DIARIO AMERICANO - II parte

Data 6/3/2004 21:46:51 | Categoria: rubriche




Fabio de Nardis, professore di Sociologia Politica all’Università di
Lecce, e professore di Scienze Politiche all’Orientale di Napoli,
è attualmente alla UCLA, University of California di Los
Angeles, per un periodo di ricerca scientifica.





Ogni sera appunta sul suo diario
le esperienze quotidiane, riuscendo a mescolare ogni volta la
interessante lettura sociale ad uno squarcio di umanità che solo
l'occhio disincantato di chi arrivi negli USA per la prima volta riesce
pienamente a cogliere.





Fabio de Nardis è anche direttore della rivista (cartacea e on-line)  “il Dubbio”, una pubblicazione internazionale di analisi politica e sociale.
















di Fabio de Nardis









 








Giovedì 11 Marzo 2004 – La biblioteca del Campus





 Oggi è stata una buona giornata, a cominciare dal clima.
Dopo due giorni di caldo infernale l’aria si è un po’
rinfrescata rendendo tutto più semplice. Superati i tantissimi
scogli burocratici sono finalmente riuscito ad accedere alla biblioteca
del Campus. Bisogna dire che per quanto gli Stati Uniti rimangano un
modello di efficienza organizzativa, ogni comportamento formale
è regolato da una pesantissima burocrazia, fatta di una serie
infinita di strutture amminitrative che, come sovente capita anche da
noi, non comunicano assolutamente tra di loro e spesso entrano in
conflitto a causa di inevitabili sovrapposizioni funzionali.





Per confermare il mio status di Research Scholar sono dovuto passare
per almeno sette uffici: uno che mi consentisse di avere un mio
studiolo; uno che mi desse diritto a un computer; addirittura un altro
per la stampante e un altro ancora per il telefono (che non ho ancora
mai usato); uno per avere un indirizzo di posta elettronica; uno per
avere diritto a un minimo di copertura in caso di incidenti; e uno,
infine, per ottenere la mia Bruin Card. Anche per iscrivermi nella
mastodontica palestra del Campus (mens sana in corpore sano) sono
passato per almeno tre filtri: Un ufficio per l’accettazione, uno per
il pagamento e un altro per avere la tessera magnetica con tanto di
foto. Questa è una peculiarità americana. Ti fotografano
per qualsiasi cosa. Alla dogana, appena poggi piede sul suolo
statunitense; all’Università, per ottenere il tesserino: e in
fine in palestra. Ci mancava solo che mi fotografassero per consultare
alcuni testi in biblioteca e avevamo fatto poker; anche se un’altra
tessera me l’hanno data comunque, anzi, me ne hanno date due: una per
poter ritirare i testi e un’altra prepagata, per poter usare la
stampante.





Entrare in una biblioteca universitaria negli Stati Uniti è
un’esperienza destabilizzante. In particolare la UCLA ha nel suo
interno 12 megabiblioteche per un totale di oltre quattro milioni di
libri e centinaia di riviste specializzate. Un italiano, abituato alle
nostre umili biblioteche universitarie che raramente superano i trenta
mila testi e qualche decina di riviste, ha bisogno di un po’ per
ambientarsi, ma poi tutto diventa chiaro e semplice. Ogni procedimento
è perfettamente informatizzato. Gli studenti hanno a
disposizione almeno un sessantina di computer per sede dove consultare
il catalogo dei testi, molti dei quali sono disponibili in formato
digitale. Io personalmente ho potuto stampare una decina di articoli da
riviste specializzate rimanendo tranquillamente seduto nel mio ufficio,
limitandomi ad accedere al sito congiunto delle diverse library. Tra
l’altro è una cosa che si può fare anche dall’Italia, dal
momento che non occorre alcun codice di accesso per consultare le
riviste on line.





