Arabia Saudita, il regno dell'ambiguità

Data 31/3/2007 11:40:00 | Categoria: Iraq

di Andrea Franzoni

Mentre gli Stati Uniti e Israele soffrono un calo di credibilità e di capacità di manovra ed una instabilità interna, lo scenario medio orientale osserva l’emergere dell’Arabia Saudita che si va proponendo apertamente come potenza regionale pacificatrice nuova paladina della stabilità regionale.

Se da un lato è sicuramente presto per sancire questo atteggiamento come reale autonomia della dinastia dei Saud dai tradizionali alleati a Washington, e per stabilire se l’iniziativa dell’Arabia sia intenzionata a rafforzare la propria influenza unicamente sul mondo sunnita (in opposizione all’Iran faro sciita) o a creare una nuova unità nel mondo musulmano, dall’altra sono evidenti negli ultimi giorni le critiche aperte del re Abdullah agli Usa sull’Iraq, le intense relazioni diplomatiche con l’Iran e i tentativi di risoluzione della questione palestinese e di quella sudanese. Queste mosse da una parte possono sembrare in aperta rottura con i piani degli Stati Uniti, ...
... ma esiste la possibilità che esse siano parte di un nuovo corso strategico degli Usa alla ricerca di una nuova stabilità mediorientale e, dopo il fallimento del progetto imperialista in Iraq e Afghanistan che sta segnando la fine politica di Bush, di un disperato avvicinamento sostanziale addirittura all’Iran.

L’Arabia Saudita, che gode di una posizione di rispetto sia in occidente (essendo il più affidabile fornitore di petrolio) sia nel mondo arabo sunnita (finanziando moschee ed opere sociali in diversi paesi), è stata considerata fino ad oggi una pedina nelle mani di Washington. Una pedina certo non limpida, essendo la patria di Bin Laden (che pure accusava il regime di Saud come corrotto) e la sostenitrice indiretta dell’islam politico radicale attraverso le tante moschee finanziate, e nemmeno troppo presentabile (essendo una monarchia assoluta nota al mondo per la stretta osservanza di una tra le versioni più integrali della legge coranica), ma utile per svolgere operazioni coperte e al limite della legalità per conto degli Stati Uniti. Ora che la dottrina Bush si è dimostrata pienamente fallimentare, è possibile che l’Arabia Saudita possa diventare il veicolo per la pacificazione diplomatica del Medio Oriente, sulla quale gli Usa potrebbero poi ritagliare una nuova forma sostenibile di egemonia.

Presunto lavoro sporco nel conflitto tra sciiti e sunniti

Solo poche settimane fa Seymour Hersh, uno dei maggiori giornalisti investigativi statunitensi, scriveva in un lungo articolo per il New Yorker (tradotto in Italia da Internazionale) [1] del presunto sostegno dato dagli Usa, attraverso l’Arabia Saudita, ai gruppi paramilitari sunniti in Iraq così come al governo libanese di Siniora (in opposizione a Hezbollah, vicina agli sciiti). Scriveva il Pulitzer Hersh: «In questi ultimi mesi l’amministrazione Bush ha dato una svolta decisiva alla sua strategia in Medio Oriente. Questa “sterzata” –così la definiscono alcuni alla Casa Bianca- ha avvicinato gli Stati Uniti a uno scontro aperto con l’Iran e li ha portati a intromettersi nel sempre più acceso conflitto tra musulmani sunniti e sciiti in atto nella regione. Per contrastare l’Iran, paese a prevalenza sciita, la Casa Bianca ha quindi deciso di rivedere da cima a fondo le sue priorità. L’amministrazione Bush – in collaborazione con l’Arabia Saudita, paese a maggioranza sunnita- conduce da tempo operazioni clandestine in Libano per indebolire Hezbollah. Inoltre gli Stati Uniti hanno preso parte ad altre azioni contro l’Iran e la Siria, sua alleata». In Libano, in particolare, l’Arabia Saudita ha effettivamente concesso grandi prestiti al governo Siniora permettendo al Libano la stabilità monetaria nonostante il conflitto con Israele e la crisi interna che ha seguito la perdita di legittimità dello stesso governo.

Secondo questa prospettiva, condivisa da tempo da molti (a partire dai sostenitori dei neo-con), l’Arabia Saudita sarebbe una sorta di avamposto statunitense con il compito di compattare le nazioni sunnite (tra cui Giordania ed Egitto), di sostenere i gruppi sunniti negli stati misti (Siniora in Libano) anche nell’interesse di Israele e di provocare il blocco contrapposto, cioè quello sciita, con azioni di disturbo in Iran e in Siria (il cui governo, nelle mani della famiglia alawita –setta sunnita minoritaria- degli Assad, è vicino all’Iran). Tutte mosse preludio, secondo alcuni, di una prossima guerra (suicida) di Bush e degli Usa all’Iran. Guerra che non appare tuttavia sostenibile, e che potrebbe essere un semplice proclama di facciata.

L’Arabia Saudita e il rilancio della dimensione pan-arabista

Negli ultimi giorni il vertice della Lega Araba che si sta tenendo proprio in Arabia Saudita sta aggiungendo particolari interessanti che potrebbero aprire nuovi scenari. Le parole e le opere di re Abdallah e del ministro degli esteri principe Fouad hanno infatti lasciato intendere, oltre all’intenzione evidente di acquisire una posizione di assoluto protagonismo e di rilanciare il proprio ruolo di potenza regionale, un tentativo di emancipazione (apparente) dell’Arabia Saudita dagli Stati Uniti ed una promessa di superamento della divisione tra sciiti e sunniti.

