Ormai sono diventate immagini familiari: case distrutte, gente che piange, interi borghi cancellati dalla mappa del territorio.

Ma quello che sta diventando evidente soltanto adesso, dopo due mesi di uno sciame sismico che non accenna a terminare, è la paura profonda di coloro che vengono ritrovarsi improvvisamente senza un futuro.

Alla morte dei propri cari si riesce sempre a dare un senso, alla perdita del proprio futuro no.

Le immagini più devastanti di questi ultimi giorni, infatti, non sono quelle delle chiese sventrate e dei campanili abbattuti, ma sono le immagini delle persone che si aggirano con lo sguardo vuoto per le strade del proprio paese, senza più sapere dove andare.

Non è certo un caso, infatti, che molti di costoro si stiano testardamente rifiutando di abbandonare il proprio territorio, nonostante l'inverno in arrivo renda impossibile pensare di rimanere a dormire sotto le tende oppure nelle proprie automobili.

Queste persone non vogliono abbandonare il proprio paese non tanto perché temano gli sciacallaggi, ma perché in realtà nel momento in cui si allontanassero dal proprio territorio si ritroverebbero ad aver perso il senso della loro esistenza.

Schopenauer definiva pazzo colui che ha perso la memoria. Nel caso dei terremotati, la situazione è molto simile: nel momento in cui viene cancellata la tua casa viene cancellata anche la tua identità. Non sei più nessuno, perché tu eri ciò che eri soltanto se inserito nel tessuto sociale in cui vivevi.

Questa esperienza traumatica, a cui stiamo assistendo ogni giorno tramite i telegiornali, ci ricorda qualcosa di essenziale e profondo che riguarda la natura umana: la nostra valenza, all'interno della società civile, è data primariamente dal ruolo e dalla posizione che occupiamo in questa società. Se tu togli al panettiere il suo negozio di pane, se togli al contadino la stalla delle sue mucche, se togli al prete il pulpito da cui predicava, tu hai tolto nello stesso istante l'identità sociale a tutte queste persone.

Certo, il panettiere potrà tornare a fare il pane da un'altra parte, il contadino potrà trovare un altro rifugio per le sue mucche, il prete potrà andare a predicare in un'altra parrocchia, ma nel momento in cui si toglie a queste persone l'habitat nel quale vivevano quotidianamente, queste persone cessano di esistere dal punto di vista sociale.

Sono come degli zombi, delle non-entità biologiche, una semplice lista di nomi e cognomi senza più un recapito o una dicitura sociale con cui identificarli.

È curioso come la nostra società sia preparata ad affrontare tempestivamente queste emergenze dal punto di vista fisico (la protezione civile ha lavorato in modo eccellente negli ultimi mesi), ma non sia poi preparata a proteggere gli individui dalla loro perdita di identità sociale.

Gli sfollati delle zone terremotate vengono sistemati con rapidità nelle varie strutture disponibili sul territorio, ma vengono spostati di qua di là come se fossero delle semplici valigie numerate da 1 a 1000.

Solo nel momento in cui questi hanno iniziato a protestare, e hanno deciso di affrontare i rigori delle notti in tenda piuttosto che vivere lo strappo emotivo con il proprio passato, qualcuno ha iniziato a rendersi conto che queste persone, al di fuori del loro territorio, non sarebbero state più nulla.

Speriamo che alla fine sia questo criterio di umanità, e non quello della semplice efficienza burocratica, a gestire la tragedia e il fragile futuro di tutte queste persone.

Massimo Mazzucco