Le difficoltà vere cominciano quando devi recuperare fisicamente
i vari testi. Ognuno, ovviamente, ha il proprio codice che generalmente
è fatto di alcune lettere, che definiscono il piano (dal momento
che ogni biblioteca ne ha almeno quattro) e il settore, seguite da
alcuni numeri che definiscono invece la collocazione esatta all’interno
del settore. Il problema è che questi numeri sono in genere di
quattro o cinque cifre; ciò vuol dire che per ogni volume
bisogna iniziare un lavoro di ricerca minuzioso tra decine di migliaia
di testi collocati in successione su scaffali alti almeno tre metri e
lunghi non so dirvi quanto. Ogni libro che riesci a trovare ti
dà un senso di soddisfazione e di potere che poche altre cose
nella vita riescono a offrire.





In ogni caso è una sensazione stupenda. Per chi come me vive di
ricerca, essere circondato da tutti quei libri è un qualcosa che
ti inebria. Non mancava nulla. Tutto ciò di cui avevo bisogno
era lì a disposizione, tanto che uscire con appena tredici libri
tra le braccia mi ha fatto sentire povero. La sensazione è che
qualunque nuovo prodotto editoriale prima o poi finisca tra quegli
scaffali e non mi riferisco solo a testi in inglese, ma in tutte le
lingue; dal cinese al giapponese, dall’arabo all’italiano. Ho trovato
anche due mie libri che mai avrei immaginato potessero arrivare fin qua
giù. L’ambiente interno è molto raccolto con spazi
estremamente ampi per consentire agli studenti di leggere senza troppe
distrazioni. L’atmosfera è così confessionale che sovente
ti capita di scovare giovani che tra una pagina e l’altra si
addormentano sui lunghi divani imbottiti che sono fissati tra uno
scaffale e l’altro.





Il personale è numeroso e tutti sono estremamente cordiali e
disponibili. Naturalmente ho impiegato un po’ per entrare nel
meccanismo e ieri un addetto del servizio informazioni mi ha dedicato
più di un’ora per spiegarmi tutti i meccanismi che alla fine
erano estremamente intuitivi e ha anche insistito per fare lui al posto
mio alcune operazioni di controllo sui testi. L’unico limite sta forse
nella politica dei prestiti un po’ troppo liberale. Non c’è
nessun limite al numero dei volumi che si possono ritirare e li puoi
praticamente tenere quanto ti pare. Nel senso che nessuno te li
richiederà fino a quando un’altra persona non ne avrà
bisogno. In tal caso, non è neanche necessario ripassare per il
filtro della biblioteca dal momento che anche questo passaggio è
informatizzato. È sufficiente premere il pulsante RECALL accanto
al codice del libro e automaticamente un sollecito viene inviato al
ritardatario che è costretto a riportare il testo nel giro di
una settimana.





Quando sono arrivato pensavo di dover inventare qualcosa di empirico,
una piccola ricerca sul campo per giustificare la mia presenza qui a
Los Angeles. Credevo che il lavoro di biblioteca fosse secondario, che
oggi internet ti consente un contatto con il mondo stando
tranquillamente seduto di fronte al computer di casa. Oggi mi sono reso
conto che non è così. Poter accedere anche solo a una di
queste biblioteche è un’esperienza per cui vale la pena partire.
E quando pensi all’Università italiana, a come è
organizzata, a quello che offre ai docenti e agli studenti, qualche
volta, ti viene voglia di non tornare.





 





Mercoledì 10 Marzo – Le falle di Bush








La nomination di Kerry si fa sempre più vicina. Ieri ha
stravinto in Florida, Louisiana, Mississipi e Texas raggiungendo quota
1.816 delegati. Ne servono 2.162 per aggiudicarsi la corsa. Anche
Edwards, malgrado si sia formalmente ritirato dalla competizione,
continua a essere votato dai suoi più entusiasti sostenitori
(così come capita a Dean) e in Louisiana ha raggiunto un
insidioso 16% che gli servirà come accumulazione di credito
nella sua malcelata ambizione di essere scelto come vice di Kerry per
la gara finale contro Bush. Al momento Kerry non intende scoprire le
sue carte anche se alla fine non potrà non prendere in
considerazione l’ampio consenso che Edwards continua a riscuotere tra i
Democrats. Sembra non curarsi delle questioni interne al partito e si
prepara alla battaglia finale cercando di indebolire l’immagine di Bush
(e sai che ci vuole).





