di Fernanda Alene

La storia delle rivendicazioni femminili in Italia inizia verso la fine dell’800, anche se in quel periodo non si parlava ancora di femminismo vero e proprio.  
 
La lotta delle donne era legata alla lotta di classe di tutti i lavoratori, anche se era differenziata, poichè alcuni settori della nuova industria occupavano prevalentemente manodopera femminile.  
 
C’era lo sciopero delle mondine, c’era quello delle lavoratrici del tabacco, scioperavano nelle filande per le cattive condizioni di lavoro, per i salari e soprattutto per ridurre le ore lavorative da 12 a 10.  
 
Soltanto dopo la prima guerra mondiale, negli anni 20, si cominciò a parlare di “emancipazione”.  
 
Le donne chiedevano di poter votare, e chiedevano l’accesso alle facoltà universitarie da cui erano escluse. La prima donna medico in Italia risale a quegli anni. Le donne che guidavano il processo di emancipazione erano la Labriola, di area cattolica, la Mozzoni, repubblicana mazziniana, e la Kulishoff, socialista.
 

IL DOPOGUERRA
 
Nel 1942 nasceva a Roma, nell’Italia ancora in guerra, la Unione Donne Italiane (U.D.I.), su iniziativa di tre donne ... ... dei nascenti partiti di sinistra: Rita Montagnani Togliatti, Maria Romiti e Giuliana Nenni.  

Contemporaneamente, entrava in scena un’organizzazione di matrice cattolica, il C.I.F., guidato da Maria Rimoldi. Il numero delle rappresentanti era esiguo: 26 iscritte per il C.I.F., più o meno altrettante per l’U.D.I. Le due diverse associazioni in qualche modo rispecchiavano quella che sarebbe stata la situazione dell’Italia nel dopoguerra, con un fronte laico e uno cattolico che spesso avrebbero visto intersecarsi i loro percorsi.

In quel periodo si iniziava a discutere quale dovesse essere il ruolo delle donne nella politica. Inizialmente il percorso non era autonomo, ma strettamente legato ai partiti di provenienza.

La spinta femminile per l’emancipazione si esaurì con il raggiungimento del diritto al voto, nel 1946.  


IL SESSANTOTTO

Soltanto nel 1968 si è cominciato a parlare di femminismo vero e proprio, differenziando il concetto di “emancipazione” da quello di “liberazione”.  
 
Quest’ultima conteneva qualcosa in più: non c’era solo il diritto allo studio, al lavoro, alla parità di salario, ma si trattava di mettere in discussione ruoli accettati e consolidati da secoli, si trattava di rimettere in gioco i diritti civili, e quindi di rimettere in discussione la qualità della vita. Di tutti.

Nel 1970 nascono i primi collettivi femministi, all’interno dei gruppi che facevano parte del codiddetto “Movimento Studentesco”. Sono le donne di Lotta Continua, definite “gli angeli del ciclostile“, a riunirsi in gruppi autonomi di discussione, mentre la parte maschile tiene comizi e assemblee. Sono queste donne che, con felice intuizione, hanno coniato lo slogan “il privato è politico“.  
 
Nel 1972 i collettivi delle donne crescono e si moltiplicano in tutta la penisola. C’è il “Movimento Liberazione Donna“ (M.L.D.), c’è il “Fronte Liberazione Donna“, che nasce all’interno dei sindacati, c’è “Rivolta Femminile“, un gruppo teorico a cui aderiscono donne avvocato per studiare la riforma delle vecchie leggi e le proposte di leggi nuove.  
 
Il movimento delle donne cominciava ad essere propositivo. Anche se ogni gruppo agiva in perfetta autonomia, il filo che li univa era il medesimo. Punto di forza principale del movimento era il rifiuto categorico di qualsiasi ingerenza da parte dei partiti. Le riunioni erano libere, ma le donne dei partiti non avevano vita facile, per evitare infiltrazioni che permettessero poi di dare al movimento un’etichetta.

Ogni donna del movimento aveva tre numeri telefono di altre donne, da chiamare in caso di mobilitazione. Le telefonate erano così 3, 9, 27, .., e nel giro di poche ore si riempivano le piazze.


