La paura come sistema di governo e una pianificazione dell’emergenza finalizzata solo a tutelare chi dovrà dirigerla si stanno rivelando in tutta la loro gravità in questi giorni nei Campi flegrei e a Napoli dove, da decenni, si pretende di affrontare una emergenza (quale bradisismo e conseguenti terremoti che prefigurano una situazione di elevata indeterminatezza) esclusivamente con uno (sgangherato) Piano di evacuazione. Il risultato è un continuo stato di ansia (che potrebbe determinare, come è stato nell’emergenza bradisismo 1983, l’insorgere di numerose malattie psicosomatiche) e produrre lo scatenamento del panico, come quello verificatosi lo scorso 2 ottobre, che per mera fortuna non ha determinato morti e feriti gravi. Ma potrebbe esserci una pianificazione e gestione dell’emergenza diversa da quella attuale? Una pianificazione e gestione simile a quella di non pochi paesi caratterizzati da rischio vulcanico. Che sia vicina agli interessi della gente e non serva soltanto ad incensare istituzioni quali Dipartimento alla protezione civile, INGV, Regione Campania... Che non serva soltanto ad alimentare un fiume di inutili consulenze. Nel testo che segue un lungo documento redatto da Francesco Santoianni che ha lavorato per quarant’anni nella protezione civile (occupandosi di Pianificazione dell’emergenza e comunicazione alla popolazione in situazioni di crisi) e che dal 1996 sta chiedendo per l’area vesuviana e per i Campi flegrei un piano di emergenza degno di questo nome.

di Francesco Santoianni

Un milione di morti se si sveglia il Vesuvio!”, “Campi Flegrei: una imminente catastrofe?”, “Napoli: nella morsa di due vulcani”… sono questi i titoli che periodicamente troneggiano sui giornali e TV per denunciare un rischio che non ha eguali al mondo. Nonostante ciò, da 23 anni (ventitre anni!) un reale (ma su questo termine ci ritorniamo) Piano di Protezione civile per l’area vesuviana e per l’area flegrea attende ancora di essere redatto, mentre per quello per l’isola di Ischia, siamo ancora all’Anno Zero.

 Prima di addentrarci sui perché di questa situazione, vale la pena di scorrere l’elenco (parziale) delle deresponsabilizzanti commissioni e sotto-commissioni, studi scientifici, roboanti annunci di imminenti piani di emergenza… che hanno costellato gli ultimi decenni e che sono sostanzialmente serviti ad un rimpallo di responsabilità conclusosi con lo scaricabarile sui Comuni.

– 1984, marzo La prefettura di Napoli dà alle stampe l’opuscolo “Pianificazione dell’emergenza nell’area vesuviana in caso di allarme vulcanico”. Tra le tante bizzarrie del documento (vedi dopo) una si conquista le pagine dei giornali: i sinistrati dei comuni colpiti dall’eruzione del Vesuvio sarebbero stati alloggiati “negli alberghi dislocati possibilmente nei comuni dell’area vesuviana meno colpiti dall’evento eruttivo”. L’opuscolo non sarà mai distribuito alla popolazione.

– 1986, 15 febbraio. Il Prefetto di Napoli, in una affollata conferenza stampa, sollecita il Dipartimento della Protezione Civile a redigere un piano di emergenza vulcanica.

– 1988, 27 aprile. Viene istituita la “Commissione tecnico-scientifica a base interdisciplinare per lo studio dei problemi relativi alla individuazione dei rischi che comportano misure di protezione civile per i vari settori di rischio – settore rischio vulcanico”

– 1988, 30 giugno. Viene istituita la “Commissione incaricata di stabilire le linee guida per la valutazione del rischio connesso ad eruzione nell’area vesuviana”.

– 1990, maggio: Il Gruppo Nazionale per la Vulcanologia (GNV) consegna al Dipartimento della Protezione Civile il ponderoso studio “Scenario eruttivo del Vesuvio”, sollecitandolo a programmare la stesura di un Piano di emergenza.

– 1992, novembre. Secondo articoli di stampa, la “Commissione incaricata di stabilire le linee guida per la valutazione del rischio connesso ad eruzione nell’area vesuviana” avrebbe consegnato al Dipartimento della Protezione civile una relazione conclusiva che verrebbe tenuta segreta, nonostante le numerose richieste di visione da parte di amministrazioni comunali dell’area vesuviana.

