La discriminazione come diritto inalienabile

Data 13/8/2007 10:30:00 | Categoria: palestina

di Giorgio Mattiuzzo

Il Presidente del Consiglio Prodi, qualche tempo fa, ha auspicato l'avvento della pace in Medio Oriente tra Israele e Palestina “come garanzia per i popoli della Regione e per Israele ad esistere come stato ebraico”[1]. La Dichiarazione di Indipendenza di Israele, proclamata il 14 maggio 1948, recita: “Noi, membri del Consiglio del Popolo [...] dichiariamo la fondazione di uno Stato giudaico in Eretz-Israel, denominato Stato di Israele”[2].

Come si può vedere da questi e da moltri altri esempi, che Israele venga ritenuto uno stato “ebraico”, cioè fatto per “gli Ebrei” è opinione largamente condivisa, anche da chi critica aspramente la politica dei governi israeliani. “Ogni giorno il Parlamento israeliano deve scegliere se approvare delle leggi che rendano Israele uno stato Giudaico sempre più democratico oppure se farlo diventare uno stato Giudaico razzista”[3]; così si esprime Haaretz, importante quotidiano israeliano. Tuttavia – a differenza di una certa vulgata che si sta imponendo – questo progetto non è nato per dare rifugio agli Ebrei europei scampati alle persecuzioni naziste del decennio hitleriano. L'idea di uno Stato ebraico, inteso nell'accezione moderna di Stato, è nata qualche tempo prima che il Nazionalsocialismo si affermasse come movimento politico. L'idea di uno Stato ebraico è stata pensata e sviluppata dal Sionismo, una dottrina politica nata alla fine dell'800.

Il termine “sionismo” nasce probabilmente nel 1891, mentre la nascita del Sionismo come movimento è di qualche anno successiva: fu Theodor Herzl nel 1897 a fondare ufficialmente il “movimento di rinascita nazionale dei Giudei. Esso sostiene che i Giudei sono un popolo e che quindi hanno il diritto all'autodeterminazione all'interno della loro nazione. Esso mira ad assicurare e sostenere una nazione – legalmente riconosciuta – per i Giudei nella loro patria storica, e mira ad iniziare e stimolare una rinascita della vita, ...

... della cultura e della lingua nazionale giudaica.”[4] E' importante tenere a mente che il Sionismo non è una dottrina religiosa, ma politica. Non è quindi un movimento di religiosi e non è una corrente dell'ebraismo. Infatti essere sionisti non significa necessariamente essere di religione ebraica: alcuni cristiani sono sionisti, in quanto ritengono che la seconda venuta di Cristo sulla Terra debba essere preceduta dal ritorno del popolo ebraico in Israele.[5] E come non tutti i sionisti sono ebrei, così pure non tutti gli ebrei sono sionisti. “Ogni Giudeo deve decidere da solo se è un sionista.”[6]

Con la nascita di Israele le idee del Sionismo sono divenute realtà. Con la nascita di Israele è nato anche il primo Stato ebraico. Alla luce di quanto detto, appare quindi del tutto corretto riferirsi ad Israele come Stato sionista che si auto definisce ebraico. Naturalmente il primo enorme problema di uno Stato che si definisce ebraico è il rapporto che si instaura tra le stituzioni stesse e tutti i cittadini non-ebrei che lo abitano. Problema che si moltiplica per Israele, in quanto Stato nato dall'immigrazione.

Sostanzialmente l'appartenenza ad Israele si determina in base ad una sorta di ius sanguinis che ricorda quello italiano; non è cioè necessario essere nati e cresciuti all'interno dei confini di Israele, ma è sufficiente essere ebrei per aver accesso ai diritti di cittadinanza in Israele. La definizione di “ebreo” è stabilita dalla cosiddetta Legge del Ritorno, che regola la modalità con cui viene attribuita la cittadinanza agli ebrei che vanno a vivere in Israele.[7]

L'emigrazione ebraica verso la Palestina è cominciata prima della nascita dello Stato di Israele, ed ha conosciuto diverse fasi[8]. Ma dal 1948 in poi, sotto la tutela della Jewish Agency, il flusso migratorio è stato costante, organizzato e finalizzato alla creazione dello Stato stesso. Dal 1948 al 2006 i dati ufficiali dichiarano che oltre 3.100.000 persone si sono trasferite in Israele [9]. Nel1945 la popolazione dell'allora Mandato Britannico di Palestina era di circa 1.700.000 individui, di cui il 60% musulmani, il 31% ebrei, l'8% cristiani[10]. Nel 1948 l'area che sarebbe divenuta Israele ospitava 736.000 arabi (quasi la metà di tutta la popolazione araba del Mandato Britannico)[11], mentre la popolazione totale ammontava a 806.000 individui. Nel 2006 la popolazione ha raggiunto i 7.150.000 individui, di cui il 76% Giudei, il 20% Arabi e il restante 4% di altre religioni[12]. Questo significa che da una popolazione ebraica di circa 550.000 abitanti del 1945[13] si è arrivati ad una popolazione di circa 5.400.000 ebrei nel volgere di 60 anni, grazie al contributo di 3.100.000 immigrati.

