La recente riflessione sul concetto di cospirazione

Data 17/12/2007 8:20:00 | Categoria: opinione

La Recente Riflessione

La Recente Riflessione

sul Concetto di Cospirazione

(I - I Filosofi)

Enrico Voccia

 

Il diffondersi a livello di massa dei risultati delle indagini che contestano la versione ufficiale/istituzionale di molti eventi chiave della storia contemporanea – l'11 settembre in primo luogo, ma non solo – ha portato con se un ricchissimo dibattito, che è tracimato fuori dall'ambito politico in senso stretto, coinvolgendo la comunità scientifica in generale.

Ultimi arrivati, filosofi, epistemologi e cultori di scienze storico/sociali. Per ciò che concerne filosofi – in senso stretto e lato – della cosa è testimone, negli U.S.A., il volume collettaneo, a cura di D. Coady, Conspiracy Theories. The Philosophical Debate (Ashgate Publishing, Hampshire, 2006) e, in Italia, a cura di Ranieri Polese, l'Almanacco Guanda 2007: Il Complotto. Teoria, Pratica, Invenzione (Varese, Guanda, 2007) con gli interventi di Giulio Giorello, Umberto Eco più la traduzione di un brano di Karl Raimund Popper; ad esso si deve aggiungere l'intervento di Gianni Vattimo nel volume collettaneo, a cura di Roberto Vignoli, Zero. Perché la Versione Ufficiale sull'11/9 è un Falso (Casale Monferrato, Piemme, 2007).

Tralasciando l'intervento di Gianni Vattimo – su cui non potrei dire altro che mi trovo d'accordo quasi su ogni parola – e non avendo a disposizione il volume statunitense, incentrerò la mia attenzione critica sulla pubblicazione, nell'Almanacco Guanda 2007, del passo di Popper tratto da Congetture e Confutazioni (cui è stato dato il titolo di "La Teoria Sociale della Cospirazione"), del breve saggio di Giulio Giorello "Verità Manifeste e Verità Segrete" e del noto intervento di Umberto Eco "La Sindrome del Complotto", già apparso nell'Espresso dell'8 febbraio 2007. Iniziamo dal passo di Popper, dal momento che viene citato e commentato negli interventi di Giorello ed Eco e ne costituisce lo sfondo.

Popper crede di trovare la genesi di quella che chiama la "teoria sociale della cospirazione" nella caduta delle forme del mito antico.


Secondo la concezione omerica del potere divino, qualunque cosa accadesse sulla piana di Troia era solo un riflesso dei vari complotti in atto nell'Olimpo. La teoria sociale della cospirazione (...) deriva dall'abbandono di Dio e dalla conseguente domanda: "Chi c'è al suo posto?". Quel posto viene quindi occupato da vari uomini e gruppi di potere (...) (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 19).

Già in quest'inizio c'è molto da dire sulla razionalità e consequenzialità del ragionamento popperiano. Popper appare qui ingenuamente ignaro dell'enorme letteratura critica sulle radici sociali del racconto mitico, che in lui appare come un dato originario, iperuranico, privo di contatti con la struttura e l'immaginario sociale del mondo antico. Popper, in altri termini, inverte causa ed effetto: a differenza di quanto lui appare credere, non sono state certo le leggende sui complotti divini a dar vita a "leggende" sui complotti umani – sono stati realissimi e per nulla leggendari complotti umani, ben attestati dalla ricerca storica, a trasfigurarsi nelle dinamiche del racconto mitico intorno al mondo degli dei e degli eroi.

Il ragionamento popperiano in questione è, perciò, sofistico: tralasciando l'ipotesi di una sua clamorosa ignoranza intorno uno dei punti chiave e maggiormente assodati delle ricerche di storia della filosofia, non resta che pensare ad una strategia retorica, volta a mettere in difficoltà l'interlocutore "razionalista" – così lui stesso definisce i teorici del complotto – mostrando una ipotetica derivazione mitica del suo ragionamento.

