di Lorenzo Piazza

Oltre un mese fa mi ha chiamato la mia amica Monica, tutta allarmata per chiedermi se sapessi qualcosa dei piani del governo sulla privatizzazione dell’acqua. Lei, che vive in provincia d’Imperia e collabora con il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua, un’entità che riunisce comitati territoriali, organizzazioni sociali, sindacati, associazioni e singoli cittadini che si batte da anni per l'acqua bene comune, voleva scrivere una lettera aperta ai sindaci della sua Provincia. Purtroppo non ne sapevo assolutamente nulla. Del resto, sono talmente tanti i temi economici, geopolitici, sanitari che meriterebbero attenzione, che è impossibile approfondirli tutti. Rimasi tuttavia molto colpito dalla preoccupazione che traspariva dalle parole di Monica e le promisi di informarmi.

Ciò che ignoravo, era che è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 5 agosto 2022, n. 118. Questa, nata come disegno di legge (DDL) annuale per il mercato e la concorrenza 2021 del dimissionario Governo Draghi, passata sotto silenzio dei media mainstream, distratti dal Covid, dalla guerra in Ucraina e dal calciomercato, ha purtroppo un'importanza fondamentale per tutti i cittadini e ricade nella sfera di competenza delle amministrazioni locali. A votarla sono stati quasi tutti coloro che hanno bussato alla nostra porta per chiedere il voto (Conte, Bersani, Letta, Renzi, Salvini, Berlusconi), a dimostrazione del fatto che i leader, al di là delle scaramucce da salotto televisivo, spesso mostrano comunione d'intenti.

La legge, e in particolare l'art. 8, dicendo di occuparsi di "riordino della materia dei servizi pubblici locali di rilevanza economica" (8.1), impone in realtà ai comuni la svendita sul mercato di tutti i servizi pubblici. E lo fa in nome della "tutela della concorrenza" finalizzata ad "assicurare la soddisfazione delle esigenze delle comunità locali" (8.2.a), nonché ad ottenere "qualità e efficienza" da raggiungere col "superamento dei regimi di esclusiva" che non sarebbero indispensabili (8.2.d), prevedendo tra l’altro l’introduzione di incentivi e meccanismi di premialità (8.2.e).

Tutto ciò servirebbe ovviamente ad incentivare gli investimenti privati e, contemporaneamente, metterebbe pressione agli enti locali che osassero perseverare sulla strada dell’investimento pubblico.

Il punto 8.2.g, infatti, recita: "previsione di una motivazione qualificata, da parte dell'ente locale, per la scelta o la conferma del modello dell'autoproduzione ai fini di un'efficiente gestione del servizio, che dia conto delle ragioni che, sul piano economico e sociale, con riguardo agli investimenti, alla qualità del servizio, ai costi dei servizi per gli utenti, nonché agli obiettivi di universalità, socialità, tutela ambientale e accessibilità dei servizi, giustificano tale decisione, anche in relazione ai risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in autoproduzione".

In tal modo si vuole rendere difficile ai comuni mantenere pubblico il servizio idrico: se i sindaci vorranno affidare l’acqua ai fondi d’investimento, o alle multinazionali estere, non dovranno fornire motivazioni; viceversa, sarà necessario produrre una solida motivazione e stabilire a priori la convenienza della gestione pubblica su quella privata.

Ma con quale giustificazione hanno preso tale decisione?

In previsione di future emergenze climatiche e siccità (e questa estate ne abbiamo avuto un assaggio), la legge sarà utilizzata per giustificare misure di razionamento dell’acqua, o addirittura divieti. Senza dimenticare lo spreco a cui assistiamo in Italia (nel 2020, secondo ARERA, il 43,7% dell’acqua è stata dispersa dalle tubature), che il pubblico non è mai riuscito a risolvere.

Secondo il deus ex machina chiamato a salvare l’Italia, per poi abbandonarla a nuove elezioni da organizzare in estate ad un anno dalla fine del precedente mandato parlamentare, la privatizzazione è la soluzione. E se lo dice lui, che di privatizzazioni se ne intende, bisogna credergli. Ma non è da solo: ad esempio l’Istituto Bruno Leoni, adepto del neoliberismo, sull’acqua la pensa così: “se una risorsa è scarsa, le va dato un prezzo. L’acqua può essere allocata solo in due modi: secondo l’arbitrio del sovrano o secondo la logica del mercato”. Utilizzando come pretesto il periodo di siccità e l’ipotesi di razionamento, l’Istituto sostiene che l’unico modo per gestire prolungati periodi di emergenza idrica sia quello di affidare l’acqua al mercato privato. "Quello che manca in Italia è un sistema dei prezzi che dia conto della scarsità crescente dell’acqua e spinga a utilizzarla negli usi con maggiore valore sociale".

