[b]L'ALTRA FACCIA DELL'IRAQ "Se per assurdo un giorno il Cielo si abbattesse sulla Terra, allora forse potremmo avere rapporti con Al Qaeda"[/b] Un giornalista della Stampa ha intervistato un sedicente leader della resistenza irachena. Nonostante lo stesso giornalista metta le mani avanti sull'identità della persona (ottimo segno, di solito), a giudicare dai contenuti ci sono ottimi motivi per credere che chi parla nel nome degli insorti sia pienamente legittimato a farlo. Il che cambia non poche cose rispetto al quadro generale che ci è stato finora proposto dai media sulla situazione in Iraq. (Segnalato da Diva) «L’Iraq è con noi, cacceremo gli invasori americani» La Stampa, 20/9/04 BAGHDAD. La «resistenza» irachena esce allo scoperto, e lo fa con un’intervista all’inviato della Stampa in Iraq. L'incontro, dopo mesi di contatti e rinvii, avviene in una villetta semicentrale di Baghdad. L’uomo, che si fa chiamare con il nome di battaglia Abu Moussa, non è armato: dicono avesse ricoperto alti incarichi nell'esercito di Saddam, forse comanda la guerriglia a Baghdad o forse ne è autorevole portavoce. Verificarlo è impossibile, però le cose che l'uomo senza nome rivela sono di estremo interesse. «Il nucleo della resistenza irachena - dice - è attivo dal 1998. Fu allora che il presidente Saddam, ritenendo ormai inevitabile una guerra,… … decise di creare una struttura segreta selezionando 15 mila uomini, i migliori elementi del "Baath" e la crema di esercito e corpi speciali ». Distingue la guerriglia dai terroristi: «Noi uccidiamo solo chi collabora con gli invasori. Quanti siamo? Ora un milione, forse di più: batteremo gli americani e li cacceremo dall’Iraq» «Noi siamo la resistenza, non quelli che sequestrano e sgozzano»: l'iracheno, che si fa chiamare con il nome di battaglia di Abu Moussa e lancia questo messaggio, è un uomo di mezz'età che ci sta parlando con tono tranquillo rivelando vicende straordinarie. Contatti trascinati per mesi d'un tratto sfociano nell' incontro, in questo momento colui che appare come il leader della guerriglia a Baghdad ha accettato l'intervista con tanta facilità da far pensare all'inizio di una campagna mediatica. Per ragioni ancora non del tutto chiare la resistenza irachena deve aver deciso di uscire allo scoperto: lo fa per distinguersi dalle bande di macellai che sommergono il Paese, ma anche perchè probabilmente si sente abbastanza forte e vuole ribadire una "leadership" che è già nei fatti. L'uomo che ci sta parlando in una villetta semicentrale di Baghdad non è armato, anche se le camice a quadri o i "disdasha" dei suoi mostrano chiari rigonfiamenti ascellari. Domanda iniziale: voi siete "la resistenza", poi ci sono i terroristi islamici poi le bande di Al Qaeda poi i semplici banditi. Come si fa a distinguervi? «Mi piacerebbe risponderle che ad un occidentale sarebbe più utile capire anzitutto cosa ci unisce. Pochi giorni dopo l'ingresso delle truppe americani a Baghdad mi trovavo in auto fermo ad un "check point". E dinanzi alla mia era l'automobile di un commerciante molto noto, proprietario di una catena di pasticcerie che accompagnava il figlio e la sua fidanzata a fare acquisti in vista del matrimonio, un matrimonio rimandato a quando la guerra fosse finita. In un cassetto dell' auto aveva 15mila dollari, soldati volevano prenderli, i figlio tentò di protestare e per questo venne picchiato col calcio dei fucili, gettato sul marcia piede, legato con le mani dietro la schiena e maltrattato a pugni e calci sotto gli occhi de padre e della donna». Questo era il primo episodio cui assistevo direttamente ma nell'anno e mezzo successivo migliaia di iracheni hanno visto genitori figli maltrattati o uccisi, carri armati che distruggevano le case, la loro dignità calpestata ed i propri beni depredati: la rabbia per tutto questo è l'elemento che unisce tutti coloro che in questo Paese combattono l'occupazione». Assieme con gli attentati, rapimenti, le autobombe, le decapitazioni? «Noi finora abbiamo rapito soltanto camionisti turchi, siriani o giordani che rifornivano le basi americane, abbiamo bruciato i loro mezzi e poi li abbiamo rilasciati dopo avergli fatto giurare sul Corano che mai