A confortare l'ipotesi di una strategia retorica e non argomentativa, c'è il resto della sua argomentazione.

La teoria sociale della cospirazione (...) contiene pochissima verità. Soltanto quando i teorici della cospirazione giungono al potere essa diviene in grado di spiegare avvenimenti reali (...) (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 19) La rivoluzione di Lenin e soprattutto la rivoluzione di Hitler (...) furono davvero cospirazioni. Ma furono conseguenza del fatto che erano saliti al potere dei teorici del complotto (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 20).

L'argomentazione qui è empiricamente inconsistente: di fronte al mare di complotti storicamente accertati i cui autori non erano affatto "complottisti" nel senso che Popper indica – una persona che "dà per assunto che nelle società si possa spiegare praticamente tutto domandandosi chi l'abbia voluto" (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 20) – il paio di esempi che Popper cita (uno dei quali, Lenin, è peraltro dubbio) è davvero poca cosa. Anche qui, escludendo l'ipotesi di una plateale ignoranza popperiana in materia di storiografia, resta la strategia retorica: attento, complottista, è dal tuo ambiente culturale che nascono i veri complotti... se vuoi evitarli davvero, insomma, devi smettere di essere tale.

Abbiamo visto che, per Popper, il "complottista" è la persona che "dà per assunto che nelle società si possa spiegare praticamente tutto domandandosi chi l'abbia voluto": questi, inoltre, non comprende che

cospirazioni del genere non danno mai – o "quasi mai" – l'esito previsto (...) "nella vita sociale non si riesce quasi mai a produrre esattamente l'effetto previsto, e di solito si ottiene anche qualcosa che che non si voleva (...) le nostre azioni comportano sempre un certo numero di conseguenze indesiderate; e di solito non è possibile eliminarle. (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 19, corsivi nell'originale)

Popper adotta qui la fallacia della costruzione dell'"Uomo di Paglia": ben pochi studiosi delle ipotesi di complotto, difatti, non concorderebbero su queste, tutto sommato, banalità. Chi – "complottista" o meno – affermerebbe mai che i complotti riescono sempre o quasi sempre? Attribuendo queste ingenuità plateali agli studiosi in carne, ossa e mente degli eventi storico-sociali che si definiscono "complotti", "congiure", "cospirazioni", ecc. è facile sconfiggerli: ma si abbatte l'Uomo di Paglia o – nella migliore delle ipotesi – si prende la parte (e una parte davvero minima) per il tutto. I "complottisti", invece, usano tranquillamente la categoria del "complotto fallito": si pensi solo alle analisi svolte sulla strage di stato del 12 dicembre 1969 o, in tempi recentissimi, sugli eventi madrileni. Nella stragrande maggioranza dei casi, poi, gli studiosi dei complotti, non voglio affatto "spiegare tutto": sono, invece, interessati all'analisi di determinati e particolari dati empirici e, spesso, criticano determinate linee d'indagine in quanto in esse non vedono prove palesi di alcun complotto. Infine, ancora una volta Popper spaccia come oro colato un dato empiricamente falso: se è vero che i complotti possono fallire, la ricerca storica ha evidenziato tanti di quei complotti pressoché riusciti che l'affermazione "cospirazioni del genere non danno mai – o "quasi mai" – l'esito previsto" è, a dir poco, una conseguenza indebita di una già inconsistente premessa.

Data la palese inconsistenza delle tesi popperiane, mi sembra davvero eccessiva la considerazione che riceve da studiosi di notevole levatura come Giulio Giorello ed Umberto Eco, che ne fanno il punto di riferimento delle loro analisi: "lucida" per Giorello, addirittura "superba" per Eco. A quanto pare, la fallacia del "Principio d'Autorità" fa danni anche dove meno li si potrebbe aspettare: non è certo una novità, sia nella tradizione filosofica sia nella pubblicistica teorica della sinistra, la distinzione critica tra la ben diversa consistenza di Popper come filosofo della scienza "hard" e quella di Popper come filosofo della politica e delle scienze sociali.