E quali sono questi usi con maggiore valore sociale? Nel momento in cui, data la scarsità dell’offerta di fronte ad un’elevata domanda, i prezzi schizzerebbero alle stelle, l’acqua per riempire la piscina del ricco di turno e che se la può permettere avrebbe un valore sociale? Per il ricco certamente. E anche per la società che avrà la ventura di accaparrarsi la concessione che, quotata in borsa, potrà garantire ricchi dividendi ai suoi azionisti.

Magari nonostante un forte indebitamento, come quello di IREN che ha chiuso il bilancio 2020 con una posizione finanziaria netta (PFN) negativa di quasi 3 miliardi di euro.

Il provvedimento sulla concorrenza è semplicemente orribile. Disegna un settore pubblico a cui è praticamente vietato gestire persino i monopoli naturali e il cui compito deve essere esclusivamente quello di stabilire le regole e controllare: poco importa che l’esperienza abbia dimostrato chiaramente che questo surrogato del mercato non abbia funzionato quasi mai, sia costoso e possa portare a tragedie come quella del Ponte Morandi (la cui colpa paradossalmente ricade sullo Stato reo di non aver controllato).

L’affidamento ai privati della gestione di servizi tradizionalmente forniti dal settore pubblico, secondo i cantori del neoliberismo, è motivato essenzialmente da due fattori: il primo è il pregiudizio secondo cui il privato è sempre più efficiente, veloce e innovativo; il secondo è la pretesa di introdurre la concorrenza anche in quei casi in cui la concorrenza è di fatto impossibile, come per i monopoli naturali.

Peccato che il privato, mentre lo Stato dovrebbe solo coprire i costi, punta a realizzare un profitto, spesso a spese dei lavoratori, spremendoli di più e dando loro meno garanzie. Per i privati il “peso” della sicurezza dipende semplicemente dai costi.
E lo Stato che dovrebbe controllare, si scontra coi migliori studi legali che stipulano i contratti per le grandi imprese, allo scopo di metterle al riparo da ogni possibile imprevisto.
Il quadro complessivo è semplicemente sconfortante: appaltare ai privati i servizi pubblici ha costi maggiori, a fronti di controlli solo teorici e, in caso di mala gestione, la revoca delle concessioni è quasi impossibile. Proprio questo mostro è il sogno di tutti i capitalisti che potrebbero operare senza concorrenza.

Per ora Draghi vuole far finire in mano ai privati la gestione del servizio idrico, non la proprietà di sorgenti e acquedotti, che appartengono al demanio. Oggi. Un domani si vedrà… già che gli enti locali hanno passato ai privati la gestione del servizio, magari possono anche cedere reti e impianti per fare cassa… Inorridisco!

Eppure questa faccenda della privatizzazione dovrebbe ricordarvi qualcosa. Ah sì, c’è stato un referendum abrogativo nel 2011, che ha pure raggiunto il quorum, segno che interessava agli italiani. E come avevano votato? Oltre il 95% ha voluto fortemente abrogare le seguenti due norme:

Quesito 1 - referendum sulla privatizzazione del servizio: gli Italiani hanno scelto che gli enti locali saranno liberi di scegliere il modo di affidamento dal servizio: a privati, a società miste (senza limiti minimi di partecipazione dei privati) oppure a società pubbliche, affermando quindi che la gestione pubblica dei servizi ha ancora un ruolo positivo per il suo interesse, contraddicendo il pregiudizio che “privato sia meglio”.

Quesito 2 - referendum sulla tariffa per l’erogazione del servizio idrico: anche in questo caso, gli elettori hanno sconfessato che le tariffe debbano dipendere dal profitto del gestore del servizio, ma solo dalla copertura dei costi: la riaffermazione dell’utilità sociale della gestione pubblica dei servizi, che prevale sul lucro che si può trarre da un’iniziativa imprenditoriale.

La volontà popolare era in sostanza che le istituzioni preposte affidassero il servizio idrico ad una società a totale capitale pubblico. La realtà va invece nella direzione opposta: nel dicembre 2020 l’acqua è stata quotata in borsa e oggi si ripropone ancora la sua privatizzazione. Ciò comporterebbe l’assoggettamento di un bene primario, vitale, alle logiche di mercato. Una società per azioni punta sul massimo profitto con la minima spesa, che deve soddisfare gli interessi degli azionisti e dividere gli utili, applicando addirittura ricarichi ingiustificati, che immancabilmente finiscono nella bolletta.

