Di Claudio Messora

L’aria fresca di settembre entra dalle finestre aperte. Un temporale indeciso pioviggina qua e là sul fogliame degli alberelli davanti al balcone. Il rombo sordo di qualche timido tuono invoglia a godersi le ombre che i lampioni proiettano tutto intorno, mentre il crepuscolo lentamente cede il passo all’oscurità, e un bimbo piange in lontananza. Ci sono solitudini estremamente piacevoli, cullati dal ticchettio delle gocce d’acqua che picchiettano sulle foglie. Sarebbe il momento perfetto per non pensare a niente: stare lì, semplicemente, come una farfalla nascosta sotto a un filo d’erba, godersi l’eternità di un attimo che non ha inizio e non ha fine.

E invece no: devo proprio accendere il computer e raccontarvi una storia.

Forse il peggiore ribaltone della storia della Repubblica Italiana si è appena consumato. Un avvocato sconosciuto ai più fino all’anno scorso, Giuseppe Conte, dopo avere finto di essere al servizio dei partiti che lo avevano chiamato, d’improvviso ha gettato la maschera, rivelando quali erano i contenuti di tutto quel confabulare conviviale che intratteneva ora con la Merkel, ora con Macron… Si stava preparando a prendere il potere. O meglio, a gestirlo in conto terzi. Si stava apprestando a mettere quella sua faccia vecchia e nuova, all’apparenza innocua e gentile, al servizio delle élite antidemocratiche che rispondono ai grandi detentori di capitali e ai magnate multimiliardari, quelli che giocano con i popoli e con i confini come i ragazzini tirano i dadi a Risiko. Come il più freddo e cinico dei sicari, stava solo attendendo il momento migliore per disfarsi dei suoi ingombranti e indesiderati coinquilini. invisi all’Europa.

Quando Mario Monti, nel 2011, prese il potere dopo la destituzione del governo Berlusconi, l’ultimo a godere – nel bene e nel male – di un consenso popolare, nessuno fiatò. Tranne quei pochi che come me, nella caverna di Platone, non guardavano le ombre proiettate sul muro. La maggior parte di noi non era preparata, era stordita da termini che non comprendeva, come “spread“, e spaventata dai titoli dei giornaloni come “Fate presto!“. In pochi pensavano davvero che un Presidente della Repubblica potesse aver preparato da mesi la cacciata del popolo dal Parlamento (che è la nostra casa), come ha raccontato bene il giornalista economico Alan Friedman.

Quell’inesperienza ci costò cara: pareggio di bilancio, esodati, Fiscal Compact, Mes… Tutti abbiamo pagato, spesso con la vita, il prezzo di quella fiducia mal riposta, di quella fatale ingenuità, di quell’assegno in bianco consegnato ai gabinetti ministeriali e agli oscuri funzionari delle istituzioni. Poi, lentamente, abbiamo iniziato a capire. Quando, nel 2013, il Movimento 5 Stelle prese quasi 9 milioni di voti, ma Giorgio Napolitano (che pur di inattivare il ritorno della volontà popolare si fece eleggere per la seconda volta di seguito, in maniera contraria a qualunque prassi costituzionale) chiamò, una mattina qualunque, il Popolo delle Libertà e il Partito Democratico al Quirinale, escludendo Vito Crimi e Roberta Lombardi, per consegnare al paese un Governo delle “larghe intese” (cioè dei cattivi che si coalizzano per neutralizzare i buoni), escludendo 9 milioni di persone da qualunque incarico istituzionale, iniziammo finalmente a capire. Eravamo ancora increduli, certo, con gli occhi tutti stropicciati, come chi li riapre dopo un lungo sonno, ma la consapevolezza era una luce che stava lentamente tornando. Il susseguirsi poi a Palazzo Chigi di Enrico Letta, di Matteo Renzi, di Paolo Gentiloni… di esecutivi cioè decisi tutti a Bruxelles e mai nelle urne, portò a termine il risveglio.

