[i]In occasione dell’ultimo “speech” di Keith Olbermann riportiamo in testa questo articolo di qualche giorno fa. (Segue traduzione completa del testo in italiano).[/i] Sembrava troppo bello che qualcuno dell’amministrazione Bush finisse davvero in galera, per uno qualunque dei mille reati commessi da questi personaggi dal giorno in cui si insediarono a Washington, sette anni fa. E infatti oggi Bush ha pensato bene di condonare a Scooter Libby l’intera pena di due anni e mezzo di carcere, ... ... che gli era stata appena comminata, in quanto giudicato responsabile per aver fatto trapelare alla stampa il nome di un agente segreto della CIA, Valery Plame. La nota vicenda si inserisce in quella, ancora più ampia, del falso documento dal quale si desumeva che Saddam Hussein avesse cercato di procurarsi lo ”yellow cake” – un prodotto chimico per l’arricchimento dell’uranio - dalla Nigeria. A indagare sulle voci di questo presunto tentativo da parte di Saddam era stato mandato l’ex-ambasciatore americano Joseph Wilson – una nomina di Bill Clinton - che però ritornò dalla Nigeria dicendo chiaramente che si trattava di una bufala colossale (avremmo saputo in seguito che il falso documento era stato fornito ai servizi americani da quelli italiani). Ma Bush decise di fingere di non aver sentito, e nel suo discorso all’Unione fece sapere al mondo che “Saddam ha cercato di procurarsi materiali per arricchire l’uranio”. Da Londra Blair rispondeva che “Saddam può colpire l’Europa in 45 minuti”, ed aveva così inizio l’invasione dell’Iraq. A Wilson però non piacque di essere stato usato in quel modo, e pubblicò sul New York Times un lungo articolo, nel quale raccontava la verità: quel documento valeva meno di un rotolo di carta igienica, e quindi il Presidente aveva mentito, ”sapendo di mentire”. Dopo qualche giorno esplodeva il caso Valery Plame, l’agente segreto della CIA il cui nominativo era stato reso pubblico da una fonte interna della Casa Bianca, bruciandone in un solo colpo un’intera carriera, più tutti i progetti ancora in corso in quel momento. Valery Plame risultò anche essere la moglie di Jo Wilson, che era stato in questo modo punito per aver osato rendere pubblica la notizia della falsità del documento usato da Bush come pretesto di guerra. Ma rivelare il nome di un agente segreto in America è considerato un crimine gravissimo, e siccome si sapeva che la “soffiata” era venuta dalla Casa Bianca, Bush in prima persona si impegnò a far cercare il colpevole, finchè non fosse stato trovato e condanato. E questa volta bisogna dire che il Presidente dal naso lungo è stato di parola. L’unica cosa che si è dimenticato di dirci, è che subito dopo lo avrebbe liberato. Massimo Mazzucco Questo il testo del discorso di Olbermann «Non ho votato per lui» ha detto una volta un americano. «Ma è il mio presidente, e spero che faccia un buon lavoro». Questa, nell'anniversario del 4 luglio, è l'essenza della democrazia in 17 parole. Ed è quello che il presidente Bush ha buttato via commutando la sentenza di Lewis «Scooter» Libby. L'uomo che ha detto queste 17 parole, strano ma vero, era l'attore John Wayne. E Wayne, un ultraconservatore, le ha dette quando John F. Kennedy venne eletto per un capello al posto del suo favorito Richard Nixon nel 1960. «Non l'ho votato ma è il mio presidente e spero che faccia un buon lavoro». Il sentimento era stato sicuramente espresso prima ma c'è qualcosa di particolarmente appropriato nel sentirlo, ora, dalla voce di Wayne: la consapevolezza che siamo sopravvissuti per quasi due secoli anche se il nostro comandante in capo ha servito contemporaneamente il paese e la testa di un partito. Noi come cittadini dobbiamo, a un certo punto, ignorare la partigianeria di un presidente. Non per prosperare come nazione, non per raggiungere