LO "SCONTRO DI CIVILTÀ"

L’Occidente, nel progetto di espansione planetaria del suo dominio si trova tra i piedi l’Islâm, sia dal punto di vista ‘ideologico’ sia da quello geopolitico.

In tutto questo, i popoli europei (ed alcuni loro esponenti politici), che sono i naturali vicini di casa dei popoli arabo-islamici, vengono allarmati, ricattati, abbindolati con questa favola dello “scontro di civiltà”, la cui presa è facilitata dall’aumentato afflusso d’immigrati di religione islamica, che pone inevitabilmente dei problemi (ma va osservato che i problemi li pone un’immigrazione eccessiva, e non una “immigrazione islamica”). Per di più, lo “scontro di civiltà” non descrive una situazione di fatto, oggettiva, ma solo uno stato di tensione indotto permanentemente finché farà comodo, poiché chiunque, recandosi in un paese arabo-islamico può constatare come i popoli che li abitano, in specie quelli vicino-orientali, siano tra le persone più aperte e cordiali del mondo, né è sostenibile che un qualsivoglia paese arabo-islamico intenda conquistarci o sottometterci. Sfido chiunque a provare con argomenti razionali che è il mondo arabo-islamico a voler sottomettere l’Occidente - nel quale, ripeto, l’Europa sta a far da comparsa – e non, come sta avvenendo, il contrario.


ETIMOLOGIA

Le parole arabe hanno quasi sempre una radice triconsonantica che nel caso del termine” Islâm” è s-l-m, le cui forme verbali veicolano i seguenti significati: essere sano, in buona salute, consegnare, consegnarsi, arrendersi. Tra queste forme verbali, quella da cui deriva il nome “Islâm” è una di quelle  che esprime un atteggiamento attivo, per cui, ricorrendo ad una perifrasi, si potrebbe definire l’Islâm un “consegnarsi volontariamente al volere divino (espresso a chiare lettere nel Corano)”.


DEFINIZIONE

In estrema sintesi, è musulmano colui che riconosce l’Unità e l’Unicità di Dio (tawhîd) espresse nella shahâda, la testimonianza di fede che recita: “Non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è l’Inviato d’Iddio”. A questo punto, il credente (al-mu’min; Îmân = fede), colui che crede in Dio, nei Suoi Angeli, nei Suoi Libri, nei Suoi Inviati, nell’Ultimo Giorno (il “Giorno del Giudizio”), esprime il suo Islâm nella pratica dei cosiddetti cinque “pilastri dell’Islâm”, che sono, dopo la shahâda: la salât, la preghiera canonica rituale cinque volte al dì; la zakât, una vera e propria tassa esatta dallo Stato per conto della comunità secondo precise indicazioni a seconda dei beni e ridistribuita a beneficio di precise categorie di aventi diritto; sawm Ramadân, ovvero l’astinenza (piuttosto che “digiuno”) durante il mese di Ramadân (il 9° del calendario lunare islamico), dall’alba al tramonto di ogni giorno; il Hajj, il Pellegrinaggio alla Casa Santa (il “Centro del mondo”, il “santuario” di Mecca che contiene anche la Ka’ba con la Pietra Nera) in precisi giorni dell’anno, almeno una volta nella vita.

 
IL JIHÂD E LA COMPONENTE GUERRESCA

L’Islâm parte da una base realistica, e non descrive il mondo così come ci piacerebbe che fosse, con gli agnellini accarezzati da belve feroci, tipo l’iconografia di certe chiese statunitensi. La vita contempla anche il combattimento, la lotta, e chiunque lo sperimenta ogni giorno. La guerra fa parte della vita degli uomini e delle comunità. Ma l’importante è stabilire delle regole che assicurino il rispetto di alcune garanzie fondamentali e, soprattutto, contribuiscano a ristabilire al più presto le condizioni per una pace con giustizia e quindi duratura.

La radice triconsonantica j-h-d veicola i significati di “sforzo”, “impegno”, “assiduità”, “applicazione con zelo”. La forma verbale jâhada significa “combattere qn.”, ma al-jihâd fî sabîl Allâh, è “il combattimento sulla Via di Dio”, un “sacro sforzo” per avvicinarsi a Lui. Qui l’Islâm distingue due tipi di jihâd: il “grande jihâd”, che è quello contro le proprie passioni, contro l’anima concupiscente dispersa nella molteplicità, ed un “piccolo jihâd”, quello da svolgere con le armi in difesa della comunità. Quest’ultimo, come è scritto nel Corano, non ha niente a che vedere con la guerra indiscriminata o “totale” moderna, dove le prime vittime sono le popolazioni civili proprio perché non esiste più la distinzione tra militari e non, essendoci un solo soggetto che svolge operazioni di “polizia internazionale” a caccia di ‘fuorilegge’ (e i popoli lo sono nella misura in cui sostengono i “dittatori”: per questo c’è l’embargo…), come nella migliore tradizione western. Tutto nel jihâd è sottoposto a regolamentazione: dal trattamento del prigioniero, alla spartizione del bottino eventualmente preso al nemico. Ma, ribadisco, il jihâd interiore deve prevalere su quello esteriore, anche mentre si svolge quest’ultimo, il che - s’intuisce – preserva il combattente dal commettere inutili efferatezze.

