta apertamente anche in Italia da personaggi come Giuliano Ferrara) è sempre vissuta sull’idea che gli Stati Uniti si dovessero appoggiare a gruppi, fazioni o etnie locali, in maniera funzionale al mantenimento dell’influenza statunitense sul mondo. Per questa ragione gli Stati Uniti sostennero più o meno apertamente Pinochet, i Talebani, Batista, Saddam Hussein, Francisco Franco, i Signori della Guerra somali o gli integralisti islamici negli anni ’80 in Afghanistan, rimangiandosi o ribaltando talvolta queste alleanze per altre più solide e manipolabili (fino all’attualità dove spesso sono sufficienti strumenti ed istituzioni economiche per “fidelizzare” gli stati al sistema americano). E’ stato così che inizialmente gli USA hanno sostenuto Saddam, un cinico uomo di stato che con gli anni ha preso convinzione fino a provare una ribellione o un de-allineamento subito punito da Bush. I fatti di Najaf, tuttavia, sembrano andare in direzione contraria: sembra che gli Stati Uniti non siano più i manipolatori risultando anzi astutamente “usati” addirittura dall’Iran.

Osservando gli eventi in maniera serena si nota però che essi si prestano a due possibili interpretazioni: una che racconta semplicemente di un esercito USA preso per i fondelli ed usato, con l’inganno, dagli sciiti filo-iraniani al governo; l’altra che offre una paradossale alleanza volontaria tra Iran e Stati Uniti sull’unità del mondo sciita in cambio della divisione e della pacificazione dell’Iraq.

Gli Stati Uniti, verrebbe da pensare, sono allo sbando: incapaci di rapportarsi alla realtà irakena, stanno finendo per essere addirittura usati dall’Iran e dalla fazione sciita filo-iraniana alla quale si oppongono. Questo basterebbe per scongiurare ogni altro intervento, almeno in una realtà complessa come quella dei paesi islamici.

Esiste però anche un’altra opzione, più complessa, che non vuole accettare completamente l’incompetenza degli Stati Uniti sbeffeggiati dagli sciiti iraqeni.

Vista l’impossibilità di stendere la propria influenza sull’intero paese, è infatti possibile che gli americani vogliano proseguire il tentativo di dividere l’Iraq in uno stato federale composto da tre entità su basi etniche (regione curda, sunnita e sciita). Con questo assetto si avrebbe un paese pacificato dal quale gli americani si potrebbero ritirare quasi da vincitori accontentandosi dell’influenza sui settori curdi e sunniti, provando ad ingabbiare gli sciiti in una costituzione (simile a quella libanese) che eviterebbe un loro completo predominio garantendo ampie autonomie e una politica nazionale condivisa. Anche se a livello mediatico Iran e Stati Uniti sono due mondi non comunicanti, è evidente che gli USA siano interessati a risolvere la situazione al costo di trattare col nemico. L’Iran, a sua volta, avrebbe il problema (elencato da Gates) delle spinte interne al mondo sciita irakeno in parte ostile alla classe dirigente iraniana, e gli Stati Uniti potrebbero fare qualcosa per favorire, per amor di pace, l’unificazione degli sciiti sotto l’ala protettiva di Ahmadinejad.

Decenni di “Impero Americano” insegnano che gli Stati Uniti non si fanno quasi mai cogliere impreparati, essendo abilissimi nel creare equilibri e nel trattare con fazioni impresentabili o osteggiate in maniera ufficiale.

Chissà che la sostituzione di Rumsfeld con Gates, riconosciuto esponente dell’ala realista, non abbia realmente portato –fuor di propaganda- a una nuova strategia di questo tipo.

Andrea Fra




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