Il valore della testimonianza

Data 21/9/2010 20:10:00 | Categoria: Medicina

Questo segmento, in cui Padre Balducci parla del valore della testimonianza umana, è estratto dalla trasmissione di Videolina “Ufo e interferenze aliene”.



Molto spesso, parlando del caso Simoncini, si sente dire che le testimonianze dei pazienti guariti possono magari essere interessanti, ma che non hanno - e mai potranno avere - un “valore scientifico”. Non a caso vengono definite “materiale aneddotico”, con una sfumatura di disdegno, dalla scienza stessa.

Di fatto, nessuno sostiene che le testimonianze casuali di uno o più pazienti siano equiparabili ad un cosiddetto “studio sperimentale”, che avviene in un ambito controllato, e secondo rigorosi parametri scientifici.

Per questo motivo mi viene spesso sollevata la seguente obiezione: “Come mai tu, che sei solito affrontare certi argomenti difficili – 9/11, caso Kennedy, Moonhoax - con un rigoroso metodo analitico, di colpo ti sbilanci in modo così vistoso su una teoria, come quella di Simoncini, sulla quale non esiste alcun riscontro scientifico?”

Prima di tutto, bisogna dire che la testimonianza di un qualunque essere umano, come fatto in sè, …
… non è affatto un elemento di secondaria importanza, ma una delle vere e proprie colonne di un qualunque percorso conoscitivo.

Proprio in ambito di 9/11, sono le innumerevoli testimonianze di pompieri, poliziotti e normali cittadini sulle “eplosioni” sentite al World Trade Center a suggerire che si sia trattato di una demolizione controllata. Sono le testimonianze di piloti ed esperti di aviazione a suggerire che al comando degli aerei dirottati non vi fossero affatto quattro dilettanti dell’aria. E’ la testimonianza del sindaco di Shanksville (“There was no plane”) a suggerire che nella famosa buca trovata nel terreno non sia mai caduto nessun Boeing. (Ed è la sua stessa testimonianza, capovolta di 180° dopo poche settimane soltanto, a suggerire che nel frattempo qualcuno gli abbia “consigliato” di ripensare meglio a quello che aveva visto). Sono le testimonianze dei controllori di volo a suggerire che quello del Pentagono non fosse affatto un Boeing, ma un velivolo di tipo militare. Ed è letteralmente una testimonianza – in questo caso anche giurata – a suggerire che Cheney abbia mentito rispetto alla localizzazione del volo AA77.

Nello stesso modo, furono le dozzine di testimoni che si precipitarono verso la collinetta erbosa, a Dallas, a suggerire che il colpo che uccise John Kennedy non sia partito dal Book Depository. Come furono le testimonianze di coloro che lo “videro sparare da vicino a Robert Kennedy” ad inchiodare alla sedia elettrica il destino di Sirhan Sirhan.

Errata o giusta che sia, la testimonianza rimarrà sempre il pilastro fondamentale di qualunque resoconto, di qualunque indagine o ricostruzione storica che si voglia intentare. Se togli le testimonianze restano solo dei gelidi “pezzi di realtà”, dei frammenti fisici inanimati, che da soli non hanno nessun significato. Che valore ha, ad esempio, la finestra semiaperta del Book Depository, se non c’è qualcuno che dice “ho visto la sagoma di un uomo muoversi lì dietro, poco prima dell’attentato”?

Certo, le testimonianze possono essere sbagliate, e questo può accadere anche nella più totale buonafede del testimone. Ecco perchè diventa importante considerare anche la quantità delle testimonianze raccolte su un certo episodio, prima di trarre conclusioni di una certa importanza. Una sola persona che dice di aver sentito delle esplosioni nelle Torri Gemelle non sarà mai sufficiente a sostentare la tesi della demolizione. Se invece le persone sono più di 50, e dicono tutte più o meno le stessa cosa, diventa quasi obbligatorio dimostrare il contrario.

Torniamo ora all’argomento iniziale: le mie convinzioni sulla teoria Simoncini non si basano affatto su “sensazioni” di tipo personale, intuitivo o comunque irrazionale, come potrebbe suggerire la caratteristica “emotiva” delle testimonianze filmate, ma derivano da precise osservazioni di tipo statistico. E la statistica è sempre stata una scienza come tutte le altre.