– 1993, giugno. Sulla scorta dei lavori della precedente Commissione il Sottosegretario alla Protezione Civile, Vito Riggio, istituisce la ciclopica (64 membri) “Commissione incaricata di provvedere all’elaborazione di un Piano di emergenza dell’area vesuviana”. La commissione partorisce quattro sottocommissioni che, a loro volta, producono innumerevoli Gruppi di Lavoro.

– 1995, 25 settembre. Franco Barberi, viceministro alla Protezione Civile presenta il rapporto finale della Commissione: consiste nel documento “Pianificazione nazionale di emergenza dell’area vesuviana”, 31 Allegati e 22 Documenti Funzione.

– 1995, ottobre. Undici sindaci dell’area vesuviana protestano contro il documento della Commissione e l’esautoramento delle comunità locali nella redazione di questo, costituendosi in Coordinamento dei Comuni vesuviani

– 1996, 1° febbraio. Con Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 247 la Commissione del 1993 viene perpetuata trasformandola nella “Commissione incaricata di provvedere all’aggiornamento dei piani di emergenza dell’area vesuviana e flegrea connessi a situazioni di emergenza derivanti dal rischio vulcanico”. Questa nuova Commissione, dopo aver germogliato, come la precedente, una serie di sottocommissioni produce tre documenti (“Progetto per la pianificazione dei flussi di allontanamento dei 18 comuni dell’area vesuviana in situazione di emergenza. Parte 1: studio ed elaborazione viabilità intercomunale”; “Aggiunte e varianti alle parti A3, B e C2 della pianificazione nazionale dell’emergenza dell’area vesuviana 2001”; “Elementi di base per la pianificazione nazionale d’emergenza dell’area flegrea”).

– 2001, 20 marzo. Viene presentato alla Prefettura di Napoli il documento “Elementi di base per la pianificazione nazionale di emergenza dell’area flegrea”.

– 2001, agosto. Viene istituita una terza Commissione, che produce altri 5 Gruppi di Lavoro (Pianificazione dell’Emergenza; Attivazione della Struttura per funzioni di supporto; Potenziamento del Sistema Informativo Territoriale; Pianificazione Territoriale; Definizione della Pericolosità Vulcanica, Sorveglianza e Vulnerabilità; Educazione ed Informazione).

– 2002, 25 giugno. Con Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 1828 viene ricostituita una nuova “Commissione incaricata di provvedere all’aggiornamento dei piani di emergenza dell’area vesuviana e flegrea connessi a situazioni di emergenza derivanti dal rischio vulcanico” Secondo articoli giornalistici (mai pubblicamente smentiti), questa Commissione si è riunita due volte in sette anni.

– 2005, 8 settembre. Dichiarazione di Guido Bertolaso, Capo del Dipartimento della Protezione Civile “Per la fine dell’anno sarà pronto il nuovo Piano Vesuvio”

– 2007, 23 aprile. Guido Bertolaso, annuncia una “nuova strategia” che sovrintenderà al prossimo Piano di emergenza.

-2009, febbraio. Viene costituito il “Gruppo di lavoro incaricato della definizione dello scenario di riferimento vulcanico per l’area flegrea”

-2010, 31 marzo. La “Commissione nazionale incaricata di provvedere all’aggiornamento dei piani di emergenza dell’area vesuviana e flegrea per il rischio vulcanico” consegna il documento “Scenari Eruttivi e Livelli di Allerta per il Vesuvio”

– 2011, 18 febbraio. Il Capo del Dipartimento della Protezione civile, Franco Gabrielli annuncia la creazione di una commissione mista Dipartimento – Regione Campania che dovrebbe varare “al più presto” il “Piano di emergenza per l’area vesuviana e flegrea”.

– 2011, 14 settembre. Dieci cittadini presentano, alla Procura della Repubblica di Torre Annunziata, una denuncia per l’assenza di un Piano di emergenza per l’area vesuviana.

– 2013, 11 gennaio. A margine di una ennesima riunione per presentare un ennesimo studio scientifico sul “rischio Vesuvio”, Franco Gabrielli, Capo del Dipartimento della Protezione Civile, dalle colonne de Il Mattino, così risponde a chi gli chiede perché ancora non c’è un Piano nazionale: «Il piano nazionale non è altro che la risultanza dei piani di settore che ciascuna istituzione deve fare. È inutile stare nell’attesa messianica di un piano nazionale da parte del governo centrale.»