più avrebbero rifornito l'invasore». Nessuno di essi è stato ucciso? «Neanche uno, e non è mai accaduto che un elemento della resistenza decapitasse o sgozzasse prigionieri, se fosse successo costui sarebbe stato eliminato immediatamente. Quanto alle autobomba, quelle piazzate da noi rappresentano forse il dieci per cento del totale e si dirigono sempre verso basi americane o sedi di uffici che collaborano con l'occupante». Anche caserme di polizia? «Anche però caserme dove si sono svolte attività particolarmente riprovevoli e mai quelle in cui è il corso il reclutamento o dinanzi alle quali sostano giovani iracheni. Non abbiamo alcun interesse a colpire la popolazione perchè la popolazione è sempre più dalla nostra parte e d'altronde cinque anni di preparazione non trascorrono invano...» Cinque anni? Il dopoguerra è cominciato 18 mesi fa. «Però il nucleo della resistenza irachena è attivo dal 1998. Fu allora che il presidente Saddam, ritenendo ormai inevitabile una guerra, decise di creare una struttura segreta selezionando i migliori elementi del "Baath" e la crema di esercito e corpi speciali". Saddam Hussein era ben conscio che l'attacco americano era inevitabile e avrebbe potuto opporvi soltanto carri armati fermi dal '92, dunque decise la creazione di quest'ala segreta del "Baath" sconosciuta anche al resto del partito, che avrebbe dovuto organizzarsi in nuclei di resistenza quando l'Iraq fosse stato invaso». Quanti eravate in questa struttura? «In totale circa quindicimila, divisi in nuclei a comunicazione orizzontale e dunque piuttosto compartimentati, le dotazioni consistevano essenzialmente in armi leggere e depositi di esplosivo però molte altre armi ci sono arrivate dai magazzini dell'esercito quando i reparti si stavano sfaldando». Aveva un nome, questa armata segreta? «Una denominazione ufficiale no, però si usava riferirsi al "Baath" parallelo parlando di "Al Taljali", che più o meno significa "l'élite». Qualcosa a che fare col corpo dei "fedayn" che il figlio di Saddam, Uday, creò poco prima della guerra? «No, quella era poco più di un'armata personale, noi avevamo invece il compito dì difendere ogni angolo dell'Iraq riaffermando la dignità nazionale con l'unica forma di azione possibile, ovvero la guerriglia». Cominciaste subito? «Quasi: la rivolta spontanea di Falluja contro le prevaricazioni di militari ubriachi anticipò anche le nostre azioni che comunque hanno una data d'inizio precisa: 10 aprile del 2003, con l'attacco contro tre carri armati americani ed il loro incendio nel quartiere di Nafaqua Al Shurza, a Baghdad». Quali sono fino ad oggi le azioni che considerate di maggiore successo? «Quelle di Falluja hanno assunto carattere permanente, né gli americani né il governo Allawi possono più controllare la città, a Falluja combattono sunniti della zona, sciiti di Nassiriya ed anche curdi, come avveniva per il "Baath" la resistenza non dà alcun valore all'elemento religioso o etnico ma punta sullo spirito nazionale e sull'orgoglio arabo. Come singola azione, forse quella di Al Haswa fu la più efficace...». Lei dice che la resistenza attacca solo basi nemiche e collaborazionisti iracheni, l'altro giorno due donne che lavoravano come interpreti nella "Green Zone" sono state uccise a colpi di pistola su Saddoun Street e abbandonate sull'asfalto con il "pass" americano bene in vista sul petto. Siete stati voi? «E' molto probabile, un nucleo autonomo di resistenza deve aver accertato le loro responsabilità». La responsabilità di lavorare per vivere? «Quando viene segnalato il caso di un iracheno che lavora per le truppe straniere o fa la spia prima la resistenza indaga per sapere se l'accusa è vera, e se è vera decide l'esecuzione. Anche di donne, se le colpe sono gravi, il mio nucleo ha eliminato una che procurava ragazze ai soldati americani». E chi pronuncia la condanna, avete magari un tribunale clandestino? «No, la responsabilità spetta al comandante di ciascun nucleo, ma se non è sicuro delle accuse questi può convocare il sospettato facendogli giungere una lettera a casa...». Un gruppo clandestino che spedisce lettere? «Si, solo a Baghdad ne abbiamo recapitate a migliaia avvertendo ogni volta le