[b]ADDIO 2004[/b] Il trend per il terzo millennio non sembra incoraggiante: il 2001, con l'11 Settembre, è stato certamente peggio del 2000. Il 2002, con la guerra in Afghanistan, ancor peggio del 2001. Il 2003, con la guerra in Iraq, cento volte peggio del 2002. E il 2004, senza ombra di dubbio, peggio di tutti gli altri messi insieme. Quest'anno poi, già orribile di per sè, si è chiuso con il maremoto in Asia, che appare come una summa agghiacciante di questo nostro meraviglioso "mondo moderno": pochi i salvati - noi, mille i sommersi - gli altri. Anche letteralmente, in questo caso. E' stato come se Madre Terra, con una semplice scrollatina delle spalle, avesse voluto buttarci in faccia, moltiplicato per mille, ... ... quello che ad una unità alla volta non eravamo stati in grado di capire: ogni nostro lusso equivale alla morte di un'altro. E' inutile stare a giocare con le parole: noi mangiamo, e quelli crepano. E più noi vogliamo mangiare (pane o petrolio è la stessa cosa), più quelli devono crepare: le risorse a disposizione sono quelle che sono. Ma il vero terremoto è stato un altro. Perquanto sotto shock per le notizie che in queste ore ci arrivano dall'Oriente, le immagini che si sono più profondamente incise nei nostri animi, e che presenteranno il conto soltanto nel tempo, sono ben altre. In fondo ai cataclismi, per quando di dimensione biblica, l'umanità è abituata. Quello a cui non eravamo abituati, quello che veramente ci ha destabilizzato nel profondo, è stata la vicenda di Abu Grahib. E' in quell'immagine del prigioniero iracheno legato, incappucciato e torturato, che si sintetizzano la prevaricazione cieca e l'arroganza impunita dell'Occidente sul resto del mondo. E il brutale risveglio a cui ci hanno costretto quelle immagini non ha ancora finito le sua "scosse di assestamento", perchè ancora non abbiamo avuto il coraggio di chiarirci fino a che punto la piaga sia diffusa. Ma ormai sospettiamo tutti, nel profondo, che la putrefazione arrivi praticamente alla soglia di casa nostra. Nè, bisogna dirlo, i nostri attuali governanti hanno fatto granchè per tenercene lontani. Certo, discorsi facili. Ma vediamo intanto di farli bene, con precisione e con chiarezza, perchè certi discorsi opposti, del tipo "così è la vita cosa ci vuoi fare", rischiano di essere più facili ancora. Dal momento in cui siamo entrati nella fase globalitaria dell'economia, sono cambiati alcuni parametri fondamentali, mentre altri sono rimasti immutati. Globalizzazione vuol dire, alla fine della fiera, poter vendere liberamente in tutto il mondo, all'interno di un sistema economico unificato. Ma questo equivarrebbe, nel nostro universo calcistico, a dire che da oggi si unificano i campionati di Serie A, B, e C, e che il computer sorteggerà gli incontri a caso, facendo sì che spesso una derelitta squadra di provincia, con un budget di qualche centinaio di milioni all'anno, debba affrontare ad armi pari una delle nostre pluri-miliardarie "regine del campionato". E' facile dire, se sei il centravanti della Juventus, che nel mondo da sempre "vige la legge del più forte", e che il debole è comunque destinato a soccombere. Ma ci staresti tu, negli stessi panni, a "rifare il sorteggio" delle nascite, rischiando magari di ritrovarti terzino della Cassanese? Ecco quindi il passo che manca all'Occidente: non è quello di riconoscere la povertà effettiva degli "altri", nè di rivedere la sana logica della competizione concorrenziale. E' quello di riconoscere un'ingiustizia di fondo, per cui George nasce già Bush prima ancora di aver detto "a", mentre Abdul nasce Abdul e per quanto dica "a" o "b" o "c", sempre Abdul resterà. E' un passo quindi morale, non materiale. Non si tratta di fare l'elemosina, di un centesimo o di un miliardo, anche perchè l'elemosina ha il malefico effetto di quietare temporaneamente le nostre coscienze, rimandando soltanto la risoluzione del problema. Si tratta invece di riconoscere che il vantaggio che abbiamo non è - come vorrebbero alcuni - "meritato perchè ce lo siamo conquistato", ma che le nostre "conquiste" sono avvenute grazie ad una superiorità tecnologica che ci è stata regalata dalla nostra stessa ricchezza iniziale. Qualunque altro popolo, nei