– 2013, 3 giugno. Dichiarazione di Gabrielli a Il Mattino “Presto il nuovo piano per i Campi Flegrei”

– 2013, 26 ottobre. Dichiarazione di Gabrielli a Repubblica “E’ problematico per noi avere una seria pianificazione sul versante del Vesuvio che è un vulcano attivo, purtroppo su quei territori penso a quelli dei Campi Flegrei riscontriamo una consapevolezza che non è all’altezza della situazione”.

– 2013, 30 ottobre. Dodici cittadini presentano alla Corte europea per i Diritti dell’Uomo una denuncia contro lo Stato italiano per la mancanza di un efficiente Piano di emergenza per l’area flegrea e vesuviana.

– 2014, 6 febbraio. Finalmente è convocata la Conferenza unificata Stato-Regioni dedicata al rischio Vesuvio dalla quale scaturisce dapprima la “Intesa sullo schema di Direttiva recante Disposizioni per l’aggiornamento della pianificazione di emergenza per il rischio vulcanico del Vesuvio” e poi la Direttiva del presidente del Consiglio dei ministri 16 novembre 2015 “Disposizioni per l’aggiornamento della pianificazione di emergenza per il rischio vulcanico del Vesuvio per le aree soggette a ricaduta di materiale piroclastico – Zona gialla.”

– 2016, 12 ottobre. Il Presidente della Giunta regionale della Campania Vincenzo De Luca annuncia che Il Piano di emergenza per l’area vesuviana sarà pronto al più presto.

2017, 30 ottobre. Incontro del Dipartimento della Protezione civile con i sindaci dell’area vesuviana: “Siamo al lavoro conclusivo per la messa a punto del piano di evacuazione…”

2018, 18 aprile. Revocata – dopo le proteste di associazioni animaliste – la disposizione, inserita nella bozza di Piano, che prevedeva la soppressione degli animali da compagnia in caso di evacuazione dell’area vesuviana.

Ma esiste un responsabile di questa situazione? La risposta è no. Perché, in un’Italia dove per ogni alluvione, frana o altre calamità viene nominato un Commissario Straordinario – con il relativo codazzo di tecnici, impiegati e portaborse – per il Piano Vesuvio e Campi Flegrei – incredibile a dirsi – non è mai stato identificato o creato un ufficio (o una precisa struttura tecnico-amministrativa) delegato a realizzare un Piano di emergenza vulcanica con tempi e modalità certi. Nulla. Solo funzionari che si occupano di Piano Vesuvio o Piano Campi flegrei tra una pratica e un’altra, commissioni che si riuniscono quando possono, studi scientifici, bozze di Piano, convegni, “esercitazioni”, consulenti, annunci… e un rimpallo di responsabilità tra un ente e l’altro che finisce con lo scaricabarile sui sindaci.

Ma perché questa surreale situazione? Perché tanti, pur validi, dipendenti pubblici che credevano di poter realizzare un Piano di emergenza degno di questo nome, hanno gettato la spugna, scaricando su qualche altro un compito che essi erano impossibilitati a realizzare?

Una complicata gestione dell’emergenza

Il rischio vulcanico – a differenza, ad esempio, del rischio sismico – è caratterizzato da una elevata indeterminatezza. Un’eruzione, infatti, viene preannunciata da tutta una serie di fenomeni (terremoti, bradisismo, aumento delle fumarole, presenza in queste di particolari elementi…) che DOPO il verificarsi dell’eruzione vengono battezzati “eventi premonitori”. Ma questi fenomeni non necessariamente sono seguiti da un’eruzione. E, allora che fare in una situazione (quale, ad esempio quella che caratterizzò l’area flegrea nel 1982-83) nella quale non si sa se alcune anomalie registrate dai sensori o alcuni fenomeni avvertiti dalla popolazione potrebbero evolvere verso un’eruzione o rientrare senza fare danni? Quali misure adottare? Quali indicazioni dare alla popolazione?

