Diversi utenti mi hanno chiesto di pubblicare questo articolo di Alberto Bagnai. Lo faccio volentieri, con le solte raccomandazioni per chi partecipa alla discussione:
 
“Austeriani” e “appellisti”: le due favole sull’austerità
 
Secondo il Wikizionario, si intende per austerità un “atteggiamento e comportamento personale rigido e, a volte, intransigente nel contenere i desideri, le esigenze, le abitudini e il contegno”. La prima domanda che dovremmo porci quando parliamo di austerità è perché mai per descrivere uno strumento di politica economica (sostanzialmente, politiche di tagli alla spesa pubblica) si utilizzi una parola che trasmette un giudizio di valore positivo. L’austerità, in linea di principio, è una virtù, o per lo meno sono percepiti come vizi alcuni suoi antonimi, come la licenziosità, o la lussuria.
La scelta delle parole è importante. Ogni volta che una parola connotata positivamente in termini emotivi viene utilizzata in un dibattito nel quale dovrebbe prevalere la razionalità, la manipolazione è all’opera, e il disastro incombe. Il “sogno” europeo e l’“austerità” sono due ottimi esempi (e il secondo è ampiamente una conseguenza del primo). La favoletta morale suggerita dal termine “austerità” è semplice: la crisi con la quale conviviamo da anni sarebbe stata causata dalla prodigalità dello Stato ladro. La medicina amara dell’austerità, somministrata da tecnocrati virtuosi, è l’unico rimedio per simili eccessi del passato. Inutile dirlo, questa favola è sembrata plausibile a quelli che Keynes chiama “the ordinary unistructed person”, e che noi forse chiameremmo l’uomo della strada, o la società “civile”. Tutti siamo chiamati a pagare le imposte, e molti reagiscono considerando lo stato come un nemico. Una favola in cui il cattivo è un tuo nemico indubbiamente è seducente. Tuttavia, non per questo rispecchierà la realtà.

  Fin dall’inizio della crisi un ristretto gruppo di economisti ha posto in evidenza come la favola dell’austerità non rispecchiasse la realtà fattuale: nella maggior parte dei paesi in crisi il debito pubblico era stabile o decrescente. In ogni e ciascun caso era il debito privato con l’estero ad essere cresciuto, ovvero il debito delle imprese e delle famiglie residenti verso creditori (ovviamente privati) non residenti. Quindi ciò cui assistevamo non era una crisi di debito “sovrano”, ma di bilancia dei pagamenti con l’estero (che amara ironia – o che scaltra manipolazione! Chiamiamo “sovrano” il debito di stati che sono sempre più spossessati della propria sovranità economica dall’applicazione selettiva delle regole europee…). La crisi quindi non era stata causata dalla prodigalità dei governi, quanto dal fatto che l’euro, troppo debole per i paesi del Nord e troppo forte per quelli del Sud, aveva favorito l’accumularsi di enormi squilibri commerciali: le esportazioni dei paesi del Nord erano state favorite da una valuta relativamente debole, così come le importazioni dei paesi del Sud lo erano state dalla stessa valuta, che per loro era, però, relativamente forte. In più, l’euro aveva favorito l’incauto finanziamento di questi squilibri. In effetti, era proprio per questo che l’euro era stato fatto: per favorire l’integrazione finanziaria, cioè la capacità dei residenti di un paese di indebitarsi coi creditori di un altro paese.

