LO STATO DI DIRITTO NEI PAESI IN CONFLITTO O A RISCHIO DI CONFLITTO

Data 22/9/2005 23:41:42 | Categoria: opinione

di Alessandra Chianese

“Il dialogo è una delle migliori abitudini dell’uomo, inventata, come quasi tutto, dai greci. I greci furono i primi a conversare, e da allora si è continuato.” - Jorge Luis Borges

Spesso, erroneamente, nella cultura occidentale, si utilizza l’espressione “Stato di Diritto” per indicare lo Stato democratico e liberale, come se si volesse opporre questo modello a quello esistente in altre culture, iin particolare a quella islamica e a quella cinese-confuciana, e per giustificare la guerra come strumento per “esportare democrazia”.

In realtà nello Stato di diritto deve essere garantita la certezza del diritto come bene sociale diffuso, contrapponendosi quindi allo Stato assoluto, allo Stato totalitario ed allo Stato di polizia.

L’idea che gli uomini dovessero essere governati dalle leggi e non dall’arbitrio di altri uomini ...
... è tanto antica che Aristotele scriveva: “è preferibile senza dubbio che governi la legge, più che qualunque cittadino e, secondo questo stesso ragionamento, anche se è meglio che governino alcuni, costoro bisogna costituirli guardiani delle leggi e subordinati alle leggi”.

Nei secoli successivi gli stessi diritti individuali, pur affermati come diritti dell’uomo, in realtà si svilupparono come diritti del cittadino, originariamente del cittadino borghese, poi via via estesi alla generalità, a seguito di lotte e rivendicazioni contro i rispettivi governi.

Il cammino dei diritti dell’uomo nei confronti d’ogni Stato e tutelabili anche contro gli Stati, prende un effettivo avvio e sviluppo soltanto a seguito di quella terribile tragedia che ha segnato la storia recente del mondo, il nazifascismo e la seconda guerra mondiale. Il famoso Preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite: “Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità” fu scritto nel 1945 e fu approvato dall’Assemblea generale il 10 dicembre 1948.

Il 16 dicembre 1966 furono approvati due distinti Patti internazionali sui diritti, uno sui diritti economici, sociali e culturali e uno sui diritti civili e politici.

L’esistenza dei due Patti è fondamentale dato che senza libertà civili e politiche, si rischia di compromettere anche l’effettività dei diritti economici e sociali. Il nesso tra libertà, democrazia e sviluppo economico è inscindibile, ed è essenziale e prioritario l’impegno individuale e sociale per uno sviluppo equilibrato e armonico del pianeta, che non condanni al sottosviluppo, alla miseria e alla fame la maggioranza dei suoi abitanti, soprattutto quelli più deboli.

Per secoli sono stati violati i principi di libertà dell’uomo, sulla base della pretesa superiorità sociale ed economica di alcuni Paesi su altri. Basti pensare alla schiavitù, abolita in Francia nel 1848, quasi mezzo secolo dopo la rivoluzione, e negli Stati Uniti nel 1865 al termine della guerra civile che liberò i 15 milioni di persone che vivevano in schiavitù dopo essere state violentemente catturate in Africa.

Nonostante la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 consideri la schiavitù la forma più vergognosa di asservimento, la legge antischiavi dell’Arabia è datata solo 1960 e quella del sultanato di Oman 1970. La cosa più impressionante è che, secondo l’Anty-slavery International di Londra, oggi sono 220 milioni gli esseri umani che si trovano in condizione di schiavitù, schiavi importati dal terzo mondo nei paesi ricchi. La schiavitù, oggi, resta uno dei peggiori frutti prodotti dalle guerre in tutto il mondo.

Negli anni novanta, la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda furono interpretate come una svolta epocale nelle relazioni internazionali che avrebbe dovuto portare all’effettiva applicazione della Carta dell'Onu. Si è invece prodotta una svolta esattamente opposta. La fine della divisione del mondo in blocchi è stato vissuto non come una liberazione dall’incubo della guerra nucleare, ma come una “vittoria” dell’Occidente, che avrebbe consentito di passare dal mondo bipolare al mondo unipolare, dominato dall’unica superpotenza mondiale rimasta.

Nel nuovo mondo unipolare, improvvisamente privato del nemico e impegnato soltanto a celebrare i trionfi del libero mercato, si sono ignorati, e sono stati anzi aggravati, tutti i grandi problemi del pianeta. Si è approfondito il divario di ricchezza tra i paesi ricchi e i paesi poveri, si è lasciato libero corso alle devastazioni dell'ambiente, si sono chiuse ermeticamente le frontiere dei paesi occidentali a masse crescenti di affamati. Si è così manifestata una disuguaglianza che non ha precedenti nella storia.