«Nel mio caro Iraq - ha dichiarato nel discorso di apertura re Abdallah - il sangue scorre incessantemente tra i nostri fratelli, sull'ombra di un'illegittima occupazione straniera e continue minacce di una guerra civile e settaria. Non permetteremo a forze straniere di disegnare l'avvenire della regione. L'unica bandiera che sventolerà sulla terra araba sarà quella dell'arabismo» [2].

Una dichiarazione simile può essere interpretata in due maniere: essa può infatti essere tranquillamente considerata anche una manovra strategica per legittimare la monarchia agli occhi dell’opinione pubblica musulmana continuando sotto banco a perseguire gli interessi americani. Interessi americani che rimangono sostanzialmente gli stessi (egemonia politica ed economica, approvvigionamenti energetici), ma che sono messi a dura prova dalla strategia aggressiva di Bush. Proprio questa considerazione ci obbliga a provare ad andare oltre le varie dichiarazioni di facciata e le varie opposizione, per ritrovare il filo del realismo e della conservazione del potere –oggi messa a repentaglio soprattutto dalla situazione irakena- che anima anche l’attuale governo americano.

Palestina, Iran, Sudan: la disonorevole necessità di un accordo col nemico

L’Arabia Saudita non si è limitata a questa dichiarazione. Da una parte essa, dopo aver sostenuto la creazione del governo di unità nazionale Hamas-Fatah (ufficialmente bocciato da Usa e Israele), ha proposto con forza un piano per la normalizzazione della questione palestinese che prevede il ritorno di Israele entro i confini del 1967. Il piano è stato accolto come un segnale positivo dal primo ministro Olmert, alle prese con tensioni interne, che ha annunciato tuttavia emendamenti. Il proseguo delle trattative dimostrerà le vere anime dell’iniziativa, probabilmente avviate nel vertice di pochi giorni fa tra Condoleeza Rice e la stessa Arabia Saudita.

I passi più interessanti si sono però svolti sul fronte Iran e su quello sudanese. Oltre ad avere sostenuto un importante incontro con la Siria, il ministro degli esteri Saudita ha intrattenuto frequenti relazioni diplomatiche con l’Iran staccando un invito di partecipazione, in qualità per ora di osservatore, alla Lega Araba. «Consapevoli dell’importanza e del ruolo chiave della repubblica islamica dell’Iran, e allo scopo di proseguire il rafforzamento della cooperazione tra Teheran e la Lega Araba, rendiamo noto il nostro pieno supporto per l’ingresso dell’Iran nella Lega con status di osservatore» ha dichiarato il ministro degli esteri principe Fouad [3].

Il ministro degli esteri iraniano Mottaki è arrivato addirittura a proporre la possibilità di stipulare un trattato regionale sulla sicurezza e sulla difesa, accogliendo il parere positivo della controparte saudita.

Sempre l’intervento dell’Arabia Saudita ha reso possibile l’accettazione, da parte del presidente del Sudan, di quel contingente ONU incaricato di risolvere la questione del Darfur che rifiuta da mesi e che gli USA hanno tentato di imporre insistendo sulle sanzioni economiche con il progetto, secondo quanto riportato dalla più autorevole agenzia di stampa internazionale, «di premere militarmente sul governo di Bashir aiutando la ricostituzione del Sudan People’s Liberation Army che è stato in guerra con il nord fino agli accordi di pace del 2005» [4]

Ridisegnare il Medio Oriente: l’egemonia sostenibile

Certo l’Arabia Saudita può avere fatto tutto questo autonomamente, con l’obiettivo di emancipare sé stessa e tutte le nazioni musulmane dai condizionamenti e dagli interessi degli Stati Uniti.

E’ però evidente che l’attuale strategia Usa ha portato ad un indebolimento della nazione e dello stesso governo al potere insidiato elettoralmente dai Democratici, e che un cambiamento è necessario per la stessa conservazione dell’attuale classe al governo.

Qualche tempo fa Condolleza Rice sosteneva la necessità di ridisegnare il Medio Oriente in funzione di una nuova stabilità. Questo nuovo e funzionale Medio Oriente non deve necessariamente essere un perenne campo di battaglia come quasi tutti rigidamente sostengono.

Certo Bush ha bisogno di sostenere una contrapposizione di facciata feroce e muscolare quanto ne ha bisogno la controparte Ahmadinejad. Ma è evidente che l’attuale atteggiamento americano si è rivelato fallimentare, e gli strateghi di Bush lo sanno. Bush ha bisogno anche dell’Iran per risolvere la questione irakena, per cavarsi dagli impacci in Afghanistan e per allentare la pressione che l’irrisolta questione palestinese genera. La priorità politica di Bush è quella di rimanere al potere, e la chiave può essere lo scendere a patti con chi fino ad oggi è stato nemico. Nel nuovo ordine, condizione imprescindibile, gli Stati Uniti troveranno sicuramente il modo per ridisegnare una nuova forma di egemonia sostenibile.

E l’Arabia Saudita può essere, ancora una volta, l’agente segreto incaricato di realizzare questo nuovo nuovo corso.

Andrea Franzoni (Mnz86)

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[1] Vedi l’articolo originale "The Redirection", e l'intervista di Amy Goodman per Democracy Now!

[2] RaiNews24

[3] Press Tv.ir

[4] Reuters




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