Morti sul lavoro: due articoli

Data 10/12/2007 8:50:00 | Categoria: politica italiana

Il lavoro e’ una guerra che uccide di Marco Cedolin
I bianchi fantasmi- di Patrizia Prinzi

Il lavoro e’ una guerra che uccide
di Marco Cedolin

La tragedia dell’acciaieria Thyssenkrupp di Torino, dove quattro lavoratori si sono trasformati in torce umane ed hanno perso la vita, mentre altri tre operai coinvolti nel rogo giacciono in ospedale con gravissime ustioni sulla quasi totalità del proprio corpo, ha fatto si che il carrozzone politico e quello mediatico siano tornati ad occuparsi delle morti sul lavoro.

I soloni della politica e quelli dell’informazione hanno in realtà da sempre un approccio molto singolare con l’argomento. I primi non perdono occasione per ribadire che in materia di sicurezza sul lavoro esistono ottime leggi, che purtroppo non vengono rispettate, come se il compito di garantire il rispetto di quelle leggi fosse deputato non a loro, bensì agli uomini politici tedeschi, inglesi o non si capisce bene di quale paese straniero. I secondi denunciano la scarsa sicurezza presente sui luoghi di lavoro e si producono in articoli/servizi di stampo pietistico, quanto mai efficaci nel rimpinguare la tiratura dei giornali o lo share delle trasmissioni TV, ma assolutamente inadeguati per chiunque volesse prendere coscienza dei reali termini del problema.

Dopo la tragedia di Torino perfino il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, interpretando come meglio non avrebbe potuto il proprio ruolo istituzionale, ha deciso di “sacrificare” un minuto del proprio tempo ...
... e di quello dei tanti vip intervenuti come lui alla prima della Scala, dedicandolo agli sfortunati lavoratori dell’acciaieria Thyssenkrupp che certo, se ancora fossero stati in grado di parlare, non avrebbero mancato di ringraziarlo sentitamente per il nobile gesto. I sindacati confederati, molto meno interessati alla sicurezza dei lavoratori di quanto non lo siano all’integrità del pacchetto sul welfare stipulato con Confindustria, hanno indetto uno sciopero di 2 ore, premurandosi di non creare disagi alla produzione industriale.

Le statistiche ufficiali parlano di 1500 morti sul lavoro ogni anno in Italia, ma dimenticano di conteggiare i molti pendolari che ogni giorno perdono la vita in incidenti stradali mentre si recano sul posto di lavoro o tornano a casa a fine giornata, così come dimenticano tutti coloro (autisti, rappresentanti, fattorini, agenti immobiliari e professionisti vari) che per lavoro guidano un automezzo e giornalmente trovano la morte sulla strada, così come dimenticano tutti coloro che ogni anno muoiono per malattie “professionali” contratte sul luogo di lavoro nel corso della propria vita professionale. In realtà il lavoro uccide in Italia alcune migliaia di persone l’anno e la maggior parte di loro non viene neppure ricordata in un trafiletto sul giornale.

Alcune volte, come nel caso dell’acciaieria Thyssenkrupp la responsabilità della tragedia è da imputarsi al mancato rispetto delle più elementari norme di sicurezza da parte dell’azienda, altre al penoso stato in cui versano le strade ed autostrade italiane, altre ancora al sistema della precarietà che determina la presenza di lavoratori privi di esperienza in mansioni altamente pericolose, altre ancora alla stanchezza determinata da turni di lavoro massacranti.

Ma la reale responsabile della stragrande maggioranza di morti sul lavoro è la vera e propria guerra che giornalmente milioni di lavoratori ed imprenditori combattono per tentare di ritagliarsi qualche briciola di sopravvivenza.

Il mondo del lavoro è diventato negli anni una giungla strapiena di trappole, dove il rispetto per la vita umana e la dignità della persona sono stati immolati sull’altare della produttività e della competizione.

Lo sapeva bene Gabriele Aimar, autista di furgoni portavalori che viveva a Cuneo e nessuno ricorderà mai come “morto sul lavoro”. Gabriele il 3 dicembre si è ucciso con un colpo di pistola, semplicemente perché la polizia la sera prima gli aveva ritirato la patente giudicandolo positivo alla prova dell’etilometro, dopo averlo fermato a bordo della sua auto appena uscito da un pub dove aveva bevuto una birra insieme ad un amico. Senza la patente non avrebbe più potuto lavorare e non sapeva come sopravvivere.

La ricerca della sopravvivenza spinge ogni giorno centinaia di migliaia di lavoratori ad andare ben oltre i propri limiti fisici accumulando ore ed ore di straordinario, la sopravvivenza spinge altrettanti lavoratori ad accettare mansioni che danneggiano, spesso in maniera irreversibile la loro salute, la sopravvivenza spinge i pendolari a buttarsi su autostrade e tangenziali alle 5 di mattina con il sonno che percuote le tempie. Quella stessa ricerca della sopravvivenza induce a lavorare in nero in un cantiere o in un’industria senza che siano rispettate le norme di sicurezza, induce a spingere l’acceleratore nella nebbia per evitare di perdere un cliente, a lavorare ancora anche quando si è ormai privi della lucidità necessaria.