traguardi, non per guidare il mondo, ma semplicemente per funzionare. Ma ugualmente essenziale, come le 17 parole di Wayne, è una verità implicita, una verità sacra: che il presidente, per il quale molti non hanno votato, può a volte mettere da parte la sua appartenenza politica e, per motivi imperativi, governare per l'intera repubblica. La volontà della nostra generazione di affermare: «non abbiamo votato per lui, ma è il nostro presidente e speriamo che faccia un buon lavoro» è stata testata nei crocevia della storia, e nelle circostanze più tragiche e minacciose. E abbiamo svolto il compito assegnatoci dalla storia. Abbiamo avvolto il nostro presidente nel 2001. E quelli che non credono che avrebbe dovuto essere eletto - e quelli che non credono che sia stato eletto - hanno volontariamente abbassato la voce e hanno assentito al sacro dovere della non-partigianeria, George W. Bush si è preso il nostro assenso, l'ha riconfigurato, l'ha modellato come la punta di un rasoio e l'ha puntato contro la schiena della nazione. Se anche fossero rimaste incertezze o speranze su questo, sono finite ieri, quando George Bush ha commutato la sentenza che mandava in prigione uno della sua squadra. Ha fatto questo prima che la sentenza passasse in giudicato, ha fatto questo senza neanche consultarsi con il Dipartimento della Giustizia; alla faccia di James Madison che, all'assemlea costituente, aveva detto che bisognava procedere contro quei presidenti che avessero perdonato chi aveva commesso crimini dietro consiglio del presidente. Senza tener conto del fatto che anche il più distaccato dei cittadini deve guardare alla catena degli eventi e chiedersi: «Fino a che punto Mr Libby ha detto: infrangi la legge e tuttavia speri che il presidente ti tenga fuori dalla prigione?» In quel momento, Mr. Bush, tu hai rotto il patto comune tra te e la maggioranza dei cittadini di questa nazione, quelli che non hanno raccolto voti per te. In quel momento, Mr. Bush, tu hai finito di essere il presidente degli Stati uniti. In quel momento Mr.Bush, tu sei diventato semplicemente il presidente di un arido e irresponsabile angolo del partito repubblicano. E questa è un'epoca troppo importante, signore, per avere un comandante in capo che mette il partito sopra la nazione. Questa sarà sicuramente l'eredità di questa amministrazione. Poche delle sue decisioni sono sfuggite al pugno di ferro della politica. Lo straordinario Karl Rove ha parlato di una «maggioranza repubblicana permanente», come se una cosa del genere - anche una maggioranza democratica - non fosse antitetica con ciò su cui si fonda il nostro paese, la nostra storia, la nostra rivoluzione, la nostra libertà. La nostra democrazia è sopravvissuta a uomini come Karl Rove. Ed è sopravvissuta al frequente pugno di ferro della politica sul lavoro del governo. Con un'insistenza sempre più crescente e con uno zelo quasi teocratico, ha trasformato questo pugno di ferro in una potente pompa di benzina. La protezione dell'ambiente è accantonata in favore di alcuni membri di un partito politico che beneficieranno finanziariamente dello stupro ambientale, le garanzie costituzionali sono messe a favore di un partito politico che le considera non necessarie e e stravaganti. L'applicazione della legge è prerogativa di un partito politico che ha giurato di fronte a Dio che non avrebbe applicato quella legge. La scelta tra guerra e pace è a disposizione di un partito politico che si batte per un grande benessere assicurandosi che non ci sia mai la pace ma solo la guerra. E adesso che questo libro già letto è stato corretto da un onesto uditore, quando uno che sta truccando l'inviolabile e dovuta lealtà al governo viene condannato da un giudice imparziale, quando un partigiano con la benda sull'occhio viene fermato dalla figura di un giudice