nostri panni, avrebbe saputo fare esattamente lo stesso. I soldi permettono potenza, e la potenza porta più soldi. Se parti anche soltanto con una lira in più, ti puoi permettere la cerbottana che l'altro non ha, e quello è già fregato. Ecco dove fa corto circuito, il cerchio malefico che noi stessi abbiamo alimentato nel corso degli ultimi secoli - il capitalismo inteso come ideale - nell'illusione di "comprarci" un benessere a cui tutti abbiamo il diritto di aspirare. Per poterti comprare qualcosa, devi prima vendere a qualcuno qualcos'altro: il benessere "acquisito" a suon di dollari non può che reggersi sui dollari che qualcun'altro ti ha dato. Oppure sul suo lavoro, se dollari non ne ha. In ogni caso, si chiama sfruttamento. Ma non sfrutti soltanto, come dicono certe ideologie un pò ingiallite dal tempo, il "capitale" creato dal capitale stesso, oppure il semplice lavoro altrui, sfrutti soprattutto quel vantaggio iniziale che ti dato la roulette della vita, collocandoti nel ventre della moglie di un ricco avvocato parigino piuttosto che non in quello di una mondina vietnamita vedova. Non è quindi giusto approfittarsi di questa posizione di vantaggio, per declamare ai quattro venti un obsoleto darwinismo sociale che giustifichi in qualche modo la propria ricchezza. Quella ricchezza te la potresti davvero giustificare soltanto - se proprio ci tieni - se foste partiti alla pari. D'accordo, ma cosa fare allora? Oltre alle parole, che sono facili, cosa può fare ciascuno di noi, nel quotidiano, per non essere obbligato a partire con la scatola dei cerotti sottobraccio ogni volta che un monsone si porta via dieci villaggi thailandesi? Cambiare dentro. Cambiare noi, e cercare di cambiare quelli che ci stanno intorno. Silenziosamente, senza fretta e senza clamore, ma con impegno e costanza, dovremmo tutti coltivare la nostra consapevolezza di privilegiati, smettere di attribuire tale stato a meriti che non necessariamente abbiamo, e lasciare che questa consapevolezza ci guidi poi nelle azioni quotidiane. Nient'altro. Non c' è nessun bisogno di diventare dei Ghandi della Comasina, per attivare questo meccanismo, basta raggiungere uno stato di "illuminazione" sufficiente a credere - ma crederlo davvero, esserne convinti dentro, e non dirlo soltanto ad alta voce - di essere uguali a tutti gli altri nonostante le apparenze. Se per magia un cambio del genere avvenisse questa notte, contemporaneamente, in tutti gli occidentali, voi non pensate che la situazione degli "altri" da domani comincerebbe a diventare meno insopportabile? Pensate per caso che la guerra in Iraq ci sarebbe stata lo stesso, se tutti gli occidentali l'avessero pensata in questo modo? Visto come le cose, a quel punto, cambierebbero da sole? Mentre finchè ci si ritiene "superiori" dentro ci si giustifica il fatto di avere più degli altri, e quindi nulla di giusto potrà mai avvenire là fuori. Non serve a nulla stabilire con generosità quale quota di immigrati accogliere da un certo paese, o quanti miliardi in aiuti generici stanziare per quell'altro, quando non ci sia questo atteggiamento di fondo che ti impedisca a monte di effettuare certe scelte di prevaricazione, di propugnare certe ideologie elitarie, di implementare certe logiche commerciali da puro strozzinaggio planetario. La Storia, da sempre, l'ha fatta l'Uomo, nel senso di umanità come somma di indiviudui, ed è solo cambiando lui - cambiando ciascun individuo - che potrà cambiare la Storia. Io ho sempre detestato l'allegria a comando e gli appuntamenti con la felicità, specialmente quello del capodanno, per cui bisogna farsi trovare per forza felici e sorridenti a mezzanotte in punto. Ma quest'anno stapperò anch'io volentieri un crodino, e mi ubriacherò di felicità al sapere che il 2004 è finito. E anche se per disegni remoti il prossimo anno dovesse rivelarsi ancora peggio, non importa: intanto questo levatemelo di mezzo. Massimo Mazzucco VEDI ANCHE: [url=http://www.luogocomune.net/lc/modules/news/article.php?storyid=134][lib]wall400-o.jpg[/img][/url] Dalla Palestina a Rio de Janeiro, un’ideale – e non soltanto – parete di cemento marca sempre più visibilmente la separazione fra i privilegiati e le moltitudini affamate del pianeta.