Qui emerge la schizofrenia delle campagne elettorali americane. Lo
attacca sulle questioni ambientali, eppure Kerry negli ultimi anni pare
abbia votato contro tutte le proposte di legge sostenute dalle lobby
ambientaliste (che invece provavano una certa simpatia per Edwards); lo
attacca sulla questione sociale, sulla salute e la previdenza, ma va
detto che Kerry, democratico moderato, si è risvegliato paladino
della causa dei lavoratori solo di recente, proprio qui a Los Angeles,
dove è andato a esprimere la propria solidarietà agli
operai in sciopero del settore alimentare, guarda caso, un giorno prima
che la California votasse per le primarie e cinque ore prima che le
Unions raggiungessero un accordo con i vertici aziendali. Lo attacca
infine sulla Guerra all’Iraq, che ha votato, e sul Patriot Act, che ha
sostenuto.





In ogni caso, non è un buon momento per Mr. Bush sotto il tiro
dei media per i risultati disastrosi della sua politica economica e per
le bugie sulle presunte armi di sterminio di massa (pare sia
un’abitudine molto anglosassone). Clinton, che il mondo
ricorderà solo per le sue scappatelle sessuali, in otto anni di
governo è riuscito a creare 22,7 milioni di posti di lavoro,
raggiungendo un livello di occupazione che secondo il Bureau of Labor
Statistics non si registrava dal 1920. Nei tre anni di amministrazione
repubblicana, invece, si è assistito a un calo di occupati pari
a 2,2 milioni di unità. Ma Bush non si cura di questo. Lui
è un War President e non può preoccuparsi dei giovani che
rimangono senza lavoro, degli operai che sono privi di un’adeguata
assistenza sanitaria, del costo della vita che cresce vertiginosamente.
Poi tanto se qualcuno per la disperazione perde la testa e comincia a
sparare a destra e a manca, si risolve tutto arrostendolo sulla sedia
elettrica. E poi il possesso delle armi qui è un diritto
inviolabile.





Lui deve pensare alla Guerra, a salvare il mondo e l’umanità dal
demone terrorista. E che importa se per questo deve dire qualche bugia
a fin di bene. In fondo il nostro caro Bush non è il capo
dell’asse del bene? Questo linguaggio mistico mi fa tornare in mente un
editoriale del Direttore dell’Unità qualche settimana dopo il
terribile attentato dell’11 Settembre. Se non erro erano ancora in
corso i bombardamenti in Afghanistan. Il pezzo cominciava con la
citazione di queste due frasi: 1) "Crediamo in Dio perché con la
grazia di Dio i missili americani falliranno il bersaglio e noi saremo
salvi. Islamici del mondo uniamoci nel nome di Allah potente e
misericordioso"; 2) "Dobbiamo liberare il mondo dal diavolo. Di questo
siamo certi. Né la morte né la vita né gli angeli
né i prìncipi né le cose presenti né le
cose future, nemmeno le vette e gli abissi, ci separeranno da Dio.
Possa Egli benedire e guidare questo paese".





La prima frase era del Mullah Mohammad Omar, capo dei Talebani e
tuttora latitante, la seconda era di George W. Bush, Presidente degli
Stati Uniti d’America. Mi spiegate la differenza? ... CLASH








 





Martedì 9 Marzo 2004 – Iraq democratico?





