La notizia rimbalzata nelle cancellerie mondiali oggi è che Netanyahu aveva offerto due mesi di tregua in cambio della liberazione di tutti gli ostaggi e Hamas l’ha rifiutata. In realtà, la mossa del premier israeliano era, al solito, scaltra.

Infatti, in base a negoziati intrecciati tra Qatar, Egitto, Stati Uniti e Israele si era trovata una base di accordo per arrivare alla liberazione di tutti gli ostaggi in cambio della liberazione di detenuti palestinesi, il ritiro graduale dell’esercito israeliano da Gaza e un cessate il fuoco duraturo (che in queste latitudini equivale a una pace).

Per smarcarsi dalle pressioni internazionali, volte a ottenere il cessate il fuoco, e interne, per liberare gli ostaggi, Netanyahu ha prima rifiutato la proposta di pace per poi avanzare una proposta che sapeva essere inaccettabile dalla controparte, dal momento che Hamas ha chiarito da tempo che non libererà gli ostaggi se non avrà rassicurazioni sulla fine delle ostilità, che una tregua, pur prolungata, non prevede.

In tal modo, il premier israeliano può ostentare ai suoi interlocutori interni e internazionali la sua disponibilità a trattare e accusare Hamas di non volere accordi. In realtà, come spiega al Jazeera, questo è stato solo l’ultimo rifiuto di Netanyahu, che ha già rigettato diverse offerte di Hamas.

Detto questo, lo scambio di proposte e di dinieghi è passato alquanto sottotraccia nei media. Possibile, dunque, che chi ha lavorato nel segreto per raggiungere l’intesa voglia proseguire a tessere la tela.

Netanyahu non è il solo a voler proseguire la guerra

Il problema, però, non è solo la determinazione di Netanyahu a prolungare il conflitto, come spesso si legge sui media, perché in Israele parte importante dell’establishment sostiene la sua linea.

Basta leggere l’editoriale odierno del Jerusalem Post, che elogia il niet di Netanyahu alla proposta di fine guerra, affermando che “questo è il momento in cui il governo deve tenere duro” e proseguire le operazioni militari per smantellare Hamas, perché Israele non “può convivere” con un Hamas ancora attivo nella Striscia, seppur falcidiato.

Al di là delle motivazioni private di Netanyahu per continuare la guerra, tale determinazione, secondo il Jerusalem Post, è un imperativo categorico. Tanto che se anche cadesse Netanyahu e andasse al potere un altro, Benny Gantz o Yair Lapid per fare due esempi concreti, “nonostante l’avvicendamento al timone o un cambiamento della coalizione [di governo], il prossimo primo ministro adotterà quasi certamente la stessa politica di Netanyahu: nessun ritiro da Gaza e continuazione della guerra finché Hamas non sarà più al potere”.

Netanyahu è tante cose, tra le quali anche un utile paravento per tanti altri, i quali in futuro scaricheranno sul solo premier le responsabilità di quanto sta avvenendo. Da qui la difficoltà a sostituirlo. Netanyahu deve completare la mission da solo, in futuro arriveranno i distinguo, le prese di distanza etc.

Il Jerusalem Post dà voce ad ambiti più che significativi dell’establishment israeliano, da cui l’importanza dello scritto, che dilava le speranze di chiudere a breve la mattanza che si sta consumando a Gaza, dove i morti sono ormai oltre 25mila, di cui 11mila bambini, senza contare i dispersi sotto le macerie, che alcuni giorni fa erano stimati in 7mila. Tra morti e feriti le vittime di guerra sono oltre 100mila, cioè più o meno il 5% dell’intera popolazione di Gaza. Un’ecatombe.

La débacle e le narrazioni contrastanti

Ieri si è registrata la giornata più tetra per le forze armate israeliane, che hanno perso 24 soldati, 21 dei quali uccisi dal crollo di un edificio mentre si scontravano con un manipolo di miliziani di Hamas. Nonostante il fatto che Israele, Stati Uniti e alleati, in particolare il Regno Unito, abbiano dispiegato sul campo di battaglia la più sofisticata tecnologia NATO, nonostante lo scontro si consumi in un ambito tanto circoscritto e Hamas sia dotato solo di armamenti leggeri e lanciarazzi, oltre a qualche drone, il movimento islamista dimostra di non esser stato degradato come invece affermano le intelligence israeliane e americane.

Ciò dovrebbe indurre la leadership israeliana a fare una riflessione su costi e benefici di una guerra prolungata, al di là delle infondate motivazioni sulla necessità di preservare Israele da futuri attacchi in stile 7 ottobre, perché la débacle di quel giorno fatidico è stata possibile non per la potenza del nemico, quanto per l’arroganza della leadership israeliana che, sentendosi invincibile, ha abbassato tutte le sue tante e sofisticate difese, lasciando il confine sguarnito come neanche quello di San Marino.

Su quel 7 ottobre, ieri è stata resa pubblica la narrazione di Hamas, che per la prima volta ha spiegato in modo dettagliato le motivazioni e la modalità con la quale si è svolto l’attacco, in netto contrasto con la narrazione israeliana.

Ci torneremo, limitandoci a osservare che l’Occidente ha accolto la narrazione israeliana come qualcosa di indiscutibile e sulla quale è inutile e vietato porre domande, nonostante il fatto che successivamente la propaganda di Tel Aviv sia stata colta in indubbio fallo anche dai media mainstream made in Usa, per lo più schierati con Tel Aviv. Servirebbe un’indagine internazionale per appurare quanto realmente accaduto, ma non si farà.

Fonte L'Antidiplomatico