E' evidente quindi come il progetto sionista si stia realizzando e stia trasformando il territorio palestinese in uno Stato ebraico vero e proprio. E' altrettanto evidente come la popolazione araba lì presente, pur essendo cresciuta in senso assoluto, sia divenuta minoranza all'interno dello Stato ebraico. Ed è infine evidente – ed è logica conseguenza di quanto finora analizzato – che Israele sia uno Stato fondato sulla discriminazione dei suoi abitanti e sulla discriminazione su base religiosa e culturale dell'immigrazione che lo ha fatto nascere. Questo problema è strutturalmente diverso dalla questione palestinese e dall'occupazione dei territori che non appartengono a Israele e non va con questo confuso[14]. In questa sede non tratteremo delle condizioni degli abitanti non-ebrei di Israele, ma ci limiteremo ad analizzare un recente caso notevole che riguarda l'immigrazione.

Per uno Stato che vuole mantenersi ebraico la prima necessità è quella di avere al suo interno una popolazioni ebraica che tenda idealmente al 100%. La sola fertilità non permette ad Israele di raggiungere questo obiettivo[15] e la sua classe dirigente è seriamente preoccupata per la futura composizione etnico-religiosa del Paese.[16] Come si è visto più sopra la storia di Israele ci ha insegnato che dove non può la fertilità si ricorre all'immigrazione.

Non apparirà dunque fuori luogo l'affermazione che lo Stato sionista intende affermarsi come lo Stato degli ebrei e che per fare questo ricorre ad una politica migratoria discriminatoria. E non apparirà strano che questo sollevi critiche da molte parti. Critiche che però vengono respinte in maniera coerente all'intera ideologia sionista. Vediamo un caso recente.

In Israele opera lo Jewish National Fund (JNF), un fondo nato nel 1901 “allo scopo di acquistare terreni nella Palestina controllata dall'Impero Ottomano”. Il fondo avrebbe dovuto essere “proprietà del popolo giudaico nel suo complesso”. Dopo la nascita dello Stato di Israele, il compito dello JNF mutò di natura, essendo iniziata la tumultuosa immigrazione verso Israele. “Alla fine della guerra i compiti del JNF erano concentrati sulle imprese fondamentali per la costruzione del nuovo Stato: colonizzare nuove aree; assorbire gli immigrati e fornire loro un impiego come lavoratori agricoli; la bonifica a scopi agricoli [...]”[17]. Di fatto, dopo un secolo di attività, il fondo è divenuto talmente ricco e importante da costituire un vero e proprio organo para governativo, che agisce per conto dello Stato nella distribuzione della terra. Come si vede chiaramente il problema dell'immigrazione è fortemente legato al problema della terra. In un Paese che territorialmente è rimasto lo stesso, la popolazione è passata da meno di due milioni di abitanti a oltre sette milioni, e bisogna trovare lo spazio fisico per vivere e lavorare. La terra e l'immigrazione sono quindi le due facce della stessa medaglia, lo Stato di Israele. E proprio a questo proposito sul Jerusalem Post (quotidiano di Gerusalemme in lingua inglese, su posizioni vicine alla destra) si è potuta leggere una interessante discussione.

In un editoriale a firma di E. Schechter la legislazione che regola l'operato del JNF viene definita apertamente “segregazionista” e volta a tenere le comunità ebraiche “etnicamente pure”. E la polemica sorge in seguito ad una proposta di emendamento della legislazione sull'amministrazione della terra che, secondo l'editorialista, “continuerà a permettere allo stato di discriminare i gentili quando si troverà a rappresentare lo JNF”. Schechter definisce questa manovra “razzista”.[18]

Sempre sul Jerusalem Post un altro editorialista, J. Tobin, è di diverso avviso. Pur essendo conscio che questa “politica di colonizzazione esclusivamente ebraica della terra che [lo JNF] possiede è vista da alcuni israeliani come una discriminazione contro gli arabi uguale a quella contro gli ebrei della Diaspora”, non condivide affatto le critiche. O meglio, la pratica di non assegnare terra ad alcuni gruppi sociali o etnici è da considerarsi – giustamente – orribile.

