RONALD REAGAN, L’OTTIMISMO DI UNA GENERAZIONE

Data 8/6/2004 21:57:00 | Categoria: analisi

RONALD REAGAN, L’OTTIMISMO DI UNA GENERAZIONE



di Fabio de Nardis



07.06.04 - In una delle sue famose lettere scritte a mano dal suo
ufficio (ne ha scritte più di 5.000, durante la sua presidenza),
Ronald Reagan affermò - riferendosi all'Alzheimer di cui era
rimasto vittima - di aver intrapreso con serenità “il lungo
viaggio che lo avrebbe condotto al tramonto della sua vita”. E l'altro
giorno la moglie Nancy ha dichiarato: “Il viaggio di Ronnie lo ha
finalmente condotto in un luogo distante, dove io non posso più
raggiungerlo”. Uomo complesso, apparentemente aperto ed alla portata di
tutti, ma in realtà – a detta di molti storici – sfuggevole
nella sua essenza più profonda, sia politica che umana.



Nessuno, oggi in America, si sentirebbe di definire Ronald Reagan in una sola frase.



Ex-attore di Hollywood, tanto aitante quanto mediocre, Reagan riuscì a sfruttare in pieno ...
...le sue grandi capacità comunicative e la sua relativa
popolarità per fare carriera politica. Fu governatore della
California per otto anni e presidente degli Stati Uniti per altrettanti
(1980-88), in un periodo cruciale per la storia del mondo nel culminare
della contrapposizione bipolare Est-Ovest. Raccolse un paese
disorientato dalla sconfitta in Vietnam e dallo scandalo Watergate e
rappresentò, per quasi tutti gli americani, una forte iniezione
di ottimismo. Ma al contempo inaugurò una nuova era di
conservatorismo politico e culturale, che lo vide lottare per la
reintroduzione della preghiera nelle scuole pubbliche, contro le
libertà femminili - a cominciare dal diritto di aborto - e
contro i movimenti studenteschi che negli anni Sessanta avevano
rivitalizzato la coscienza e la partecipazione politica del paese.



Seguì costantemente l’onda di una nuova cultura neoliberista e
neoconservatrice, fondata sul taglio radicale delle tasse, la creazione
artificiale di inflazione e il rafforzamento del bilancio destinato
alle spese militari. Al contempo, cercò di mantenere un rapporto
diretto con i cittadini all’interno di una logica neopopulista, che lo
portò ad affermare, fin dal suo primo discorso inaugurale, che
“il governo non è la soluzione ai problemi, il governo è
il problema”. Niente di più efficace per accalappiarsi le
simpatie di uno dei popoli meno politicamente preparati della storia.



Senza dubbio la sua fu una presidenza “rivoluzionaria”, nel corso della
quale ridefinì completamente gli assetti di potere della
società americana. L'enfasi sui valori tradizionali e religiosi
servì a costruire un consenso nelle piccole città rurali
e nel Sud, dove ancora oggi si esprime una forte sub-cultura
repubblicana. Trasformò la società rinvigorendo la
mitologia dell’American Dream, fatta di finta felicità e
competizione spietata. Influenzò la cultura politica dei due
partiti di maggioranza, obbligando i Democratici verso quelle posizioni
centriste che avrebbero prodotto i “New Democrats” di Bill Clinton,
spostando nel contempo a destra l’asse politica dei Repubblicani. A
livello internazionale, i più lo ricordano per il contributo
fondamentale che diede nella lotta contro il comunismo, mentre per
coloro - come noi - che preferirebbero consegnarlo alla storia come il
presidente dello scandalo Iran-Contra (finanziamenti sporchi alla
contro-guerriglia in Centro-America), va detto in tutta onesta che lo
stesso Bob Woodward, il “cecchino di Nixon” (Caso Watergate), si
è dichiarato convinto, dopo una lunga indagine condotta come lui
sa certo fare, che Reagan in realtà fosse all’oscuro dei
risvolti più deprecabili di tutta quella faccenda.



Comunque siano andate le cose, mentre negli Stati Uniti oggi Reagan
è salutato, da destra come da sinistra, come un vero e proprio
“American hero”, noi riusciremo sicuramente a svernare senza per questo
soffrire troppo della sua mancanza.



Fabio de Nardis









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