singole persone che sul loro conto circolavano queste accuse e potevano presentarsi per tentare una discolpa». Presentarsi dove, da chi? «Ogni quartiere ha i suoi referenti, non tema, a Bahghdad ci conoscono tutti...poi è accaduto diverse volte che i sospettati ci abbiano convinti della loro innocenza e siano tornati a casa, anch'essi dopo aver giurato sul Corano». Chi vi finanzia? «Noi stessi, fondi accantonati prima della guerra, alcuni iracheni più ricchi di altri ma anche moltissima gente comune che si quota per piccole somme». Riscatti dei sequestri di persona? «E' accaduto, però pochissime volte poichè il sequestro non appartiene ai nostri sistemi e da parte nostra può riguardare solo ricchi stranieri o rappresentanti di società che tentano di arricchirsi sulla pelle degli iracheni. Fra l'altro, l'industria dei sequestri è partita immediatamente dopo l'occupazione americana ed ha avuto ben altri organizzatori». Quali? «Per esempio Waheb El Shibli, uno sciita luogotenente di Ahmed Chalabi. Mesi fa la polizia irachena l'arrestò accusandolo di almeno dieci sequestri di persona, gli americani lo fecero tornare libero pochi giorni dopo. In questo povero Paese la spoliazione s'è iniziata a guerra appena conclusa e con qualsiasi mezzo, sono calati gruppi di ogni tipo spesso manovrati dall'esterno e di recente perfino il governo di Allawi con i suoi vecchi arnesi del "Mukhabarat" ha cercato di combatterci organizzando nuclei sulla falsariga dei nostri, gruppi misteriosi che conducono misteriose missioni cercando di farle ricadere sudi noi o sulle spalle di altri». Ecco, gli altri: quali rapporti avete con Al Qaeda? «Se per assurdo un giorno il Cielo si abbattesse sulla Terra, allora forse potremmo avere rapporti con Al Qaeda. Le risulta che l'Iraq di Saddam fosse luogo i terroristi o avesse rapporti con integralisti islamici? Noi siamo l'espressione di quali' Iraq, laico, socialista, panarabo, Saddam è in carcere, il "Baath" non esiste però resta l'orgoglio nazionale che continua a cementarci». Non avete contatti neanche col famoso Zarqawi? «Al Zarqawi è uno specchietto per le allodole o forse uno spaventapasseri: appare dovunque, interviene su qualsiasi cosa, parla o fa parlare attraverso Internet o via radio, io dico che spesso quando viene citato non c'è e quando c'è fa dell'altro». In città come Falluja o Mahmouya avrete pure qualche contatto con i combattenti islamici. «Non contatti veri e propri ma una sorta di coordinamento». Quanta gente oggi appartiene alla resistenza? «Potrei risponderle un milione di persone ma la stima è impossibile, posso dirle che gli iracheni ci sostengono ed anche nella nuova polizia contiamo più simpatizzanti che avversari. Le ricordo che nel Duemila fra gli iscritti al "Baath" c'erano 2 milioni e 700 mila iracheni sotto i 35 anni di età e quasi tutti avevano moglie, figli, genitori a carico: un anno e mezzo fa una massa di dieci milioni di persone si è trovata alla fame semplicemente a causa della decisione americana di licenziare dai posti pubblici tutti i "baathisti". Oramai le tribù di appoggiano e nelle città anche i ragazzini lanciano pietre contro gli americani, si approssima il momento di una "intifada" irachena». Secondo voi chi ha rapito i due giornalisti francesi e le ragazze italiane? «Quanto ai francesi penserei alla banda di Wahab Al Amri perché si trovavano nel suo territorio, le ragazze italiane ci paiono vittime di un'organizzazione di altro genere, quella più "misterioso" a cui accennavo prima, che in apparenza non si rendono conto dei danni provocati alla causa irachena. Anche noi vorremmo sapere di chi si tratta, non crediamo alle voci che vogliono le italiane "trasferite" da Abu Ghrejb a Falluja, anzi possiamo escluderne del tutto la fondatezza». Lo dicono esponenti del Consiglio degli imam. «Se avessero informazioni credibili saprebbero anche come intervenire, in realtà gli "imam" non hanno alcun contatto coi gruppi minori e possono comunicare con noi solo per via indiretta. Per quanto ci riguarda, non li contattiamo perché non abbiamo alcuna stima del loro Consiglio supremo». Nelle mani di chi si trovano, dunque, le italiane? «Le stiamo cercando anche noi». Stampa 22/9/04