Di fronte ad una situazione di tale indeterminatezza, una direttiva, certamente comprensibile (ma, come si vedrà, sbagliata), è ordinare “a scopo precauzionale, l’evacuazione di tutta la popolazione dall’area”. (VEDI NOTA 1) [1] Intanto, per quanto tempo? Una situazione di allarme vulcanico può protrarsi per anni e i danni economici e sociali di una evacuazione possono essere altissimi. Nel caso del bradisismo di Pozzuoli del 1982-83, ad esempio, se fosse stata applicata l’attuale metodologia che sovraintende ai piani di emergenza vulcanica, l’allontanamento obbligatorio di tutta popolazione flegrea sarebbe durato molti mesi. Con le conseguenze che è facile immaginare.

Intanto, un “inutile” ordine di evacuazione rischia di ingenerare tra la popolazione sfiducia nelle strutture preposte alla sorveglianza vulcanica e alla protezione civile, soprattutto considerando che una crisi vulcanica attrae in zona innumerevoli vulcanologi, alcuni dei quali possono essere tentati di attirare su di sé l’attenzione dei mass media con dichiarazioni in plateale contrasto con quelle della struttura ufficialmente preposta alla sorveglianza. In alcuni casi, questa sfiducia può determinare una situazione che nel Disaster Management viene etichettata come WWS (Wolf Warning Syndrome) o “Al lupo…, al lupo”: di fronte a ripetuti falsi allarmi, il generale sarcasmo e la perdita di credibilità delle strutture preposte all’emergenza genera nella popolazione un senso di irresponsabile sicurezza che può essere foriera di gravi conseguenze, soprattutto durante una operazione che caratterizza molte emergenze vulcaniche: la rimozione del fallout piroclastico.

Molte eruzioni vulcaniche, infatti, lanciano nell’atmosfera grandi quantità di fallout piroclastico (la cosiddetta “pioggia di ceneri vulcaniche”) che, a seconda dell’intensità dei venti, ricadono in un’area più o meno vasta; le conseguenze di questa pioggia, se non si interviene in tempo, possono essere disastrose in quanto il fallout piroclastico può appiccare incendi e accumularsi sui tetti delle abitazioni provocandone il crollo. Non a caso, l’atteggiamento di molte popolazioni abitanti le aree vulcaniche (anche di quella del Vesuvio, come vedremo) è stato quello di RESTARE IN ZONA, durante alcune fasi dell’eruzione, per proteggere le proprie abitazioni spalando la cenere che il vulcano accumula sui tetti. (VEDI NOTA 2) [2] Ovviamente, questo insostituibile impegno delle popolazioni non è privo di rischi in quanto l’eruzione può evolversi, anche in breve tempo, in fenomeni immediatamente pericolosi per le persone, quali ad esempio, nubi ardenti (surge) o rovinose valanghe (lahar).

Per tale motivo, all’estero, molti piani per emergenza vulcanica garantiscono un’immediata evacuazione delle persone che decidono di restare sul posto durante l’eruzione; contestualmente questi piani sono articolati in modo da garantire che a restare in zona sia soltanto una fascia di popolazione perfettamente “abile”; in grado, cioè, di essere allontanata nella massima celerità. Anche per questo, questi piani prevedono un allontanamento progressivo di fasce di popolazione a vulnerabilità decrescente. Proclamato l’allerta vulcanica, cioè, si allontanano dapprima le persone gravemente inabili (handicappati gravi, detenuti) poi, se è il caso, si chiudono alcuni reparti ospedalieri che ospitano malati difficilmente trasportabili e si svuotano gli ospizi; se la situazione peggiora ulteriormente si chiudono tutte le strutture ospedaliere; poi si allontanano i bambini con le madri, si chiudono le scuole e, infine, se è il caso, si ordina l’evacuazione della popolazione rimasta sul posto.

Va da se che questo modello di gestione dell’emergenza prevede l’assunzione di precise responsabilità, sia da parte delle strutture preposte alla sorveglianza vulcanica sia da parte delle strutture di protezione civile per le quali sarebbe, certamente, più “conveniente” “lavarsi le mani” ordinando, già all’inizio della fase di allarme vulcanico, una immediata evacuazione di tutta la popolazione. Sarebbe comunque, come già detto, una scelta non solo sbagliata, ma pericolosa per l’incolumità delle popolazioni, come dimostra la “pianificazione dell’emergenza vulcanica” che era stata predisposta per l’area flegrea.

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