di Fabio de Nardis

Prima Parte (15-24 Febbraio)

Vai alla seconda parte (25 Febbraio - Oggi)

INDICE


24.2 – Noi crediamo in Dio
23.2 (II) – Pon Pon radicali
23.2 (I)  – Benvenuto
22.2 – Evviva la rivoluzione!
21.2 – Comunitarismo
20.2 – Il cimitero dei Veterani
19.2 – Il ritiro di Dean e i Bus di L.A.
18.2 – Chi non si adegua è folle
17.2 – Il Campus
16.2 – Ma dove sono gli americani?
15.2 - Il primo impatto con la realtà americana




Martedì 24 febbario 2004 – Noi crediamo in Dio

La zona dove vivo mi piace. È fatta di tante casette divise da piccoli viali alberati che si ramificano a Ovest del Campus nel quartiere di Westwood. Una sorta di labirinto di strade in cui tutt’ora mi perdo regolarmente nel tentativo di raggiungere il mio alloggio. Credo sia una zona ricca anche se non sono molti coloro che la abitano stabilmente. La maggior parte delle case è adibita agli studenti che prendono in affitto appartamenti o stanze per tutta la durata dell’anno accademico e in genere cambiano alloggio la stagione successiva. Molti degli edifici sono di proprietà delle confraternite studentesche e si riconoscono perché marchiati con sigle riprese dall’alfabeto Greco.

Quello delle confraternite è un fenomeno tipicamente americano e del tutto inesistente in Europa. Esse agiscono da associazioni di assistenza per gli studenti che ne fanno parte e generalmente sviluppano un forte senso di gruppo che spesso degenera in forme di comunitarismo pseudomassonico. Anche i simboli si richiamano alla massoneria (probabilmente senza che gli adepti ne abbiamo una seria consapevolezza). Oggi per esempio sono passato di fronte a un edificio segnato da una grande scritta, TRIANGLE, probabilmente il nome del gruppo, e il logo che la contraddistingueva era appunto un grande triangolo (stile massonico) con all’interno una T stilizzata che toccava i tre lati geometrici. Ieri sono invece passato di fronte a una casa al cui piano terra era stata anche predisposta una piccola palestra con tanto di spazio per il pugilato (spesso a L.A. si organizzano piccole palestre condominiali) e accanto alla quale, vicino all’ingresso, era dipinto con vernice bianca su sfondo nero un grande teschio ai cui lati erano apposte le sigle della confraternita (naturalmente in Greco). La cosa mi ha fatto pensare a un brutto film americano che ho affittato tempo fa e che parlava proprio di una massoneria studentesca nata all’interno di un Campus prestigioso ma che poi accompagnava i propri adepti per tutta la vita. Il nome della confraternita era appunto SKULLS (Teschi) con un simbolo che riprendeva vagamente quello che vi ho descritto.

Comunque non ho l’impressione che alla UCLA queste confraternite vadano molto oltre la rivendicazione di gruppo. Al contrario si nota un forte attivismo studentesco su questioni sociali e culturali. Già ho parlato degli studenti contro il terrorismo, degli Spark e dei Workers Vanguard. Ma questi rappresentano solo una piccola parte di una miriade di gruppi associativi, molti dei quali legati a sette religiose. Mi vengono in mente l’associazione degli studenti cattolici (che negli Usa rappresentano poco più di una setta tra l’altro in crisi dopo gli scandali della pedofilia), ma anche gli studenti ebrei che mostrano un forte attivismo, sovente di impronta progressista. Oggi per esempio mi capita tra le mani un volantino che pubblicizza la presentazione di un documentario sui Black Panthers, un movimento che non ha nulla a che vedere con quello omonimo nato negli Usa negli anni settanta, ma che nello stesso periodo sorgeva in Israele su posizioni critiche nei confronti della politica statale sulla questione palestinese. L’iniziativa, co-sponsorizzata dall’International Institute Student Association (IISA), è ufficialmente organizzata dalla Progressive Jewish Student Association insieme alla United Arab Society. Poco distante trovo un altro volantino (questa volta anonimo ma con una grafica analoga a quello precedente) che esprime la necessità che gli americani si ritirino subito dal’Iraq e che si muovano invece per garantire una soluzione pacifica alla questione palestinese, un popolo “still caught in a terrible limbo - refugees in their own land – controlled by Israel in the longest military occupation in modern times”.

Ma questa è solo una piccola parte delle iniziative organizzate da associazioni studentesche religiose a cui si accostano le associazioni dei gruppi etnici che ora, come nel caso dei filippini e dei latinos, si organizzano in vere e proprie società di mutua assistenza, ora, come nel caso dei neri, preparano i festeggiamenti del Black Month, in memoria di figure storiche come Martin Luther King e MalcomX. Esiste addirittura, cosa che non avrei mai immaginato, una associazione di studenti laicisti, i cosiddetti Associated Secular Students che al grido di Wake Up! (svegliatevi) si battono contro quel fondamentalismo religioso che è una costante storica negli Stati Uniti. Qualcuno una volta scrisse che gli americani hanno due grandi idoli, Dio e Denaro, uno strano connubio che, tra l’altro, ci viene ricordato tutti i giorni quando prendiamo in mano un biglietto da un dollaro sul cui bordo vediamo scritto: “In God We Trust” (noi crediamo in Dio).