Così, appena ci fu concesso di tornare a votare, questa volta ci sembrò di non sbagliare mandando a Roma quei partiti e quei movimenti che a noi sembrava potessero meglio rappresentare il nostro disperato bisogno di riscossa. Come un naufrago si illumina di speranza quando gli pare di scorgere all’orizzonte finalmente la terra, così sollevammo il capo in direzione di piazza Montecitorio (e anche di viale Mazzini), pronti a riconoscere i segnali di un’inversione di rotta della politica, che tornasse finalmente ad occuparsi di noi, i molti, i deboli, e non degli interessi di loro, i pochi, i forti.

Non ci volle però tanto perché ci rendessimo conto che anche questa flebile speranza era destinata a ridimensionarsi. Il Governo naufragò, da un lato soffocato da un contratto di una tale certosina minuziosità da manifestare una evidente, innegabile sfiducia a monte tra le due componenti populiste, dall’altro ostruito dal Cavallo di Troia che il cosiddetto “Partito del Quirinale” aveva scientemente infiltrato nelle cariche ministeriali, a cominciare da quel Tria che non era certo espressione di chi aveva vinto le elezioni, ma al contrario di chi le aveva perse, e tuttavia conservava sorprendentemente intatto lo stesso potere. Non è forse questa la più chiara delle rappresentazioni plastiche di quello che si intende per Deep State?

E come nel 2011, anzi forse peggio, ci siamo resi conto che tutto era già pronto, se è vero come è vero che prima ancora del giuramento di un nuovo Governo realizzato a tempo record in soli due giorni (tra incarico a Conte per un mandato esplorativo e insedimento), le cancellerie già prendevano accordi per preparare l’ascesa a Bruxelles del presidente del Partito Democratico, Paolo Gentiloni. Impossibile una tale celerità senza che tutto fosse già stato scritto da tempo.

Così, quel disagio che in noi serpeggiava ormai da anni, quella insostenibile sensazione di contare poco, addirittura niente, ha finito con il tramutarsi in una certezza sempre più indiscutibile. E quel famoso detto attribuito a Mark Twain, “se votare servisse a qualcosa non ce lo lascerebbero fare“, è passato dall’essere una citazione distratta, da snocciolare sui social per fare conversazione (un po’ come “eh, signora mia, non ci sono più le mezze stagioni“), al rappresentare una convinzione profonda, quasi fosse il primo degli articoli di una anti-Costituzione che governa l’epoca della post-democrazia.

A distanza di 8 anni dal giorno in cui Mario Monti si insediò nel palazzo dove risiede il Governo, oggi non siamo più gli sprovveduti che eravamo allora, e lo dimostra il momento dell’arrivo di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, oggi, che ha ricevuto un’accoglienza seconda solo al giorno del lancio delle monetine a Bettino Craxi. Se sulla piattaforma Rousseau un apparente 80% avrebbe votato a favore di un Governo Conte Bis, non si può dire lo stesso degli italiani, che su tutti i social, ma soprattutto oggi all’ingresso del Palazzo, lo hanno accolto al grido di “Buffone! Buffone!” ed “Elezioni subito!“. Qui il video che lo testimonia.

Forse pensate che questo possa essere ben poca cosa, rispetto al male che ci viene inflitto. Pensate cioè forse che non serva a niente. E allora vi racconto la storia che volevo raccontarvi all’inizio.

C’era un tempo in cui dentro a quei palazzi lavoravo anche io. Mi avevano chiesto di curare la comunicazione di un MoVimento che prometteva di restituire la sovranità ai cittadini, facendoli entrare nelle istituzioni. Avevo accettato, perché ci credevo e perché volevo guardarci dentro, a quella scatoletta di tonno.