Il paradosso che si è venuto a creare, è proprio nel rafforzamento dei “diritti” dei cittadini dei paesi occidentali (e non degli abitanti dei Paesi stessi, dato che gli stessi diritti non sempre sono estesi agli immigrati) a scapito dei cittadini dei Paesi in via di sviluppo, mentre è proprio nella tutela e nella vigilanza della certezza del diritto in tutti i Paesi e specialmente in quelli a rischio di conflitto, che si dovrebbe concentrare il lavoro delle cooperazioni internazionali, a cominciare dall’attività delle Nazioni Unite.
In realtà, da più parti, il sistema di diritti delle Nazioni Unite è accusato di essere uno strumento per imporre al mondo l’egemonia occidentale. In effetti non sempre l’ONU, nei suoi concreti comportamenti, ha mantenuto le promesse e gli impegni consacrati nella sua stessa Carta.

Il maggiore timore per l’effettività dei diritti umani e dei popoli, a cominciare dal diritto alla pace, non viene dai ritardi e dalle indiscutibili contraddizioni del concreto operare delle Nazioni Unite, ma dall’arrogante volontà di pochi di imporre a tutto il mondo l’ideologia e il modo di vivere occidentali e dalla pretesa di esportare oggi la democrazia con la violenza, come ieri si pretendeva esportare la “vera” religione sulle spade dei crociati.
In questi ultimi anni, tutti i Paesi “economicamente sviluppati” devono ripristinare il dominio del diritto, per opporsi alla regressione culturale che, dopo l’11 settembre 2001, sta travolgendo molte garanzie che sembravano patrimonio acquisito e irreversibile (si pensi al trattamento dei prigionieri detenuti nella base di Guantanamo e alla clamorosa violazione dei loro diritti processuali e sostanziali o all’inquietante riproporsi dell’interrogativo sulle legittimità della tortura, comparso sulla copertina dell’Economist o all’illegittima intrusione di ogni spazio di riservatezza personale o, infine, alla dottrina Bush sulla guerra preventiva, immorale sul piano etico ed illecita sul piano del diritto internazionale, come ha affermato il Tribunale Permanente dei Popoli, nella sentenza del dicembre 2002 sulla guerra in Iraq).

Lo Stato di diritto si basa su alcuni elementi fondamentali quali la divisione dei poteri, il principio di legalità, l’eguaglianza formale, le libertà e non certo sull’imposizione di un modello religioso o culturale. L’obiettivo della divisione dei poteri è di evitare la concentrazione dei poteri dello Stato. La separazione ed il controllo reciproco tra i poteri devono essere assicurati anche se tutti gli organi dello Stato sono eletti dai cittadini. Grazie al principio di legalità, i compiti e le competenze dei poteri dello Stato sono enumerati dalle leggi, sono conservati i diritti naturali dei cittadini e libertà e diritti possono essere limitati sola dalla legge. Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, a prescindere dalle eventuali differenze sociali, economiche e culturali, in virtù dell’eguaglianza formale. Lo Stato deve assicurare che nessuno ostacoli le libere scelte individuali e che vengano tutelate le libertà dei cittadini.

Gli Stati occidentali devono vigilare sul rispetto di questi valori e la cooperazione internazionale deve lavorare per sviluppare la conoscenza a l’uso degli elementi e dei valori che caratterizzano lo Stato di diritto e la tutela delle libertà degli individui.

Nelle mie esperienze in America Latina (Argentina, El Salvador, Perù), ho verificato come l’assenza o la fragilità di uno solo dei principi fondamentali dello Stato di diritto metta o serio rischio l’equilibrio del Paese e determini una sorta di guerriglia civile, che potrebbe facilmente trasformarsi in un conflitto sociale e/o politico.

In Argentina, ad esempio, l’ultima crisi economica e la conseguente ineguaglianza tra cittadini di diversa classe sociale ha determinato una forte tensione sociale in un Paese che nei decenni si è caratterizzato per l’alternanza di crisi economiche e politiche. Sono nati movimenti di tutela dei diritti considerati a rischio. I disoccupati e gli studenti si sono organizzati in gruppi definiti piquetteros, che manifestano per il diritto al lavoro (o al salario di disoccupazione) bloccando intere zone della città con veri e propri “picchetti”. I poveri, che vivono nelle bidonvilles ai margini della capitale, al tramonto si concentrano al centro di Buenos Aires per rovistare tra spazzatura e raccogliere carta e cartoni da rivendere (da qui il nome cartoneros). Il ceto medio manifesta contro il Governo, chiedendo maggiore sicurezza a tutela del patrimonio. In uno Stato che da oltre due anni cerca di uscire da una grave crisi politica, i cittadini (piquetteros, cartoneros, ceto medio) sono uniti in un senso di frustrazione ed insicurezza e contestano i politici che non hanno tutelato l’economia del Paese, le banche che hanno speculato sui piccoli risparmiatori ed i giudici che non tutelano i diritti dei cittadini.