DIRITTO DI FAMIGLIA

Nel 1972 si cominciò a pensare di riscrivere alcune vecchie leggi che risalivano ai primi anni del fascismo, è questo portò alla approvazione del nuovo diritto di famiglia, avvenuta nel 1975.

Queste furono le innovazioni più importanti:  
 
- Separazione nel matrimonio fra rito religioso è rito civile.  
- Riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio.  
- Depenalizzazione dell’adulterio femminile.  
- Comproprietà dei beni acquisiti dopo il matrimonio.  
- Patria potestà riconosciuta anche alla madre.  
 
In seguito sarebbe stata cancellata dal codice penale l’attenuante per delitti d’onore, e sarebbe cessato l’obbligo per le ragazze minorenni di accettare il “matrimonio riparatore“.  
 

DIVORZIO

Nel 1970 era stata approvata la legge che introduceva anche in Italia il divorzio, ma i gruppi cattolici reagirono con una alzata di scudi, e chiesero immediatamente l’istituzione di un referendum popolare per abrogarla.
 
Furono però le stesse donne cattoliche a “rompere i ranghi”, ritrovandosi in molti casi a combattere per il mantenimento della legge accanto al movimento femminista. Di notte le donne affiggevano manifesti a favore del divorzio, di giorno passavano le suore a strapparli.

Anche molti uomini cattolici si dichiararono comunque in favore della possibilità di divorziare, rimandando a ciascun individuo la scelta morale.

Tutto questo portò a un chiaro fallimento del referendum, nel quale quasi il 60 per cento degli italiani votò per non abrogare la legge.


ABORTO

Molto più travagliata e sofferta fu la legge per la legalizzazione dell’aborto, che era già in vigore in altri stati europei.

La prima stesura venne presentata nel 1970 dalla sinistra PCI–PSI-PSD, più repubblicani e radicali (c’era anche Rutelli fra loro), e fu appoggiata dai più importanti giornali italiani.  
 
Nuovamente il mondo cattolico, specialmente femminile, si ritrovò tutt’altro che compatto: la grande piaga dell’aborto clandestino, che colpiva le donne meno abbienti, semplicemente non poteva essere ignorata. Chi aveva possibilità economiche andava ad abortire in Inghilterra, o si affidava a medici esosi e compiacenti, oppure approfittava di cliniche private dove l’intervento veniva registrato come aborto spontaneo.  
 
La DC, che al tempo aveva larga maggioranza, non avrebbe avuto nessuna difficoltà a condurre un’opposizione, ma non lo fece. Era il periodo del compromesso storico, e la DC scelse la stabilità di governo. Ma l’iter della legge fu comunque estenuante: gli stessi parlamentari della DC disertavano le sedute, soprattutto dopo che il governo Moro ebbe dichiarato, nel 1975, di ritenere quella dell’aborto una scelta individuale.  
 
Anche in questo caso ci volle un referendum, quello del 1981, per arrivare alla depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza, che veniva nel frattempo regolamentata molto più adeguatamente. Al momento della ratifica, Andreotti dichiarò che la sua firma avrebbe pesato sulla sua coscienza per sempre, e che avrebbe preferito dimettersi. Poi però non lo fece, come non lo fece nessun altro senatore DC che appose la propria firma. 

 
CONSULTORI E ASILI NIDO

Il movimento delle donne in quegli anni era molto forte, e con la sua presenza massiccia all’interno di organizzazioni storiche come l’UDI o le cattoliche respingeva regolarmente i chiari tentativi dei partiti di cavalcarlo.


Le richieste delle donne sull’applicazione delle nuove leggi erano mirate e precise, non generiche. La legge prevedeva i consultori? Ecco che nelle città e nei piccoli centri le donne affollavano le assemblee comunali, imponendo una “presenza” che non lasciava spazio a scappatoie.

Anche gli assessori più refrattari erano costretti a trovare in tutta fretta un locale (magari anche solo uno scantinato) e un medico non obiettore che lo gestisse.

Se in qualche quartiere di Milano mancava l’asilo nido - come prevedeva la legge - l’allora sindaco Tognoli si ritrovava un gruppo di donne sedute davanti al portone di Palazzo Marino con un cartello che diceva: “Tognolino siamo qua“. E non per un giorno solo: le donne si davano il cambio per 5, 10, 15 giorni, finché l’asilo nido non saltava fuori. 