 Senza nascondere un pizzico di orgoglio, i quotidiani americani
danno risalto alla notizia che i membri dell’Iraqi Governing Council,
sotto la supervisione dei militari americani e inglesi (quindi in
totale serenità) hanno firmato la bozza costituzionale che
dovrebbe aprire la via al processo di democratizzazione del paese. Lo
stesso Bush rivendica la cosa come un proprio risultato che
porterà entro il 30 Giugno alla formazione di un Governo sovrano
deciso dagli elettori. Secondo gli accordi, il nuovo Iraq dovrebbe
assumere una forma di governo repubblicana, federale, democratica e
pluralistica. L’Islam, come religione ufficiale, sarà la
principale fonte ispiratrice del processo legislativo anche se a tutte
le religioni sarà consentito il diritto all’esistenza (almeno
questo). Le lingue ufficiali saranno l’arabo e il kurdo.





Insomma, a breve il mondo potrà contare su un’altra
pseudo-democrazia, dove la garanzia delle procedure non sarà
corrisposta da alcun reale sentimento democratico. Si ripropone
l’atavico dilemma che attanaglia da sempre la comuntà
politologica internazionale. Cos’è in fondo la democrazia, un
insieme di regole o un sistema di valori che esprime quelle regole? La
maggior parte degli studiosi (compreso il compianto Norberto Bobbio)
protende verso la prima delle due affermazioni. Dunque, la democrazia
non sarebbe altro che un sistema in cui il massimo dell’incertezza
decisionale deve essere garantito dal massimo della certezza normativa.
In questo senso, un paese per essere considerato democratico è
sufficiente che garantisca elezioni libere, ricorrenti e competitive.





Ma allora come ci spieghiamo la Russia, formalmente democratica ma
praticamente stretta sotto il polso autoritario di Putin, e a giudzio
dei principali commentatori internazionali? Come ci spieghiamo la
Bolivia e le tante neo-democrazie Centro e Sud Americane, dove gli
oppositori continuano a scomparire senza che nessuno alzi un dito? Come
ci spieghiamo le tante plutocrazie orientali, solo formalmente
democratiche? Come ci spieghiamo realtà tribali come
l’Afghanistan o l’Iraq stesso, dove l’Ayatollah Ali Sistani, capo
spirituale della maggioranza Shiita, già annuncia battaglia
contro la nuova bozza di Costituzione accusata di lasciare un margine
di azione troppo ampio alla minoranza kurda?





Veramente tutti questi paesi possono essere considerati democratici?
È ovvio, senza procedure certe che organizzano un sistema
politico non si può avere democrazia. Ma cos’è che
giustifica le regole. Io cittadino irakeno devo rispettare le nuove
leggi che mi vengono imposte per paura della sanzione o perché
credo siano giuste? Quanto a lungo si può sperare nel rispetto
delle procedure se queste vengono concepite come il prodotto della
pressione esterna da parte di un sistema di potere e culturale
alternativo e potenzialmente antagonista. Il vecchio Rousseau una volta
scrisse che il governante non avrebbe potuto mantenere il proprio
potere a lungo senza trasformare il comando in diritto e l’obbedienza
in dovere. Sul primo punto ci siamo; ma per far sì che ci si
riconosca nell’architettura normativa che rende lecito il comando
occorre una cultura democratica, che in Iraq, come negli altri casi
citati, non esiste.





La democrazia, là dove si è storicamente consolidata, ha
rappresentato il punto di arrivo di un processo secolare di lotte e
rivoluzioni per la conquista dei diritti civili, politici e in ultimo
sociali. In Italia abbiamo avuto movimenti politici e partiti che hanno
materialmente costruito la nostra pur acciaccata democrazia, da un
lato, attraverso la normativizzazione del comportamento politico con la
Costituzione forse più avanzata di tutto l’Occidente;
dall’altro, attraverso un lungo lavoro pedagogico per socializzare i
cittadini alle regole e ai valori della democrazia.





Dove sono, in Iraq o in Afghanistan, il Partito socialista o comunista,
il Partito d’Azione, quello repubblicano; dove sta la stessa Democrazia
cristiana? Dove sono Gramsci, Gobetti, i fratelli Rosselli, Rousseau,
Tocqueville e Montesquieu?





È facile esportare un sistema istituzionale manu militari, meno facile è farlo funzionare.










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