Diversa è la situazione in El Salvador. Le nuove norme promulgate da Governo, piuttosto che realizzare attività di prevenzione della violenza, puntano a criminalizzare i minori che, organizzati in bande, sono ritenuti l’unica causa della dilagante violenza nel Paese. La legge “Mano dura” (già dichiarata incostituzionale nella sua prima stesura e poi di nuovo promulgata in una forma ancora più rigida della precedente) limita i diritti dei minori violando una serie di punti della convenzione internazionale dei diritti del fanciullo (motivo di detenzione può essere il semplice girovagare per le strade, o l’avere tatuaggi sulla pelle). Per garantire la tutela dei minori, i giudici non applicano la legge ed hanno nuovamente sollevato la questione di incostituzionalità. Il Governo contesta un’ingerenza da parte della magistratura ed invita la stampa a pubblicare le foto ed i nomi dei minori accusati di aver commesso un crimine (anche se assolti), per tutelare i cittadini. Tutto questo ha determinato la crisi del principio di legalità e la conseguente crisi sulle competenze degli organi dello Stato, con grandi dubbi e perplessità da parte dell’opinione pubblica che non riesce a comprendere se c’è un effettiva ingerenza dei giudici sul potere esecutivo o se, viceversa, non sia da considerare la legge come grave violazione dell’eguaglianza formale e della libertà dei cittadini.

Il conflitto di poteri tra Governo e magistratura sembra essere la violazione più frequente allo Stato di diritto. In Perù mi è stato chiesto un intervento su “comunicazione e magistratura”, per definire una nuova strategia di comunicazione finalizzata a sensibilizzare l’opinione pubblica sul reale ruolo dei giudici di tutela dei diritti dei cittadini e non di autotutela ed ingerenza nella politica. Ho realizzato interventi simili anche in El Salvador ed in Argentina, ma non c’è bisogno di analizzare i Paesi dell’America Latina per scoprire il conflitto tra i poteri dello Stato, considerando che in questi stessi giorni la riforma dell’Ordinamento giudiziario italiano punta, essenzialmente a limitare l’autonomia dei giudici e, conseguentemente, il potere degli stessi.

Nei giorni scorsi ho partecipato ad un seminario a Buenos Aires su “l’indipendenza del potere giudiziario”. Una delle domande sollevate dal seminario era “Il potere giudiziario è un potere?” nel rispondere i giudici presenti, appartenenti alla Federazione dei giudici democratici dell’America Latina e del Carribe, hanno concordato che se il potere del giudice è quello di opporsi alle norme che ledono le libertà personali garantite dalla Costituzione (come accade oggi in Salvador, ma come già all’epoca dei militari è accaduto in Argentina), allora ben venga l’esercizio del potere. Da parte sua il potere esecutivo (in America Latina, ma anche in Italia) contesta un eccesso di potere da parte della magistratura che interferisce nelle scelte dei politici che, eletti direttamente dai cittadini, rappresentano la collettività.

In questo contesto, l’attività della società civile deve concentrarsi su un’attività di vigilanza per assicurare che in nessun Paese vangano ostacolate le libere scelte individuali, siano minacciate le persone ed i beni dei cittadini, e sia turbato l’ordine sociale da parte di terzi, ma anche da parte degli stessi poteri dello Stato che, troppo spesso, dimenticano che uno dei principi dello Stato di diritto è il controllo reciproco tra i poteri dello Stato.

Se è vero che le opinioni e le aspirazioni di decine di milioni di persone che hanno manifestato in tutto il mondo non hanno fermato le “guerre preventive”, è altrettanto vero che quelle stesse manifestazioni a favore della pace hanno orientato i Governi di molti Paesi nelle scelte ed oggi stanno facendo pagare prezzi pesanti e difficoltà di consenso ai leader degli Stati che hanno scelto la guerra come “soluzione al terrorismo”. Ciò conferma che, prima o poi, la società democratica è un vero antidoto alla cultura della guerra. Il movimento per la pace rafforza il diritto che delegittima la guerra e il diritto rafforza il movimento per la pace.

È quindi fondamentale che la cooperazione internazionale continui a basarsi su un principio di controllo preventivo, di verifica ed eventuale denuncia delle violazioni dei principi indicati nella Carta dell’ONU. Le azioni esercitate nell’ambito delle cooperazioni, anche se attraverso piccoli progetti, servono a sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale, ma anche a dimostrare a chi tenta di prevaricare i diritti dei cittadini, che c’è sempre qualcuno disposto a rischiare in prima persona per tutelare la libertà e l’uguaglianza degli altri.

Assisi, 22 settembre 2005

Alessandra Chianese


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(Questo era il testo introduttivo con cui Hariseldon, che ringraziamo, aveva inviato l'articolo.)

Una cara amica, sociologa, impegnata a 360° su tanti fronti. Da qualche tempo molto attiva nel campo dei diritti civili, tanto da presiedere un'associazione. Niente di che, in realtà: solo tante battaglie, qualche invito, diversi viaggi in Argentina e Africa, tante spese di tasca sua. Insomma, una che ci crede. Alla Chavez, ma molto più piccola. Ma che nel suo piccolo... Oggi è stata invitata ad Assisi a parlare di pace e diritti dei popoli. Le ho chiesto di inviarmi la bozza di intervento (tanto so che poi, presa dalla foga, dilagherà a braccio!). Vorrei condividerla con voi tutti. So che dice quello che dice perchè lo ha studiato/verificato/visto/metabolizzato. Che lo dice perchè ci crede. E che, soprattutto, lo direbbe anche se domani non fosse un signor nessuno. Anzi, una Signora nessuno. Hariseldon



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