Purtroppo - e qui è evidente un processo degenerativo influenzato dall’importazione di una prassi politica non islamica – molti movimenti islamisti (lo studioso, invece, è un “islamologo”) assolutizzano il concetto di “piccolo jihâd” e ne fanno il jihâd tout court: in ciò sono assimilabili ai gruppi rivoluzionari laici, con l’unica differenza che cercano una legittimazione di tipo religioso. Detto questo, non vuol dire che i vari Bin Laden s’inventino dei problemi dal nulla: è semmai il tipo di risposta che danno che andrebbe sostituita con altre più genuinamente islamiche, ma non certo far finta che tutto vada bene e limitarsi a conformistiche e rituali pubbliche condanne, comprese quelle di “musulmani moderati” talvolta davvero patetici nel loro goffo tentativo d’ingraziarsi i nemici dell’Islâm. Già che ci sono, “musulmano moderato” non significa niente, se non “musulmano funzionale”, poiché l’Islâm ricerca sempre la moderazione, la “via mediana”, rifuggendo le esagerazioni.
 
 
AUTORITÀ E TRADIZIONE

La corrente sunnita “ortodossa” è quella mediana sistematizzata da al-Ghazâlî definita della ahl as-sunna [l’insieme delle tradizioni profetiche] wa l-jamâ‘a (“la gente della sunna e della comunità”), con ciò stabilendo che l’autorità risiede nell’interpretazione comunitaria dei dati della Rivelazione con l’ausilio dei dotti versati nelle scienze religiose (coloro che compiono l’ijtihâd, dalla stessa radice j-h-d), e non in qualche personaggio carismatico magari dotato di chissà quali poteri… In questo modo, l’unità della comunità è salva, e si evita il frazionamento in mille sette, tanto più ingiustificate se si pensa che nell’Islâm si ripete sovente che fî l-ikhtilâf rahma (“nella differenza c’è una misericordia”).


IL SUFISMO

Il sufismo (at-tasawwuf), non è invece una “corrente” dell’Islâm, ma ne costituisce piuttosto l’essenza, il nocciolo, la via lungo la quale ci si può incamminare per raggiungere, grazie ad un’iniziazione, una dottrina e un metodo sotto la guida di un maestro (shaykh) di una tarîqa (lett. “via”, tradotto spesso con “confraternita”) ortodossa, un grado di conoscenza più intimo della Rivelazione della cui luce comunque il credente partecipa attenendosi alla pratica dei cinque pilastri summenzionati e all’osservanza della sunna del Profeta.

Difatti, dev’essere chiaro che non è pensabile seguire il Sufismo e non essere musulmani, poiché il Sufismo è l’approfondimento della “testimonianza di fede” (“Non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è l’Inviato d’Iddio”), per estinguere il sé individuale ed identificarsi col Sé universale. In pratica il sufi per questo mondo è già morto, sebbene sia ancora in vita, non avendo altra preoccupazione che la contemplazione e la glorificazione di Dio, il cui nome (Allâh) ricorda incessantemente col dhikr (“menzione”). In una pubblicazione islamica integralista-modernista (i due punti di vista sono apparentemente antitetici) ho letto una volta che “il sufismo non è Islâm”: si deve invece affermare che il Sufismo ortodosso, quello cioè trasmesso attraverso catene iniziatiche ininterrotte che partono dal Profeta, e che conta ancora numerosi aderenti in tutto il mondo islamico alla ricerca di un sincero percorso di rigenerazione spirituale, è non solo genuinamente islamico, ma è il miglior antidoto contro qualsiasi forma d’estremismo.


Enrico Galoppini

Enrico Galoppini insegna Storia dei Paesi islamici all'Università di Torino, ed è autore di "Il Fascismo e l'Islam" (Parma 2001). Scrive per varie testate, fra cui Limes, Eurasia, Levante, Meridione/Oltremare, Italicum, La Porta d'Oriente, Estovest, ed è uno dei fondatori del sito Aljazira.it.

La presente scheda è stata compilata per luogocomune.net estrapolando alcune parti di un’intervista rilasciata da Enrico Galoppini ad Antonello Cresti per le Guide “controcultura” di Supereva. L’intervista completa è qui.