Nel periodo più caldo della crisi (era il 2011) nessuno ci stette a sentire. Ma poi, il 23 maggio del 2013 il vicepresidente della Bce, Vitor Constâncio, confermò, in un suo celebre discorso tenuto alla Banca nazionale greca, che il debito pubblico non era la causa della crisi. Dopo solo altri due anni, il 7 settembre 2015, Francesco Giavazzi, il sommo sacerdote degli “austeriani”, è giunto alla stessa conclusione, su Voxeu.org. Ciò significa forse che l’austerità fosse una politica sbagliata? Per quanto ciò possa sembrare paradossale, l’austerità è risultata essere la risposta (provvisoriamente) giusta alla domanda sbagliata. La domanda (come risanare la finanza pubblica?) era sbagliata, perché il debito pubblico inizialmente non era un problema. Ma la risposta era giusta, perché “destroying domestic demand” (“distruggendo la domanda interna, nelle parole di Mario Monti), l’austerità ha riequilibrato i conti con l’estero, che erano il vero problema. La caduta del reddito nei paesi del Sud ha ridotto le loro importazioni; si supponeva inoltre che la caduta dei redditi da lavoro (che dal punto di vista dell’impresa sono il costo del lavoro), favorita da una disoccupazione alle stelle, potesse dare impulso alle loro esportazioni.
 
Tanto per fare un esempio, in Italia dal 2010 al 2014 il saldo della bilancia dei pagamenti (partite correnti) è migliorato di 5 punti percentuali di Pil. Ma per questo risultato si è pagato un costo: il debito pubblico è aumentato di 17 punti di Pil, e la perdita di Pil cumulata è arrivata al -2.6%. Perché mai l’austerità ha deteriorato le finanze pubbliche, invece di risanarle? Bè, perché, come non era difficile capire, “distruggendo domanda” si causa una crisi di domanda, e quindi deflazione. Mentre l’onere del debito in termini reali stava aumentando, la raccolta fiscale stava diminuendo, e il rapporto debito/Pil è esploso. Improvvisamente la domanda sbagliata è diventata quella giusta! Il debito pubblico sta diventando un problema pressoché ovunque nell’Eurozona. Ma a monte di tutto questo, la strategia che consiste nel rispondere a shock esterni distruggendo domanda interna elimina il principale vantaggio dell’unione economica, che è appunto l’opportunità di sostenere la crescita dei paesi membri attraverso con la domanda espressa da un grande mercato unico (come aveva giudiziosamente evidenziato un altro “austeriano”, Alesina, nel 1997).
C’è una strategia alternativa? Ma certo che c’è! Qualsiasi libro di testo vi dirà che è la flessibilità del cambio nominale. Esatto: avete capito! Nell’Eurozona, l’applicazione di questa strategia passa per la fine dell’euro. Naturalmente i credenti nella religione dell’euro da questo orecchio non ci sentono. La reazione dei più fanatici consiste nel proporre un’altra favoletta morale, nella quale il cattivo è l’austerità malvagia, imposta da perfidi tecnocrati. Ma ora, continua la favoletta, gli ardimentosi politici combatteranno l’austerità, e come sempre sarà il bene a vincere e il male a perdere. Definisco “appellisti” questi contafavole, per la loro abitudine seccante di scrivere lunghi appelli. Per motivi non meglio specificati questi colleghi sembrano non capire che una espansione unilaterale del reddito nei paesi del Sud comprometterebbe sia le bilance dei pagamenti che (dopo l’austerità) i conti pubblici di questi ultimi. E si rifiutano anche di capire che politiche espansive coordinate a livello dell’Eurozona non sono politicamente fattibili. Certo, ognuno è libero di auspicarle, e di scrivere un bell’appello per chiederne l’applicazione, ma il caso greco è un eloquente esempio dell’uso cui son destinati gli appelli.
 
Riassumendo: con gli “austeriani” e le loro tardive conversioni la scienza economica ha perso la propria credibilità. Con gli “appellisti” sta perdendo la propria dignità. Ogni libro di testo del triennio vi spiegherà che a meno che non si ripristini un certo grado di flessibilità del cambio, un eccesso di importazioni può essere rettificato sono tagliando i redditi (e per questa strada portando l’intero sistema al collasso). Il rifiuto di riconoscere questo semplice dato di fatto rischia di riaprire in Europa la stagione buia delle guerre di religione, con l’unica differenza che questa volta la storia è cominciata quando i politici europei hanno deciso che “(una poltrona a) Bruxelles val bene una moneta unica”.

Alberto Bagnai (Fonte)