LA PAROLA A CAINO

Data 23/8/2005 11:34:16 | Categoria: palestina

In una miscela di dramma autentico e di melodramma ad uso mediatico, in un perverso capovolgimento delle parti, continua lo sgombero dei territori occupati da parte dei coloni israeliani, così fortemente voluto da Sharon. Lo stesso Sharon che, paradosso nel paradosso, istituì e diresse il cosiddetto "Ministero per la Colonizzazione" dei territori occupati, circa 40 anni fa.

LA PAROLA A CAINO - di Marta Caruso

Mi chiedo spesso se il destino della gente sia davvero segnato dall'inizio. Ripercorrendo le tappe della mia vita, dire che io sia nato sotto una cattiva stella, pare quasi un eufemismo. Quando venni al mondo, mio padre mi guardò e sospirò: "…carino…"; così mia madre, che aveva un precedente pesante alle spalle, per assecondarlo mi chiamò "Caino". Per mio fratello le cose andarono diversamente. Venne al mondo che aveva il viso incorniciato dai riccioli biondi; se all'epoca fosse stato già inventato, …
... avrebbero detto che pareva proprio Gesù Bambino.

Mio padre, quando lo vide, con grande entusiasmo esclamò: - "Ah…bello!" Mia madre, sempre per farlo contento, gli mise il nome di "Abele". Io e mio fratello, nonostante non avessimo molta parentela da cui attingere i connotati, non ci assomigliavamo per niente. La mamma diceva sempre che per lei eravamo entrambi belli, ma il fatto stesso che dovesse ribadirlo, era un segno tangibile della sua malafede.

Quando i nostri genitori decisero le attività che avremmo dovuto svolgere, pur considerando che le possibilità erano infinite, io mi ritrovai a fare il contadino, mentre a mio fratello spettò il compito di badare al gregge. Il risultato fu che io incominciai a coltivare la terra e lui le arti. Un giorno chiesi alla mamma: - "Madre perché mi hai fatto così brutto e sfortunato?"

Quella mi guardò e rispose: - "Chiedilo a tuo padre" Allora andai dal papà e gli chiesi: - "Padre, perché mi hai fatto così brutto e sfortunato?" Mio padre mi mandò nuovamente a chiederlo alla mamma. Nella mia famiglia le cose funzionavano così, nessuno voleva mai prendersi la responsabilità. Mio fratello, dal canto suo, non faceva niente per rendermi la vita facile e anzi, se riusciva a farmi qualche affronto, era anche contento.

Ogni giorno passava sul mio campo con il gregge, ed ogni giorno io lo pregavo di non rovinarmi il raccolto. Gli dicevo: - "Fratello caro, ma con tutto sto po' di mondo che abbiamo a disposizione, devi proprio passare sul mio campo con tutte le pecore? " Quando tornava a casa correva subito dalla mamma a raccontarle che l'avevo ingiuriato, che avevo il cuore arido e che non l'amavo. Un giorno la mamma mi prese in disparte, e mi chiese per quale motivo ci fosse attrito fra me e Abele. Io le raccontai la storia del campo e delle pecore, lei mi guardò e con un mezzo sorriso esordì: " Ma benedetto ragazzo! Con tutto sto po' di mondo che hai a disposizione, devi proprio coltivare il campo dove passa Abele?!"

Dopo quel dialogo capii che non era più il tempo delle parole. Il giorno dopo alla solita ora, Abele passò sul mio campo con le sue dannate pecore. Io lo chiamai a gran voce e gli dissi "senti, brutto deficiente, se trovo ancora una tua pecora sul mio campo me la faccio arrosto!"

Quello fece spallucce e se ne andò. Da allora, non solo passava regolarmente sul campo, ma lasciava pure che le pecore pascolassero liberamente il raccolto. Una sera, presi una pecora che aveva lasciata incustodita, la sgozzai e la portai a casa per arrostirla. Alla mamma raccontai che era una pecora selvatica, e quella ci credette. A mia madre tutti raccontavano fesserie, persino i serpenti. Quando, davanti alla brace, Abele addentò un cosciotto, immediatamente scoppiò in lacrime ed esclamò: - "Ma questa è la coscia della Lola!"

Da quando i miei genitori furono cacciati dal paradiso terrestre, ogni anno il proprietario del latifondo, che noi chiamavamo per brevità "il Signore" ci chiedeva i frutti del nostro lavoro da mezzadri. Quando veniva il tempo di pagare il debito al "Signore", io preparavo la parte migliore del raccolto per donarla generosamente. Quell'anno il campo era stato talmente danneggiato dalle pecore di Abele, che il raccolto era modesto e di pessima qualità.

Tanto magro era il frutto del mio lavoro, quanto grasse erano le pecore di mio fratello. Il "Signore" arrivò fra lampi è saette, poiché era molto coreografico. Accettò i doni e con tono solenne disse: - " Abele ha un cuore grande, guardate che belle pecore grasse mi porta in dono!". Poi si girò con sdegno verso di me, e disse: - "Guardate invece Caino… che schifezza!" L'umiliazione fu così grande che decisi di coltivare altri interessi oltre al lavoro e alla famiglia.

Nutrivo gran curiosità per tutto ciò che mi circondava. Avevo notato che per uno strano fenomeno, tutti gli oggetti erano attratti verso il suolo; inoltre, la forza d'attrazione era proporzionata al peso degli oggetti. Un giorno, mentre facevo degli esperimenti sui sassi, lungo il fiume, si avvicinò mio fratello. Mi guardò beffardo e mi chiese cosa stessi facendo. Io gli spiegai per sommi capi la mia teoria. Quello mi guardò e scoppio a ridere. Allora presi due pietre di diverso peso e le feci cadere al suolo. Lui non capì e rise ancora. Disse che per vedere quale pietra toccava il suolo per prima era necessario collocarsi sul terreno. Appoggiò la testa sul prato ridendo come un matto. Poi mi guardò e disse: - "…Avvertimi quando lanci che mi spo….."

Marta Caruso (Bianca)






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