Hyperion

Data 15/3/2014 19:30:00 | Categoria: storia & cultura



di Massimiliano Paoli

“Talvolta i Titani erano considerati figure primitive e selvagge, al limite della crudeltà mostruosa: divinità imperfette che regnavano con la forza, non con la sapienza e la giustizia di Zeus. [...] Alcuni però pensavano che questi antichi dei possedessero una loro giustizia, più mite e modesta rispetto a quella degli olimpi, e in fondo più benevola nei confronti dell'umanità”(1).

Non fatevi ingannare, questa storia ha ben poco di mitologico.

Questa storia parla di un passato recente che ancora oggi si fatica a raccontare nella sua sconosciuta interezza (sconosciuta per noi comuni mortali); questo anche grazie alle complicità dell’industria dell’informazione che da sempre si diletta a gestire il teatrino delle pseudo verità occultando, per motivi più o meno leciti, la complessità di certi fenomeni storici in cui i contorni dei personaggi sono chiari ma al tempo stesso enigmatici e sfuggenti, dove le comparse, spesso scambiate per protagonisti (e viceversa), sembrano guidate da un’immortale regia che cambia volto ma non scopo: l’uso del terrore per influenzare le masse.

Questa è la storia del “cervello parigino” delle Brigate Rosse, Hyperion. La vulgata comune fa cominciare questa narrazione nel lontano 1968, ...
... ovvero nel pieno di quella contrapposizione geostrategica che ha visto le due “superpotenze” del tempo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, sfidarsi sul piano ideologico, tecnologico e militare, caratterizzando così quelle turbolente decadi che prendono il nome di Guerra Fredda.

Negli anni sessanta in molti paesi del mondo, tra cui l’Italia, sta esplodendo un ampio fenomeno di contestazione portato avanti principalmente da operai e studenti.

“E’ a cavallo del biennio 1967-68 che iniziò a emergere la figura dello studente-proletario, costretto ad accettare rapporti di lavorio saltuari e mal pagati per permettersi di studiare e vivere nella grande città. Prendeva alloggio nei quartieri sottoproletari insieme agli immigrati del Sud, oppure nei quartieri operai della periferia e, spinto da esigenze più economiche che ideologiche, sperimentava forme di vita collettiva: dividendo l’abitazione e il salario con altri. Alla base delle lotte studentesche del Sessantotto ci fu proprio il terrore della fabbrica, avvertita come un destino inevitabile preparato dalla pianificazione capitalistica, la quale avrebbe già previsto come utilizzare la loro preparazione tecnico-scientifica come forza-lavoro. Di fronte a questo destino, lo studente-proletario reagì richiamandosi ai valori umanistici che la fabbrica aveva spazzato via per assoggettare gli uomini al processo di accumulazione del capitale. La fabbrica andava inghiottendo inesorabilmente la società e in particolar modo il lavoro intellettuale. […]

Sul finire degli anni Sessanta, l’Italia si stava apprestando ad affrontare una crisi economica che avrebbe inciso in modo significativo sullo sviluppo della società, tanto da rallentarne la crescita. I settori trainanti dell’industria erano quello automobilistico e quello degli elettrodomestici. La crisi di congiuntura venne interpretata dalle avanguardie operaie come una possibile arma di ricatto in mano alla borghesia, usata per sedare le rivendicazioni operaie, ponendo in forse la pace sociale conquistata a partire dal dopoguerra. Una solida alleanza tra la DC, i grandi imprenditori, le pubbliche imprese, i socialisti e la Chiesa vennero interpretati come espressione di un forte blocco borghese, il cui intento era la disciplina ai fini della conservazione del potere. Scavalcando la burocrazia sindacale e il partito, gli operai si organizzarono in assemblee e si posero una serie di obiettivi, che poi avrebbero caratterizzato le lotte del ’69, ma anche gli anni successivi: pensioni agganciate al salario; salario minimo garantito per tutti; riduzione dell’orario di lavoro a quaranta ore settimanali; tutela della salute negli ambienti lavorativi; assistenza sanitaria e ferie per tutti. Agli occhi degli operai, le gabbie salariali avrebbero fatto il gioco dell’imprenditore. La tesi che il salario uguale per tutti fosse una rivendicazione piccolo borghese appariva non condivisibile: la lotta doveva essere unica e nazionale. L’idea era che si potesse cambiare l’organizzazione del lavoro e che per cambiarla bisognasse mettere al centro della questione la qualità di vita dei lavoratori. E’ in questo anno che scoppiarono più frequentemente rivendicazioni di tipo salariale, basate su bisogni concreti e materiali: le esigenze di vita imponevano a questi operai di far fronte a spese sempre maggiori. Nell’autunno del 1969, l’anno degli scontri di piazza tra polizia e manifestanti e del contratto nazionale dei metalmeccanici, furono gettati i semi della poderosa macchina da guerra del terrorismo italiano: le Brigate rosse”(2).