Proprio qui sta l’equivoco: trattare l’acqua come una qualunque merce, la cui commercializzazione va sfruttata per generare profitti. Chi si oppone a tutto questo, afferma che il servizio idrico non possa essere trattato come una qualunque merce, perché l’acqua appartiene a tutti ed è un bene pubblico, strettamente legato a tutte le nostre vite e mezzi di sussistenza ed è una componente essenziale per la salute pubblica. La stragrande maggioranza degli aventi diritto pensava proprio questo. Anni dopo però, anche se gli italiani si esprimono, vengono regolarmente bypassati e ignorati e ciclicamente i progetti ritornano, magari seminascosti come in questo caso. Si parla di disaffezione alla politica e diserzione delle urne, ma come dar torto alla gente?

E i media mainstream che, è palese, dettano l’agenda e indottrinano su cosa sia importante sapere e credere? Silenzio totale. Eppure che l’acqua sia importante, non lo dice solo il buon senso che certi signori non hanno (o fingono di non avere), ma l’ONU: nel 2010 il diritto all’acqua è stato definito “diritto umano universale e fondamentale” e gli stati dovrebbero “garantire l’accesso all’acqua potabile a tutti gli individui, proteggendoli da interessi speculatori e azioni privative di questo diritto”. La stessa organizzazione ha poi nel 2020 lanciato un’accusa molto diretta: “i ricavi in eccesso derivanti dalla fornitura di servizi sono quasi interamente distribuiti tra proprietari o azionisti di società private come utili e dividendi. Questa pratica ha un impatto negativo sugli investimenti nella manutenzione e sull’estensione di servizi per le popolazioni non servite o sottoservite, il che può portare a una continua necessità di investimenti pubblici”.

Questa è la situazione piuttosto drammatica. Ho tuttavia scoperto con sollievo che esistono diversi comitati e movimenti che si battono da anni, cercando di informare la cittadinanza e chiedendo risposte alla politica. Il desiderio della gente è che i sindaci realizzino una gestione pubblica che abbia come obiettivo non il profitto dei privati, ma la qualità dell'acqua e della rete di distribuzione; e i cui ricavi, invece di ingrassare un gestore privato vadano riutilizzati per la manutenzione e il miglioramento del servizio.

Proprio in quest’ottica, Monica ha infine indirizzato il 26 settembre una lettera aperta ai sindaci aderenti a RIVIERACQUA, una società consortile per azioni a capitale totalmente pubblico, costituita nel 2012 per gestire il servizio idrico della Provincia d’Imperia. L’idea era fare leva sull'etica, sull'onestà intellettuale e sul senso di giustizia dei sindaci, eleggendoli a baluardo in una battaglia che riguarda tutti i membri della collettività, specialmente quando l’amministrazione centrale ignora così palesemente il volere e il benessere della cittadinanza. I primi cittadini, invece di ammiccare al privato, dovrebbero prendere a modello le gestioni pubbliche più virtuose che spesso, con pochi mezzi, riescono ad organizzare servizi che il privato si sogna. Lo slogan sarebbe: "basta allo stereotipo del servizio pubblico carente, a fronte di un servizio privato efficiente". Per la cronaca, ad oggi, non è stata registrata alcuna reazione: nessuna risposta dai sindaci destinatari che, evidentemente, non vogliono o non possono esporsi prendendo una posizione su un tema tanto sensibile.

Ma a prescindere dal silenzio dei destinatari, il mio vuole essere un appello a rimanere vigili, rivolto soprattutto a coloro che, come me fino a poco tempo fa, erano totalmente ignari della situazione e che spero di aver sensibilizzato con queste righe.
Perché l'acqua non è una merce: lo suggerisce il buon senso, lo scrive l’ONU, lo riconosce il referendum.

È invece un bene primario e irrinunciabile, di cui noi stessi siamo fatti. Marco Paolini e i Mercanti di Liquore nella canzone “Due parti di idrogeno per una di ossigeno” che inizia con una constatazione tanto ovvia quanto illuminante (“Il corpo umano è fatto al 90% di acqua, succhi, saliva e sputi”) pronosticavano “Domani qua metteranno il cartello: Privato” e si chiedevano “Ma di chi è l’acqua? Perché non riesco a non pensare che questa non sia roba da vendere e comprare”.

L’acqua non è “roba da vendere e comprare”. L’acqua è “oro blu” perché, insieme all’aria, è il bene più prezioso da cui dipende la vita. Difendiamola.