IL FALLIMENTO DELLA GUERRA PREVENTIVA


di Fabio de Nardis

31.05.04 - Esattamente due anni fa, in un discorso all'Accademia Militare di West Point, George W. Bush enunciava per la prima volta la dottrina neocons della guerra preventiva. “La guerra al terrore non sarà vinta rimanendo sulla difensiva”, affermò il Presidente di fronte a una platea di cadetti. “Dobbiamo combattere il nemico, distruggere i suoi piani e affrontare la minaccia prima che essa emerga. Dobbiamo imboccare l’unico sentiero verso la sicurezza del mondo; il sentiero dell’azione. E questo paese - non abbiate dubbi - agirà”. Nel giro di dieci mesi Bush mantenne la promessa, inviando i soldati americani a 10.000 miglia di distanza dalle loro case per deporre Sadam Hussein, e dopo un paio di mesi di bombardamenti Baghdad cadde. Eppure oggi, l’impresa americana in Medioriente a molti appare come un deciso fallimento, tantochè nessuno si pone più il problema di estendere il conflitto alla Syria, Iran o Corea del Sud, come si paventava inizialmente.

L’intrapresa irachena, lungi dal dimostrare l’efficacia del principio, ... ...ne ha piuttosto denunciato i limiti.

In realtà la logica dell’attacco preventivo non è una creazione dell’attuale amministrazione repubblicana. Anche altri presidenti in passato ne hanno fatto uso, come quando Clinton nel 1998 ordinò di attaccare e distruggere un'industria farmaceutica a Khartoum, in Sudan, dove - si disse - producevano gas nervino. Ma il concetto bushiano della prevenzione va ben oltre la semplice precauzione contro un presunto pericolo di attacco imminente. Questa volta l’intenzione, nemmeno tanto velata, era quella di stravolgere assetti di potere ...e produrre veri e propri cambi di regime. (Interessante notare come per tutta la campagna elettorale Bush andasse sistematicamente ripetendo ”we are not into nation building” – noi non siamo interessati a ristrutturare gli equilibri nazionali).

La novità dottrinaria si basava su due assunti di fondo, entrambi screpolati sotto il fuoco della resistenza irachena: il primo si basava sulla convinzione dell’efficacia dell’azione dei servizi segreti nell’individuare l’eventuale pericolo da prevenire; il secondo, si fondava invece sulla credenza che l’apparato tecnologico americano avrebbe reso ogni inziativa bellica relativamente rapida e poco costosa, sia in termini di denaro che di vite umane. (Una cosa che pochi oggi ricordano, è lo slogan con cui fu lanciata la “passeggiata a Baghdad”, più di un anno fa: “Might and awe.” Forza (la nostra) e stupore (quello degli altri). Fin troppo facile dire, ora, che i termini sembrano rovesciati.

Se da un lato i servizi di intelligence hanno fallito clamorosamente nel loro compito di trovare prove che giustificassero l’attacco in Iraq, dal momento che delle famose armi di distruzione di massa non s’è vista traccia, dall’altro l’esplosione a Najaf, come altrove, di focolai di resistenza imprevisti ha fatto lievitare i costi della missione a livelli insopportabili.

Gli americani hanno sottovalutato il peso della frustrazione del popolo iracheno di fronte a una occupazione prolungata (ed in fondo ingiustificata), mentre hanno decisamente sopravvalutato il ruolo che avrebbe giocato il settarismo locale. Mentre avevano previsto che le divisioni etniche avrebbero prevalso sull’odio verso gli occidentali, hanno ottenuto proprio l’effetto opposto: Kurdi, Sunniti e Shiiti hanno messo da parte l’odio che li separa da millenni, e si sono trovati riuniti contro la minaccia comune. Il senso di appartenenza nazionale ha prevalso su quello tribale, e l’America oggi è rimasta vittima dei suoi stessi sogni di gloria: la dottrina che li aveva alimentati, e che ha fatto tremare il mondo progressista fino a pochi mesi fa, oggi si può considerare definitivamente morta.

Fabio de Nardis