cieco, questo presidente decide che lui, e non la legge, deve prevalere. Io ti accuso, Mr.Bush, di aver portato questo paese in guerra. Io ti accuso di aver manipolato le menti della tua stessa gente inventandoti un legame inesistente tra Saddam Hussein e l'11 settembre. Io ti accuso di aver licenziato i generali che ti avevano detto che i piani per l'Iraq erano disastrosamente insufficienti. Ti accuso di aver inutilmente causato la morte di 3.586 nostri figli e fratelli, figlie e sorelle, amici e vicini. Ti accuso di aver sovvertito la costituzione, non per combattere sinceramente il terrorismo ma per reprimere il dissenso. Ti accuso di fomentare la paura tra la tua stessa gente, di creare quel terrore che tu dici di voler combattere. Ti accuso di aver sfruttato quella paura irragionevole, la paura naturale della tua gente, quella stessa gente che vuole semplicemente vivere la sua vita in pace, per zittire i tuoi critici e spazzare via i tuoi oppositori. Ti accuso di aver lasciato la vicepresidenza di questa repubblica a un uomo senza coscienza, e di averlo lasciato libero di condurre i suoi sporchi affari. E ti accuso adesso, Mr. Bush, di aver dato, attraverso quel vicepresidente, carta bianca a Mr. Libby, di aver contribuito a diffamare l'ambasciatore Joseph Wilson con qualsiasi mezzo necessario, di aver mentito alle alte corti, alle commissioni speciali e a un tribunale, al fine di proteggere i meccanismi e i particolari di quella diffamazione, garantendo a Mr. Libby che non avrebbe mai visto la prigione, e facendo questo, come ha detto l'ambasciatore Wilson l'altra notte, di essere diventato un accessorio all'ostruzione della giustizia. Quando il presidente Nixon ordinò il licenziamento di Archibal Cox, giudice speciale per il Watergate, durante l'infame «Massacro del sabato sera», il 20 ottobre 1973, Cox inizialmente rispose stringato e inquietante: «O il nostro sarà un governo delle leggi e non degli uomini, o la parola passa al congresso, e in ultima istanza al popolo americano». Il presidente Nixon non aveva capito quanto si fosse cristallizzata la questione del Watergate per il popolo americano. Si trattava di un oscuro disegno, dietro al tentativo di violare la legge facendo irruzione nel quartier generale del partito rivale; facendo sforzi labirintici nel tentativo di occultare quell'irruzione e i crimini ad esso connessi. E in una notte Nixon l'ha trasformato. Il Watergate è diventato di colpo una questione più semplice: un presidente che violava l'inesorabile marcia della legge insistendo - in un modo che risuonava viscerale a milioni che non l'avevano capito prima - che quella era la legge. Adesso non c'è nè la costituzione, nè le leggi, nè i tribunali. C'è solo lui. (...) Il 4 luglio, Mr.Bush, è la commemorazione di un momento in cui noi americani abbiamo deciso che piuttosto che vivere sotto un re al di sopra delle leggi, col potere di farle, cancellarle, col potere di annullare le sentenze di quelli giustamente condannati, ci saremmo presi l'indipendenza con la forza, e avremmo riguadagnato le nostre sacre libertà. Noi di questa epoca - e i nostri leader in congresso di entrambi i partiti - dobbiamo far rivivere quegli standard che echeggiano nella nostra storia. Pressioni, negoziati, impeachment fai da te: dobbiamo dire a Mr. Bush e Mr. Cheney, due uomini pericolosi per la nostra democrazia, di abbassare la testa. Per te Mr. Bush, e per te Mr. Cheney, c'è un compito da meno. Fate un gesto a buon mercato, mostrate solo una virgola di patriottismo, come ha fatto Richard Nixon il 9 agosto del 1974. Dimettetevi. E dateci qualcuno - chiunque - per il quale tutti noi possiamo citare John Wayne e dire: «Non ho votato per lui, ma è il mio presidente, e spero che faccia un buon lavoro». MSNBC, 3 luglio 2007 (Traduzione “il Manifesto”)