Ero a Montecitorio anche quel 20 aprile 2013, seduto a una scrivania con le finestre aperte, quando il Partito Democratico si rifiutò di votare Rodotà come nuovo Presidente della Repubblica, e senza la minima vergogna fece rieleggere per un secondo mandato Giorgio Napolitano. Quel Movimento 5 Stelle, il “mio” Movimento, disse senza mezzi termini che si trattava di un golpe. Sul blog di Grillo uscì un post. Diceva: “Ci sono momenti decisivi nella storia di una Nazione. Oggi, 20 aprile 2013, è uno di quelli. È in atto un colpo di Stato. Il M5S da solo non può però cambiare il Paese. È necessaria una mobilitazione popolare. Io sto andando a Roma in camper, sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese“.

Grillo non venne mai, sconsigliato sulla strada per Roma da una telefonata della Digos, che temeva morti e feriti. Ma nonostante la manifestazione fosse stata annullata, molti cittadini – non tanti, forse qualche migliaio – iniziarono ad affluire lo stesso tutti intorno a Montecitorio.

Dovete sapere che quella piazza sembra grande, ma non lo è poi così tanto, e soprattutto è circondata da palazzi che si affacciano su strette viuzze, quelle che percorrono i parlamentari, ma anche i ministri e i funzionari, quando entrano ed escono dai loro uffici.

Ero alla mia scrivania, dicevo, quando dalle finestre aperte iniziò a percepirsi qualcosa che non era il consueto brusio del traffico e del vociare dei passanti. Era qualcosa di diverso, di inaspettato. Come un rombo sordo, un boato latente, il lamento di un gigante distante, o l’eco della rabbia di eserciti lontani che avanzavano inesorabili.

Un’occhiata fuori dalle strette finestrelle del palazzo dei gruppi parlamentari e fu immediatamente chiaro di cosa si trattasse: un fiume di persone che, viste tutte insieme, perdevano i tratti distintivi dell’individualità e acquisivano quelli di un nuovo organismo forte, inarrestabile e minaccioso, una unica e indistinta unità che stava riempiendo ogni piazza ed ogni strada, e confluiva intorno alla Camera e a Palazzo Chigi, circondandoli da ogni lato. E più persone arrivavano, e più sembravano un letto di lava che si spostava lento ma che prendeva ineluttabilmente il controllo di ogni cosa.

Lo ricordo ancora, quel suono.. l’urlo di un mostro ferito, cento stadi che levano i loro cori al cielo, ma chiusi in una piccola stanza. O meglio, tutto intorno, che pare che possano entrare da un momento all’altro. Noi eravamo quelli buoni, ma al cospetto di quella forza della natura.. il popolo!, chiunque avrebbe avuto paura. Ricordo di averne avuta. Una paura mescolata al rispetto per ciò che è più grande di te e di fronte al quale ti puoi solo inchinare.

E se quello era lo stato d’animo di chi quell’adunanza l’aveva invocata, potete immaginare quale e quanto potesse essere il terrore di chi rappresentava il nemico, l’obiettivo di quella immensa folla che assediava il Palazzo. Capii in un istante come doveva essersi sentita Maria Antonietta quando la furia di sua Maestà il Popolo si riversò su di lei. Noi no, ma vidi spocchiosi e insolenti, arroganti quanto importanti personaggi di prim’ordine del dibattito politico nazionale, le prime file dei partiti, defilarsi da uscite secondarie, poco note, come detenuti alla disperata ricerca di una strada per evadere. Ricordo Gasparri (l’uomo che non si faceva scrupolo di usare gestualità e termini sconci e irrispettosi per riferirsi ai suoi avversari e ai cittadini che li sostenevano) uscire dalla porta principale, paralizzarsi e tornare indietro con la segreta speranza di non essere stato riconosciuto, per poi tentare la sortita da un’uscita secondaria, scortato dalla polizia. Ricordo tutti sull’attenti, dalla grande stampa sempre prona ai poteri forti, alle alte cariche istituzionali che improvvisamente invitavano alla distensione e tentavano improbabili mediazioni.