VIOLENZA SESSUALE

L’ultima legge proposta dai movimenti delle donne fu quella sulla violenza sessuale, nel 1980. Il vecchio codice Rocco qualificava lo stupro come semplice “offesa al pudore“, e quindi non perseguibile in sede penale. Ma lo stupro è reato contro la persona, e come tale  doveva essere riconosciuto.

Dopo i grandi successi del passato, le donne pensavano che avrebbero ottenuto questa modifica di legge con relativa facilità, ma già al momento di raccolgliere le firme sorsero delle difficoltà impreviste: alla parola “sessuale“ gli uomini reagivano malissimo, e il più delle volte se ne andavano senza firmare, sibilando fra i denti “puttane“.  
 
Per evitare spiacevoli mortificazioni, il movimento si ridusse a raccogliere soltanto le firme di altre donne.  
 
Ci volle un anno, ma fu comunque raggiunto il numero di firme necessario per chiedere la modifica della legge, che fu presentata a Roma nel 1981.

Ma a quel punto il movimento delle donne si ritrovò improvvisamente debole e diviso. La spinta iniziale si stava esaurendo, e le lunghe battaglie avevano logorato anche le femministe più tenaci e coriacee. Fu così che le donne di partito riuscirono finalmente a prendere il sopravvento all’interno dell’U.D.I., e di fatto la condussero alla dissoluzione, sancita ufficialmente dal Congresso del 1982.

Nel frattempo, la mancanza di una vera pressione femminile aveva permesso al parlamento di accantonare la legge sulla violenza sessuale, che fu poi approvata solo nel 1996.

In quell’occasione, il partito che l’aveva riesumata se ne fece gloria e vanto, dimenticandosi di spendere una sola parola per tutte quelle donne che 15 anni prima si erano prese delle “puttane” per le strade, per averla proposta in primo luogo.  
 

CONCLUSIONE

Ma era giusto che finisse così.

Ogni movimento crea nella società una spinta di rinnovamento che alla fine lascia qualcosa di nuovo. E a quel punto le donne, stanche di combattere - e forse anche appagate - sentirono il bisogno di “tornare a casa”, dove ritrovarono una famiglia che, seppure scossa, aveva resistito egregiamente.  
 
Ha senso oggi parlare ancora di femminismo attivo?

Il Ministero Delle Pari Opportunità esiste, ma la sua presenza sembra più che altro avallare una antica divisione che oggi non ha più ragione di essere.

Le leggi che sanciscono i diritti delle donne oggi ci sono, anche se alcuni pregiudizi consolidati ne ostacolano a volte l’attuazione. Ma oggi è l’intera società ad essere in crisi, e il bisogno di rinnovamento non si può certo esaurire con la proposta demagogica dei partiti di “garantire il 50% di presenza femminile in parlamento”.

Anche perché la validità del contributo femminile, in politica, è tutt’altro che scontata. In fondo, è  una donna quella parlamentare che alza il dito medio verso la gente che protesta davanti a Montecitorio. È una donna quel Ministro della Salute che dichiara “non nocivi“ i fumi della diossina che esalano dall’immondizia che brucia. È una donna quella radicale che non ha mai speso una parola in difesa dei palestinesi massacrati, ma sostiene che Israele (una delle maggiori potenze nucleari al mondo) ha il diritto di difendersi. E’ una donna quella signora di Milano che ha cercato di affossare quel poco di buono che ancora rimaneva della scuola pubblica italiana.

All’inizio delle loro battaglie, le femministe dicevano “Non ci regaleranno niente”, e avevano ragione, ma oggi è diverso: una volta stabilita e riconosciuta l’eguaglianza dei diritti fondamentali, la donna non può continuare a chiedere posizioni di prestigio solo “perchè donna”, ma deve sapersele meritare. Esattamente come tutti gli altri.

Scritto da Fernanda Alene per luogocomune.net

(Fernanda Alene ha partecipato attivamente al movimento femminista italiano dal 1970 in poi, come dirigente indipendente dell'U.D.I. di Milano)