Eco, inoltre, ai paralogismi, alle strategie retoriche ed alle incongruenze empiriche popperiane vi aggiunge del suo.

La psicologia del complotto nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle. (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 28).

Innanzitutto, si tratta di un'evidente fallacia ad hominem: qualunque siano i motivi per cui uno indaga un evento storico-sociale, quello che conta è la corrispondenza delle sue teorie esplicativo-causali agli stati del mondo oggetto della sua indagine. In altri termini, tipici della tradizione filosofica analitica, non si tiene conto del fatto della completa indipendenza tra il Contest of Discovery – il contesto storico, sociale e psicologico per cui si giunge ad una teoria – ed il Contest of Justification – la validità della dimostrazione della stessa. Ci sono poi altri due punti critici nella frase appena riportata che riportano a strategie retoriche. Innanzitutto, Eco parla del rifiuto delle "spiegazioni più evidenti" – lasciando intendere che le versioni ufficiali del potere politico siano sempre reali ed palesi: il che è empiricamente falso – a meno di ritenere "evidenti" le versioni del polizia sulla Strage di Stato del 12 dicembre 1969, la "magic bullet", ecc. Inoltre, Eco sembra sottintendere che le motivazioni per cui "le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle" siano necessariamente motivazioni extrarazionali: il che non è dato – siamo insoddisfatti e, se vogliamo, "ci fa male" accettare anche le spiegazioni di qualcuno che ci racconta che gli asini volano.

Eco poi mostra di non comprendere bene il senso dell'utilizzo di una determinata strategia del complotto e del suo rapporto con la segretezza.

(...) non vi è nulla di più trasparente del complotto e del segreto. Un complotto, se efficace, prima o poi crea i propri risultati e diviene evidente. E così dicasi del segreto, che non solo di solito viene svelato da una serie di "gole profonde" ma (...) prima o poi viene alla luce. (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 28).

Il problema sta in quel "prima o poi". L'obiettivo di un complotto è quello di produrre i suoi effetti, non di restare nascosto in eterno: gli è sufficiente restarlo per il tempo opportuno, a volte molto breve. Oggi sappiamo benissimo della operazione sotto falsa bandiera hitleriana relativa al pseudoattacco polacco alla Germania nel settembre 1939 ed il suo esecutore principale, l'ufficiale dei servizi segreti tedeschi Alfred Helmut Naujocks, è persino intervistato in merito dai documentari di History Channel; ma la cosa doveva restare nascosta pochi anni. Come disse lo stesso Hitler, se la Germania avesse vinto la guerra nessuno avrebbe osato dire nulla in merito sulle varie operazioni "false flag" di cui lui era maestro; se avesse perso, la cosa sarebbe stata di un'importanza decisamente secondaria. Se il complotto resta segreto più a lungo del necessario, ai complottisti – quelli veri, senza virgolette, insomma quelli che i complotti li fanno e non li studiano – la cosa non fa né caldo né freddo. A risporva del fatto che l'obiettivo di un complotto non è restare segreto in eterno, ma produrre i suoi effetti pragmatici, i loro autori, se si sentono al sicuro da conseguenze legali, possono anche vantarsene – Gladio, ma non solo, docet...

Maggiormente critico e decisamente più smarcato verso le tesi popperiane risulta, invece, essere Giorello: nota, per esempio,

(...) si può obiettare al suo [di Popper] modello che ci sono stati casi in cui non solo si sono avute effettive cospirazioni, ma i loro promotori hanno avuto successo non solo nel breve ma anche nel lungo periodo. (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 24)

Ci sarà pure una differenza tra la concezione di alcuni fan di Elvis Presley che il "Re del rock" non sia morto e sia tenuto celato da qualche parte e la ricostruzione della crisi del Watergate che alla fine inchiodò Richard Nixon alle sue responsabilità. (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 26)