Questa pratica è stata applicata contro gli stessi ebrei e contro gli afro-americani ed è vietata dalla legislazione americana. Tuttavia nel caso dello JNF i parametri di giustizia devono essere modificati, perché “la terra in questione non è un semplice bene immobile. La proprietà dello JNF è l'eredità dell'intero popolo giudaico; [...] Israele non è, dopo tutto, una nazione come le altre. E' l'unico stato giudeo del mondo. [...] Le regole dello JNF sono specificamente modellate per risolvere il problema storico della mancanza di una casa per gli ebrei [...]”. Secondo Tobin la questione è fondamentale e si basa sul fatto che gli Israeliani non dovrebbero “permettere al timore di essere visti come limitati” di far loro accettare “la nozione che lo Stato di Israele appartenga unicamente ai suoi attuali cittadini, invece che essere un'istituzione per il popolo Giudeo.”

Tobin continua, affermando a chiare lettere quello che si è cercato di dimostrare all'inizio. Israele deve sì mantenere la forma democratica “mentre deve rimanere fedele al contempo alla sua missione di realizzazione del Sionismo. I non-giudei che vivono in Israele possono essere irritati da questa situazione, ma il fatto che non vengano danneggiati e che vengano sostenuti i loro diritti di fronte alla legge non da loro il diritto di abrogare le fondamenta del fine sionista di Israele.”

E quindi Tobin afferma una sacrosanta verità: le politiche di Israele riguardano “la legittimità del Sionismo, non la discriminazione”.[19]

Si può quindi arrivare ad una conclusione, dopo aver analizzato il percorso storico e le attuali posizioni di una certa élite sionista riguardo allo Stato di Israele. Che esso non sia uno Stato ebraico, ma che debba essere più correttamente definito “Stato sionista”, in quanto voluto e realizzato secondo i progetti del Sionismo, e non dell'Ebraismo. Che questo Stato sionista si fondi sulla discriminazione dei propri cittadini su base culturale e religiosa e che questa discriminazione non possa essere messa in dubbio, pena la distruzione dello Stato sionista. E non si può non pensare che ogni volta che sentiamo parlare di “diritto di Israele di esistere in quanto Stato ebraico”, in realtà siamo di fronte al diritto di Israele di discriminare in quanto Stato sionista.

Giorgio Mattiuzzo (Pausania)

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[1] Prodi a Olmert: «Israele ha diritto alla pace», Il Sole 24 Ore, 9/7/2007.
[2] Declaration of the Establishment of State of Israel, sito ufficiale del Ministero per gli Affari Esteri Israeliano. In questa come nelle seguenti traduzioni dall'inglese i termini Jew e Jewish sono resi con l'italiano “Giudeo” e “Giudaico”, per rendere conto della differenza tra Jew ed Hebrew, presente nella lingua inglese. Anche se storicamente “Giudeo” ed “Ebreo” non sono esattamente sovrapponibili, nell'uso comune corrente ed in questa sede sono da considerarsi equivalenti.
[3] A racist Jewish state, Haaretz, 26/7/2007.
[4] Zionism definitions, Zionism on the Web.
[5] D. Krusch, Christian Zionism, Jewish Virtual Library.
[6] Vedi n. 4.
[7] In realtà le due legislazioni non sono uguali, ma si rifanno ad un principio assimilabile. Per approfondimenti cfr. le voci Cittadinanza italiana e Law of Return di Wikipedia.
[8] Cfr. Immigration, Jewis Virtual Library.
[9] Immigration to Israel since 1948, Jewish Agency for Israel.
[10] British Mandate of Palestine, Wikipedia; per una analisi dell'immigrazione in Palestina, sia araba che ebraica, prima del 1948 v. The Population of Palestine Prior to 1948, MidEastWeb Group.
[11] Ibidem.
[12] Latest Population Figures for Israel, Jewish Virtual Library.
[13] Il dato del 1945 è da riferirsi al territorio del Mandato Britannico, che era più esteso dell'attuale Israele.
[14] Per una visione d'insieme cfr. The Palestinian Minority Citizens of Israel, Arab Association of Human Rights; The Palestinian Minority in the Israeli Legal System, Adalah; M.G. Bard, Human Rights in Israel and in the Territories, Jewish Virtual Library; per riferimenti e bibliografia cfr. Arab citizen of Israel, Wikipedia.
[15] Arab population on the rise, ynetnews.com, 28/9/05.
[16] P. Brennan, Isreal's Population Bomb in Reverse, NewsMax.com, 19/10/2002; J.E. Dougherty, Will Israel Become an Arab State?, NewsMax.com, 12/1/2004.
[17] Dal sito ufficiale del Jewish National Fund.
[18] E. Schechter, Say goodbye to the JNF, Jerusalem Post, 5/8/2007.




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