Fabio de Nardis, professore di Sociologia Politica all’Università di Lecce, e professore di Scienze Politiche all’Orientale di Napoli, è attualmente alla UCLA, University of California di Los Angeles, per un periodo di ricerca scientifica.

Ogni sera appunta sul suo diario le esperienze quotidiane, riuscendo a mescolare ogni volta la interessante lettura sociale ad uno squarcio di umanità che solo l'occhio disincantato di chi arrivi negli USA per la prima volta riesce pienamente a cogliere.

Fabio de Nardis è anche direttore della rivista (cartacea e on-line)  “il Dubbio”, una pubblicazione internazionale di analisi politica e sociale.






di Fabio de Nardis

Terza parte (9 Marzo - Oggi)

Vai alla seconda parte (15 Febbraio - 24 Febbraio)

Vai alla prima parte (15 Febbraio - 24 Febbraio)
 


Giovedì 11 Marzo 2004 – La biblioteca del Campus

 Oggi è stata una buona giornata, a cominciare dal clima. Dopo due giorni di caldo infernale l’aria si è un po’ rinfrescata rendendo tutto più semplice. Superati i tantissimi scogli burocratici sono finalmente riuscito ad accedere alla biblioteca del Campus. Bisogna dire che per quanto gli Stati Uniti rimangano un modello di efficienza organizzativa, ogni comportamento formale è regolato da una pesantissima burocrazia, fatta di una serie infinita di strutture amminitrative che, come sovente capita anche da noi, non comunicano assolutamente tra di loro e spesso entrano in conflitto a causa di inevitabili sovrapposizioni funzionali.

Per confermare il mio status di Research Scholar sono dovuto passare per almeno sette uffici: uno che mi consentisse di avere un mio studiolo; uno che mi desse diritto a un computer; addirittura un altro per la stampante e un altro ancora per il telefono (che non ho ancora mai usato); uno per avere un indirizzo di posta elettronica; uno per avere diritto a un minimo di copertura in caso di incidenti; e uno, infine, per ottenere la mia Bruin Card. Anche per iscrivermi nella mastodontica palestra del Campus (mens sana in corpore sano) sono passato per almeno tre filtri: Un ufficio per l’accettazione, uno per il pagamento e un altro per avere la tessera magnetica con tanto di foto. Questa è una peculiarità americana. Ti fotografano per qualsiasi cosa. Alla dogana, appena poggi piede sul suolo statunitense; all’Università, per ottenere il tesserino: e in fine in palestra. Ci mancava solo che mi fotografassero per consultare alcuni testi in biblioteca e avevamo fatto poker; anche se un’altra tessera me l’hanno data comunque, anzi, me ne hanno date due: una per poter ritirare i testi e un’altra prepagata, per poter usare la stampante.

Entrare in una biblioteca universitaria negli Stati Uniti è un’esperienza destabilizzante. In particolare la UCLA ha nel suo interno 12 megabiblioteche per un totale di oltre quattro milioni di libri e centinaia di riviste specializzate. Un italiano, abituato alle nostre umili biblioteche universitarie che raramente superano i trenta mila testi e qualche decina di riviste, ha bisogno di un po’ per ambientarsi, ma poi tutto diventa chiaro e semplice. Ogni procedimento è perfettamente informatizzato. Gli studenti hanno a disposizione almeno un sessantina di computer per sede dove consultare il catalogo dei testi, molti dei quali sono disponibili in formato digitale. Io personalmente ho potuto stampare una decina di articoli da riviste specializzate rimanendo tranquillamente seduto nel mio ufficio, limitandomi ad accedere al sito congiunto delle diverse library. Tra l’altro è una cosa che si può fare anche dall’Italia, dal momento che non occorre alcun codice di accesso per consultare le riviste on line.

Le difficoltà vere cominciano quando devi recuperare fisicamente i vari testi. Ognuno, ovviamente, ha il proprio codice che generalmente è fatto di alcune lettere, che definiscono il piano (dal momento che ogni biblioteca ne ha almeno quattro) e il settore, seguite da alcuni numeri che definiscono invece la collocazione esatta all’interno del settore. Il problema è che questi numeri sono in genere di quattro o cinque cifre; ciò vuol dire che per ogni volume bisogna iniziare un lavoro di ricerca minuzioso tra decine di migliaia di testi collocati in successione su scaffali alti almeno tre metri e lunghi non so dirvi quanto. Ogni libro che riesci a trovare ti dà un senso di soddisfazione e di potere che poche altre cose nella vita riescono a offrire.

In ogni caso è una sensazione stupenda. Per chi come me vive di ricerca, essere circondato da tutti quei libri è un qualcosa che ti inebria. Non mancava nulla. Tutto ciò di cui avevo bisogno era lì a disposizione, tanto che uscire con appena tredici libri tra le braccia mi ha fatto sentire povero. La sensazione è che qualunque nuovo prodotto editoriale prima o poi finisca tra quegli scaffali e non mi riferisco solo a testi in inglese, ma in tutte le lingue; dal cinese al giapponese, dall’arabo all’italiano. Ho trovato anche due mie libri che mai avrei immaginato potessero arrivare fin qua giù. L’ambiente interno è molto raccolto con spazi estremamente ampi per consentire agli studenti di leggere senza troppe distrazioni. L’atmosfera è così confessionale che sovente ti capita di scovare giovani che tra una pagina e l’altra si addormentano sui lunghi divani imbottiti che sono fissati tra uno scaffale e l’altro.