La presenza, o meno, di cospirazioni e la discussione delle eventuali conseguenze anche non intenzionali vanno valutate cercando di puntualizzare le responsabilità individuali – prescindendo dal ricorso a responsabilità collettive, che invochino "razza", "etnia", "popolo", "religione" o magari "genere". (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 25)

esercitare "il puro e semplice diritto a non seguire alcuna opinione consensualmente stabilita" (...) non è che un nome per libertà. (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 26)

Ciononostante, anche Giorello – di là della sua discutibile valutazione sulla "lucidità" delle analisi popperiane – mostra alcune pecche nella sua analisi. Mi limiterò qui a notare il seguente punto:

(...) per Popper (e per noi) la navigazione migliore è quella della critica unita alla competenza, il che comporta l'abbandono di qualsiasi teoria della cospirazione, pur ammettendo che in molti casi empiricamente controllabili ci possano essere state cospirazioni e congiure. (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 25)

Ora, se la visione che Giorello ha della Teoria della Cospirazione fosse l'"Uomo di Paglia" costruito dal citato Popper, potremmo anche essere d'accordo. Ma Giorello parla di abbandonare "qualunque" teoria del genere, il che comporta un grave problema in termini di pragmatica della comunicazione umana: ci si disarma completamente di fronte alle provocazioni, ai complotti. Se, all'indomani del 12 dicembre 1969, i milioni di uomini e donne che erano corpo e sangue del "popolo della sinistra" avessero seguito le sue indicazioni, la provocazione sarebbe riuscita in pieno e, probabilmente, le tendenze golpiste e neofasciste si sarebbero rafforzate, forse al punto da prendere il potere.

In fin dei conti, la vera e grande speranza di chi i complotti li fa davvero, è che nessuno abbia il coraggio di indagare sulla realtà delle cose, cosa che potrebbe abbreviare il tempo della sua segretezza al punto da farli fallire, in tutto o in parte. Certo, in questo genere d'indagini, si possono compiere errori, anche prendere lucciole per lanterne. Ma la soluzione non è certo quella indicata da Giorello, che sembra vittima del tabù storiografico sul complotto dei potenti: è, invece, essere attenti a condurre tali indagini con la forma mentis della razionalità scientifica.

Enrico Voccia (Shevek)


 1 - Il 22 agosto, davanti ai suoi generali, Hitler affermò testualmente: "Quanto alla propaganda, troverò qualche spiegazione per lo scoppio della guerra. Non importa se plausibile o no, Al vincitore non verrà chiesto, poi, se avrà detto o no la verità" (citato in SHIRER, William L., Storia del terzo Reich, Torino, Einaudi, 1990, p. 817).

2  - Eco poi mostra di non comprendere bene il senso di una particolare teoria "complottistica": quella del "Grande Vecchio". "(...) rapimento Moro: com'è possibile, ci si chiedeva, che dei trentenni abbiano potuto concepire un'azione così perfetta? Ci deve essere dietro un Cervello più avveduto. Senza pensare che in quel momento altri trentenni dirigevano aziende, guidavano jumbo jet o inventavano nuovi dispositivi elettronici (...) (Almanacco Guanda 2007, op. cit., p. 28). Eco, insomma, non comprende che la questione non consisteva nell'età dei protagonisti in buona fede della lotta armata, ma nella valutazione che molti di coloro che li aveva conosciuti aveva di essi, a prescindere dalla loro età: non certo dei geni e nemmeno persone di normale intelligenza, ma dei patsy, degli "zimbelli", degli "utili idioti". Insomma, non un "Grande Vecchio"che li guidava contro lo Stato, ma che li utilizzava ai suoi fini.

3   - Sul concetto di Pragmatica della Comunicazione Umana vedi il classico  WATZLAWICK P., BEAVIN, J. H. e JACKSON, D. D., Pragmatica della Comunicazione Umana, Roma, Astrolabio, 1971 (da cui deriva il concetto); per un'applicazione della teoria all'analisi delle provocazioni vedi VOCCIA, Enrico, "L'Ideologia della Provocazione", in Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filosofia, fascicolo "simulazione", primavera/estate 1996, p. 6-12 (lo si trova, aggiornato, al seguente indirizzo web).







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