Ricordo la decisione di uscire, insieme a Vito Crimi, per tentare di parlare alle persone e scongiurare un’ulteriore degenerazione della protesta. Attraversammo la soglia dell’ingresso della Camera dei Deputati, in piazza Montecitorio, ed io personalmente non ero certo di cosa sarebbe accaduto, perché quando si scatenano forze primordiali – e il popolo che scende compatto in piazza lo è – il rischio che diventi impossibile contenerle esiste sempre. Ma lì accadde il miracolo. Una di quelle scene che vedi solo nei film, quando all’improvviso il mondo che prima ti era ostile e minaccioso compie una trasformazione inattesa e inizia a prendere le tue parti, al termine di una lunga ed estenuante lotta per il bene e per la verità.

Quando ci vide uscire da quella porta, la folla iniziò ad applaudire. E insieme agli applausi iniziarono i cori di incoraggiamento, i tributi di riconoscenza e poi, quando ci avvicinammo increduli, le strette di mano dietro alle transenne, le pacche sulle spalle, le foto, gli sfoghi festanti di chi riconosceva davanti a sé qualcuno che stava lottando in difesa dei suoi diritti. Era un trionfo, un grande, immenso abbraccio del gigante venuto da lontano, o apparso all’improvviso come qualcuno che è sempre stato lì, e ovunque, immanente, mimetizzato nelle statue, nelle strade, nelle case e nelle cose che rappresentano i beni pubblici, emerso all’improvviso come un performer che esce da un quadro vivo, come se il mondo avesse svelato la sua forma umana e si fosse fatto carne, cuore, sangue.

Cosa significa, tutto questo? Cosa sto tentando di dirvi?

Sto tentando di mettervi coraggio. Vi posso garantire che ogni volta che pensate che i vostri diritti siano stati calpestati, non dovete rassegnarvi come se in fondo non ci fosse più nulla da fare, trovandovi di fronte a un potere troppo grande e troppo forte per voi. É vero, si tratta di un grande potere. Ma ricordate: nessun potere è mai abbastanza grande da non temere il popolo su cui viene esercitato, e quando lo schiaccia è solo perché il popolo rinuncia alla sua facoltà di sollevarsi, sancita dai principi eterni, costitutivi e inalienabili della democrazia stessa, che affermano che quando il popolo non si sente più rappresentato dal potere che lo amministra, e ritiene che non vi sia più nessun altro modo “costituito” per sostituire questo potere, ovvero per rientrare in possesso dei suoi diritti e della sua piena sovranità, allora la rivoluzione è un atto legittimo. Non lo affermo io, ma viene insegnato nelle prime lezioni universitarie del corso di Diritto Pubblico della Facoltà di Scienze Politiche.

Ma c’è di più: senza bisogno di arrivare alla rivoluzione, basterebbe che in piazza il popolo scendesse più di frequente. Basterebbe che circondasse pacificamente i palazzi del potere, perché questo potere poi necessariamente si sciolga come neve al sole, o quanto meno torni sui propri passi e faccia concessioni che diversamente considereremmo impossibili. I grandi predatori possono ghermire le loro prede solo perché il branco, non credendo nelle proprie possibilità, nella propria sconfinata forza che deriva dal muoversi all’unisono, una sola mente, un solo cuore, li teme e si limita a scappare, disperdendosi, isolandosi e facendo così il loro gioco: nessun leone attaccherebbe mai una mandria inferocita che lo carica. Nessuno. Allo stesso modo, se il popolo fosse consapevole della sua grandezza, della sua forza, della sua potenza, l’unica cosa che avrebbe da temere sarebbe se stesso.

Quando pensate di essere stati traditi, quando pensate che per l’ennesima volta vi stanno rubando i vostri diritti, andate a Roma, circondate i palazzi e riprendeteveli. Non ci sarà bisogno di nessuna violenza, né tantomeno dovrete usarla. Dovrete solo farvi vedere, come il papà guarda il figlio con le mani nella marmellata e il figlio rimette il barattolino a posto. Basterà guardarli dritti negli occhi, in tanti. E ve li ridaranno.

p.s. nel frattempo, mentre scrivevo, il temporale oltre al balcone si è fatto molto più intenso. Adesso i tuoni forti, rimbombano ovunque e la pioggia è sferzante

Fonte Byoblu