Il personale è numeroso e tutti sono estremamente cordiali e disponibili. Naturalmente ho impiegato un po’ per entrare nel meccanismo e ieri un addetto del servizio informazioni mi ha dedicato più di un’ora per spiegarmi tutti i meccanismi che alla fine erano estremamente intuitivi e ha anche insistito per fare lui al posto mio alcune operazioni di controllo sui testi. L’unico limite sta forse nella politica dei prestiti un po’ troppo liberale. Non c’è nessun limite al numero dei volumi che si possono ritirare e li puoi praticamente tenere quanto ti pare. Nel senso che nessuno te li richiederà fino a quando un’altra persona non ne avrà bisogno. In tal caso, non è neanche necessario ripassare per il filtro della biblioteca dal momento che anche questo passaggio è informatizzato. È sufficiente premere il pulsante RECALL accanto al codice del libro e automaticamente un sollecito viene inviato al ritardatario che è costretto a riportare il testo nel giro di una settimana.

Quando sono arrivato pensavo di dover inventare qualcosa di empirico, una piccola ricerca sul campo per giustificare la mia presenza qui a Los Angeles. Credevo che il lavoro di biblioteca fosse secondario, che oggi internet ti consente un contatto con il mondo stando tranquillamente seduto di fronte al computer di casa. Oggi mi sono reso conto che non è così. Poter accedere anche solo a una di queste biblioteche è un’esperienza per cui vale la pena partire. E quando pensi all’Università italiana, a come è organizzata, a quello che offre ai docenti e agli studenti, qualche volta, ti viene voglia di non tornare.

 

Mercoledì 10 Marzo – Le falle di Bush


La nomination di Kerry si fa sempre più vicina. Ieri ha stravinto in Florida, Louisiana, Mississipi e Texas raggiungendo quota 1.816 delegati. Ne servono 2.162 per aggiudicarsi la corsa. Anche Edwards, malgrado si sia formalmente ritirato dalla competizione, continua a essere votato dai suoi più entusiasti sostenitori (così come capita a Dean) e in Louisiana ha raggiunto un insidioso 16% che gli servirà come accumulazione di credito nella sua malcelata ambizione di essere scelto come vice di Kerry per la gara finale contro Bush. Al momento Kerry non intende scoprire le sue carte anche se alla fine non potrà non prendere in considerazione l’ampio consenso che Edwards continua a riscuotere tra i Democrats. Sembra non curarsi delle questioni interne al partito e si prepara alla battaglia finale cercando di indebolire l’immagine di Bush (e sai che ci vuole).

Qui emerge la schizofrenia delle campagne elettorali americane. Lo attacca sulle questioni ambientali, eppure Kerry negli ultimi anni pare abbia votato contro tutte le proposte di legge sostenute dalle lobby ambientaliste (che invece provavano una certa simpatia per Edwards); lo attacca sulla questione sociale, sulla salute e la previdenza, ma va detto che Kerry, democratico moderato, si è risvegliato paladino della causa dei lavoratori solo di recente, proprio qui a Los Angeles, dove è andato a esprimere la propria solidarietà agli operai in sciopero del settore alimentare, guarda caso, un giorno prima che la California votasse per le primarie e cinque ore prima che le Unions raggiungessero un accordo con i vertici aziendali. Lo attacca infine sulla Guerra all’Iraq, che ha votato, e sul Patriot Act, che ha sostenuto.

In ogni caso, non è un buon momento per Mr. Bush sotto il tiro dei media per i risultati disastrosi della sua politica economica e per le bugie sulle presunte armi di sterminio di massa (pare sia un’abitudine molto anglosassone). Clinton, che il mondo ricorderà solo per le sue scappatelle sessuali, in otto anni di governo è riuscito a creare 22,7 milioni di posti di lavoro, raggiungendo un livello di occupazione che secondo il Bureau of Labor Statistics non si registrava dal 1920. Nei tre anni di amministrazione repubblicana, invece, si è assistito a un calo di occupati pari a 2,2 milioni di unità. Ma Bush non si cura di questo. Lui è un War President e non può preoccuparsi dei giovani che rimangono senza lavoro, degli operai che sono privi di un’adeguata assistenza sanitaria, del costo della vita che cresce vertiginosamente. Poi tanto se qualcuno per la disperazione perde la testa e comincia a sparare a destra e a manca, si risolve tutto arrostendolo sulla sedia elettrica. E poi il possesso delle armi qui è un diritto inviolabile.