Quando intervistai il primo paziente [che si diceva] guarito da Simoncini, non trassi conclusioni di alcun tipo, nè positive nè negative. Ero aperto a qualunque possibilità. Quando intervistai il secondo, il terzo e il quarto, cominciai ad ipotizzare la validità della cura Simoncini, ma insieme introdussi anche possibili spiegazioni di tipo accidentale, come ad esempio regressioni spontanee, diagnosi errate o casi di “effetto placebo”. Ma da un certo punto in poi fu la logica stessa ad escludere tutte queste possibilità, per semplici motivi di tipo statistico. Uno potrà anche essere stato una diagnosi errata, l’altro potrà aver subito l’effetto placebo, il terzo sarà anche regredito spontaneamente, ma quando cominci ad avere di fronte quindici-venti persone a) tutte diagnosticate con cancro terminale, b) tutte che hanno rifiutato la prassi ufficiale, c) tutte che hanno seguito la terapia Simoncini, e d) tutte che si dichiarano guarite dal cancro, sei obbligato a scartare anche il più crudele incrocio di casualità che il destino abbia voluto mettere sul tuo cammino.

Anzi, da un certo punto in poi l’unica spiegazione plausibile, per tutte queste guarigioni, rimane proprio una validità, almeno relativa, della cura Simoncini. La mia mente infatti si ribella a dover ipotizzare che tutti costoro NON avessero il cancro ad uno stadio terminale, quando gli fu detto di “tornare a casa e godersi quel che gli restava da vivere”. Quante persone conoscete, che siano state mandate a casa a morire, e poi siano invece sopravvissute – senza fare nulla di particolare – “alla facciazza” dell’oncologia ufficiale? Io personalmente nessuna, ma anche se ne esistesse qualcuna sarebbe solo l’eccezione che conferma la regola. In altre parole, è sempre la statistica ad escludere che questo possa essere avvenuto per tutti e per ciascuno dei pazienti intervistati. (Nè peraltro ho mai sentito il bisogno di una diagnosi di guarigione particolarmente accurata, nei loro confronti, quando la stessa persona che doveva essere morta mesi o anni prima – a detta degli oncologi stessi - era viva e vegeta che sorrideva di fronte alla telecamera).

Parliamo quindi della statistica, e del suo effettivo valore scientifico.

In fondo, quando si fanno i famosi “studi sperimentali” di cui parlavamo all’inizio, che cosa accade nella realtà? Si prendono cento persone a cui si dà la medicina X, studiata per combattere la malattia Y, e se ne prendono altre cento a cui si dà un banale placebo. Dopo un certo tempo si esamina la condizione di tutte queste persone e si stabilisce, ad esempio, che il 79% dei pazienti del gruppo A è guarito dalla malattia Y, mentre nel gruppo B soltanto il 3% è guarito, gli altri sono tutti peggiorati. A quel punto si conclude che “la medicina X ha dimostrato una chiara efficacia nel trattamento della malattia Y”.

Tutto è stato fatto in modo altamente scientifico, naturalmente, ma alla fine è sempre la statistica a dare il responso finale. Se invece del 79% fosse migliorato solo il 7% dei pazienti del gruppo A, contro il 3% del gruppo B, già non sarebbe stato possibile trarre conclusioni di alcun tipo.

Se ora si guarda con attenzione, si scopre che Simoncini fa sostanzialmente la stessa cosa. Prende venti pazienti terminali, gli somministra il bicarbonato, vede che guariscono, e deduce che il suo metodo funzioni.

Ci sono delle differenze, ovviamente: prima di tutto Simoncini non dispone del gruppo di controllo, e offre quindi solo le statistiche “crude” di un eventuale “gruppo A”. Ma abbiamo davvero bisogno di un “gruppo B” di pazienti terminali, per verificare che dopo un certo periodo di tempo questi muoiono tutti di cancro?

In secondo luogo, nel caso di Simoncini non esistono i controlli sistematici che garantiscano l’accuratezza delle diagnosi, nè le dosi o le modalità di somministrazione effettiva dei farmaci. Bisogna quindi introdurre, nella valutazione dei suoi dati, un certo margine di errore. Ma anche qui, Simoncini non viaggia certo a braccio, e dopo oltre 20 anni di esperienza è perfettamente in grado di indicare con precisione la quantità, le modalità e i tempi di somministrazione del bicarbonato, per buona parte dei tumori conosciuti.

Una volta compensato il margine di errore, quindi, la questione si riduce ad un mero problema di fiducia, nel senso che Simoncini potrebbe anche aver deciso di voler prendere in giro il mondo intero, inventandosi la “bufala” del bicarbonato, e quindi potrebbe aver convinto gli intervistati a raccontare cose non vere. Ma se solo si accetta la buonafede dei pazienti intervistati, e si considera il loro crescente numero effettivo, diventa sempre più difficile escludere una validità, almeno parziale, della sua cura.

Questo non solo comporta la mia più completa serenità nel diffondere le informazioni sulla cura Simoncini, ma lo rende un obbligo morale al quale non potrei in alcun modo più sottrarmi.

Massimo Mazzucco




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