Nel 1969 però, le future BR sono ancora divise in due gruppi distinti: il Collettivo politico metropolitano e il Collettivo politico operai-studenti (i cosiddetti “ragazzi dell’appartamento”).

Il primo gruppo viene costituito a Milano nel settembre di quello stesso anno dai futuri “capi storici” delle BR Renato Curcio e Margherita Cagol insieme all’enigmatico Corrado Simioni.

Racconta Curcio: «Nel Collettivo, con sede in un vecchio teatro in disuso in via Curatone, si cantava, si faceva teatro, si tenevano mostre di grafica. Era una continua esplosione di giocosità e invenzione».

“Attraverso un passaparola negli ambienti dell’estrema sinistra, altri collettivi eterogenei vennero a conoscenza dell’indirizzo del CPM, in cui cominciarono a confluire cantanti, attori, tecnici, operai, insegnanti, musicisti”(3).

A detta del futuro «dirigente» brigatista Mario Moretti: «All’inizio, il CPM non si presenta neanche come un gruppo - non ha una linea precisa - ma è un luogo di ricerca di una piattaforma capace di mettere insieme soggetti diversi come gli operai della Pirelli, i tecnici della IBM e della Siemens, e chi stava nei collettivi lavoratori-studenti».

Nel novembre del ’69 invece, nella cittadina ligure di Chiavari, presso l’Hotel Stella Maris (gestito dalla curia arcivescovile locale), comincia a plasmarsi la linea politica del gruppo.

“Al convengo parteciparono essenzialmente marxisti-leninisti e cattolici progressisti (o cattolici del dissenso), i primi delusi dalla svolta moderata e dalla conseguente rinuncia alla rivoluzione dei partiti della sinistra storica, Partito comunista italiano in testa, i secondi convinti che fosse necessario un maggiore impegno per modificare l’assetto sociale”(4).

Secondo Moretti, ad “un certo punto ci accorgiamo che il convegno, pur indetto con una certa riservatezza, è sorvegliato da alcuni poliziotti della Squadra politica di Milano: li conoscevamo benissimo, almeno quanto loro conoscevano noi. Sulle prime c’è grande preoccupazione, temiamo una retata, una provocazione. Ma appena una compagna scopre un pianoforte in una delle sale e siede alla tastiera, ci mettiamo a cantare a squarciagola Bandiera rossa. Alle tre di notte. Altro che clandestinità […]”(5).

Sempre nel corso del convegno ligure, “fu redatto il cosiddetto Libretto giallo, un breve opuscolo di ventotto pagine dal titolo Lotta sociale e organizzazione nella metropoli. Il documento si apriva con la contestazione che a partire dal 1968, in Europa e nel cuore stesso delle metropoli, le masse avevano cominciato a muoversi spontaneamente”(6).

Nell’opuscolo si cita il rivoluzionario brasiliano Marcelo De Andrade, il quale afferma: «Ogni alternativa proletaria al potere è, fin dall’inizio, politico-militare. La lotta armata è la via principale della lotta di classe. La città è il cuore del sistema, il centro organizzativo dello sfruttamento economico-politico».

E’ proprio sulla base di questo opuscolo e di questa frase in particolare che si poggeranno le basi del rapporto politico tra i due collettivi che andranno in seguito a formare le BR.

[Continua]

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