Lui deve pensare alla Guerra, a salvare il mondo e l’umanità dal demone terrorista. E che importa se per questo deve dire qualche bugia a fin di bene. In fondo il nostro caro Bush non è il capo dell’asse del bene? Questo linguaggio mistico mi fa tornare in mente un editoriale del Direttore dell’Unità qualche settimana dopo il terribile attentato dell’11 Settembre. Se non erro erano ancora in corso i bombardamenti in Afghanistan. Il pezzo cominciava con la citazione di queste due frasi: 1) "Crediamo in Dio perché con la grazia di Dio i missili americani falliranno il bersaglio e noi saremo salvi. Islamici del mondo uniamoci nel nome di Allah potente e misericordioso"; 2) "Dobbiamo liberare il mondo dal diavolo. Di questo siamo certi. Né la morte né la vita né gli angeli né i prìncipi né le cose presenti né le cose future, nemmeno le vette e gli abissi, ci separeranno da Dio. Possa Egli benedire e guidare questo paese".

La prima frase era del Mullah Mohammad Omar, capo dei Talebani e tuttora latitante, la seconda era di George W. Bush, Presidente degli Stati Uniti d’America. Mi spiegate la differenza? ... CLASH


 

Martedì 9 Marzo 2004 – Iraq democratico?

 Senza nascondere un pizzico di orgoglio, i quotidiani americani danno risalto alla notizia che i membri dell’Iraqi Governing Council, sotto la supervisione dei militari americani e inglesi (quindi in totale serenità) hanno firmato la bozza costituzionale che dovrebbe aprire la via al processo di democratizzazione del paese. Lo stesso Bush rivendica la cosa come un proprio risultato che porterà entro il 30 Giugno alla formazione di un Governo sovrano deciso dagli elettori. Secondo gli accordi, il nuovo Iraq dovrebbe assumere una forma di governo repubblicana, federale, democratica e pluralistica. L’Islam, come religione ufficiale, sarà la principale fonte ispiratrice del processo legislativo anche se a tutte le religioni sarà consentito il diritto all’esistenza (almeno questo). Le lingue ufficiali saranno l’arabo e il kurdo.

Insomma, a breve il mondo potrà contare su un’altra pseudo-democrazia, dove la garanzia delle procedure non sarà corrisposta da alcun reale sentimento democratico. Si ripropone l’atavico dilemma che attanaglia da sempre la comuntà politologica internazionale. Cos’è in fondo la democrazia, un insieme di regole o un sistema di valori che esprime quelle regole? La maggior parte degli studiosi (compreso il compianto Norberto Bobbio) protende verso la prima delle due affermazioni. Dunque, la democrazia non sarebbe altro che un sistema in cui il massimo dell’incertezza decisionale deve essere garantito dal massimo della certezza normativa. In questo senso, un paese per essere considerato democratico è sufficiente che garantisca elezioni libere, ricorrenti e competitive.

Ma allora come ci spieghiamo la Russia, formalmente democratica ma praticamente stretta sotto il polso autoritario di Putin, e a giudzio dei principali commentatori internazionali? Come ci spieghiamo la Bolivia e le tante neo-democrazie Centro e Sud Americane, dove gli oppositori continuano a scomparire senza che nessuno alzi un dito? Come ci spieghiamo le tante plutocrazie orientali, solo formalmente democratiche? Come ci spieghiamo realtà tribali come l’Afghanistan o l’Iraq stesso, dove l’Ayatollah Ali Sistani, capo spirituale della maggioranza Shiita, già annuncia battaglia contro la nuova bozza di Costituzione accusata di lasciare un margine di azione troppo ampio alla minoranza kurda?

Veramente tutti questi paesi possono essere considerati democratici? È ovvio, senza procedure certe che organizzano un sistema politico non si può avere democrazia. Ma cos’è che giustifica le regole. Io cittadino irakeno devo rispettare le nuove leggi che mi vengono imposte per paura della sanzione o perché credo siano giuste? Quanto a lungo si può sperare nel rispetto delle procedure se queste vengono concepite come il prodotto della pressione esterna da parte di un sistema di potere e culturale alternativo e potenzialmente antagonista. Il vecchio Rousseau una volta scrisse che il governante non avrebbe potuto mantenere il proprio potere a lungo senza trasformare il comando in diritto e l’obbedienza in dovere. Sul primo punto ci siamo; ma per far sì che ci si riconosca nell’architettura normativa che rende lecito il comando occorre una cultura democratica, che in Iraq, come negli altri casi citati, non esiste.

La democrazia, là dove si è storicamente consolidata, ha rappresentato il punto di arrivo di un processo secolare di lotte e rivoluzioni per la conquista dei diritti civili, politici e in ultimo sociali. In Italia abbiamo avuto movimenti politici e partiti che hanno materialmente costruito la nostra pur acciaccata democrazia, da un lato, attraverso la normativizzazione del comportamento politico con la Costituzione forse più avanzata di tutto l’Occidente; dall’altro, attraverso un lungo lavoro pedagogico per socializzare i cittadini alle regole e ai valori della democrazia.

Dove sono, in Iraq o in Afghanistan, il Partito socialista o comunista, il Partito d’Azione, quello repubblicano; dove sta la stessa Democrazia cristiana? Dove sono Gramsci, Gobetti, i fratelli Rosselli, Rousseau, Tocqueville e Montesquieu?

È facile esportare un sistema istituzionale manu militari, meno facile è farlo funzionare.