La ricerca della sopravvivenza economica e il tentativo di continuare a restare “sul mercato” fa si che ogni giorno decine di migliaia d’imprenditori perdano la propria umanità trasformandosi in individui senza scrupoli, pronti a barattare qualche scampolo di produttività con la vita delle persone.

Le promesse della classe politica e la falsa indignazione del mondo sindacale sono solamente atteggiamenti retorici che durano un battito di ciglia. Fra qualche giorno, sparita l’attenzione mediatica che avrà trovato nuovi argomenti sui quali costruire tirature ed ascolti, tutto tornerà come prima e probabilmente peggio di prima.

Il mondo del lavoro è un teatro di guerra altamente disumanizzato, dove le persone sono ridotte al ruolo di utensili, esistenze cosificate costrette a rincorrere la speranza di sopravvivere, anche quando in fondo a quella speranza c’è il concreto rischio di trovare la morte. Una guerra senza regole, senza senso e senza futuro. Una guerra combattuta nel nome della produttività e della competizione sfrenata, dove tutti i soldati sono irrimediabilmente destinati a perdere, mentre a vincere sono soltanto i pochi burattinai che attraverso la guerra costruiscono immensi profitti, e poco importa loro se si tratta di profitti realizzati attraverso l’alienazione della vita umana.

Marco Cedolin


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I bianchi fantasmi- di Patrizia Prinzi

Le chiamano morti bianche, chissà perché. Come se il colore del loro sangue fosse differente e l’aggettivo bianche le rendesse meno feroci. Nella nostra nazione, che si vanta di far parte dei paesi più industrializzati del mondo, il numero di questi invisibili fantasmi è agghiacciante.

In Italia dal 2003 al 2006, in Italia i morti sul lavoro sono stati ben 5.252. Un incidente ogni 15 lavoratori. Età media di chi perde la vita sul posto di lavoro 37 anni. [1]

La mappatura, realizzata dall'Eurispes elaborando dati Inail, evidenzia come ogni anno in Italia muoiono in media 1.376 persone per infortuni sul lavoro
[2]

Qualche conto non torna, ne mancano all’appello oltre 1100. Uomini e donne che hanno perso la vita mentre lavoravano, non caramelle o matite, esseri umani.

Cinquemiladuecentocinquantadue persone morte sul lavoro in un triennio, matematica elementare ci dice che contiamo una media di 1750 morti l’anno, quasi 5 persone al giorno.

Come sempre, quando gli eventi ottengono risalto mediatico non mancano dichiarazioni d’intenti da parte di ogni colore o fazione politica [3] [4] [5], chi preme sulla repressione e sulla disposizione di nuove norme più dure, chi sulla mancanza di garanzie e la precarietà del lavoro, dimentichi che tale stato di cose non è piovuto come un temporale a ciel sereno, ma è frutto di anni di politica deliberata volta a incrementare il guadagno qualunque sia la voce di spesa da tagliare, la legge 30/2003 per fare un esempio noto [6], salvo poi rendersi conto che gli inabili per cause di servizio rappresentano poi di ritorno una voce di bilancio nel capitolo uscite notevole, in questo vizioso circolo autoperpetuantesi.

A livello di UE, gli infortuni che comportano assenze dal lavoro superiori a tre giorni interessano annualmente circa cinque milioni di lavoratori, mentre i decessi sono 5.500. Oltre a provocare sofferenze umane, gli infortuni hanno rilevanti ripercussioni economiche sulle aziende: 150 milioni sono le giornate lavorative perdute mentre i costi di assicurazione che l’industria deve sostenere ammontano a 20 miliardi di euro [7]

Potremmo chiamare in causa i sindacati, strutture nate per difendere e tutelare le categorie di lavoratori e che sembrano anch’essi bianchi (candide assonanze), tanto che la loro presenza o assenza pare non produrre cambiamenti significativi., vista la loro fratellanza con il governo in carica qualunque esso sia. Se il sindacato non si fosse opposto a suo tempo alla riconversione del personale del collocamento, avremmo ora un corpo di ispettori del lavoro in grado di effettuare molti più controlli. Si è ancora in tempo di farlo, basta che il sindacato lo consenta. [8]

Poi ci sono anche gli imprenditori, i proprietari di questi luoghi ove la morte è di casa, che devono trovare in ogni caso più remunerativo abbassare i costi per la tutela delle persone a fronte del rischio esistente.

Un balletto variegato di rimandi, deleghe e responsabilizzazioni altrui vicendevoli, che produce un tappeto di cadaveri continuo e tante commosse parole di stima, affetto e vicinanza. Peccato non siano magiche e riportino in vita questo silenzioso esercito di uomini e donne che non torneranno a casa mai più, usciti in un giorno qualunque per guadagnarsi la vita.

Patrizia Prinzi (Soleluna)

[1] LINK
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