Il rapporto tra Stati Uniti e Religione ha radici antiche che trovano origine fin dalla nascita della Federazione. In Europa gli Stati nazione sono nati contro la Chiesa, o se non altro contro il suo potere temporale, sancendo quella frattura tra politica e religione che ancora oggi permane, seppur con differenze sostanziali, da paese a paese. In Inghilterra addirittura, Enrico VIII, per evitare ingerenze religiose, si è posto egli stesso a capo della English Church, producendo quell’insanamibile scisma tra Chiesa Cattolica Romana e Chiesa Anglicana.

Gli Stati Uniti, al contrario, pur non avendo mai dovuto affrontare la questione del potere ipertrofico della Chiesa di Roma, sono altresì il prodotto di una unione consapevole tra comunità puritane che hanno edificato lo Stato sotto i rigidi dettami della morale calvinista. Ancora oggi negli Usa nessuno, o quasi, si dichiara ateo o agnostico, e il credo religioso è fondamentale anche nella connotazione politica di un candidato alla carica di Capo dello Stato.

Torna all'indice



Lunedì 23 Febbraio 2004 (II) – Pon Pon radicali

Oggi mi hanno dato la mia Bruin Card con tanto di foto. Come porta scritto sopra, è una sorta di “Passport to life in UCLA”. Ho anche un nuovo indirizzo e-mail, per chi volesse scrivermi, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., che ho già trovato intasato di inviti a conferenze e seminari. Insomma, da oggi sono a tutti gli effetti un “UCLA affiliate” come è scritto sul mio certificato. La cosa fa un certo effetto.

Soddisfatto, mi metto a leggere, come tutti i giorni, la mia copia del Los Angeles Times, un quotidiano ben fatto che si legge facilmente. Pare che il Neo-Governatore Arnold Schwarzenegger abbia avviato un’azione disciplinare affinché si blocchi la “parata di matrimoni omosessuali” avviata dal sindaco di San Fransisco che, ricordo per chi non avesse seguito tutto il Blog, alcuni giorni fa ha fatto approvare un provvedimento dal Consiglio comunale che acconsente la licenza di matrimonio per Gay e Lesbiche, creando un putiferio in tutti gli Stati Uniti. Come afferma il nostro Schwarzy, un simile provvedimento “è contrario alle leggi dello Stato della California e presenta imminenti rischi per l’ordine pubblico”. Non soddisfatto ha dichiarato, di fronte alla platea dei 700 delegati in delirio del California Republican Party riunito in Convention a Burlingame, che “è arrivato il momento che la città di San Francisco cominci a rispettare la legge”. Insomma, il nostro Terminator ha ritirato fuori i muscoli.

Lo Stato della California non è mai stato al centro dell’attenzione del movimento omosessuale, né il tema del matrimonio è mai stato oggetto di particolare conflitto. Molti Gay e lesbiche considerano l’istituzione matrimoniale un fatto da eterosessuali e quindi non rilevante ai fini di un’azione progettuale. Ma l’iniziativa del Sindaco Gavin Newsom, gay dichiarato, ha riportato l’attenzione sulla questione che riveste ormai un forte valore simbolico. Come afferma una delle portavoci del movimento, il caso californiano è un test importante per misurare il livello di sensibilizzazione sociale sul tema dei diritti civili: anzi, è pronta a scommettere che nel giro di cinque anni i gay e le lesbiche avranno gli stessi diritti degli etero. E aggiunge rivolgendosi al giornalista: “Se perdo, ti pago lo champagne”.

Rimanendo in tema di movimenti, leggo che quello contro la Guerra si sta organizzando, anche se un po’ all’americana. Pare sia nato un gruppo di Radical Teen Cheerleaders (lett., ragazze pon pon radicali), che utilizzeranno le tecniche del tifo sportivo per lanciare un messaggio antibellico; ed è già pronta una prima filastrocca: “Hey, Bush! / Who fights your wars? / Just minorities and the poor! / The CIA / Kills people, yeah / for corporations, yeah, they just want more! / Who trained Bin Laden? / Who armed, Who armed Saddam Hussein? / We’re out, / we’re out to get, / we’re out to get those hypocrities!”. Niente male. Pare anche che ci sia tutta una procedura per entrare a far parte del gruppo, l’unico ad essere composto quasi esclusivamente da High School Students, e la partecipazione obbliga ad ore e ore di allenamento per perfezionare le tecniche, come il “goast post” (entrambe le braccia tese in alto) e il “dagger arms” (la posizione a scrigno chiuso). Insomma, evviva la fantasia al potere!

Nel frattempo l’occhio mi scappa su un’altra notizia … il Monaco vietnamita Thich Nhat Hanh è sbarcato a Los Angeles dove rimarrà per tre mesi. La sua missione? Tenere un ciclo di conferenze per insegnare agli americani, attraverso le tecniche Zen, a smettere di vedere nel prossimo un potenziale terrorista. Interessante … forse con loro funziona.

Torna all'indice



Lunedì 23 Febbraio 2004 (I) – Benvenuto

Ieri sera mi sono finalmente insediato a casa di Vince. Appenna entrato mi ha subito accolto con un: “welcome to your new home”, e devo dire che la cosa mi ha fatto piacere, anche perché quasi ci avevo perso la speranza. Dopo questa mossa di gentilezza ha tirato subito fuori la sua vera natura da misantropo. Mi ha chiesto i soldi, un mese + deposito, che potrò dargli solo oggi, e mi ha spiegato le regole della casa. Levarsi le scarpe prima di entrare, ognuno fa la spesa per sé, lavare sempre i propri piatti; insomma, guai a socializzare troppo. Praticamente separati in casa, anzi nel mio caso, in stanza. Non siamo soli, pare ci siano altri due inquilini. Lui mi ha assicurato che erano in casa ma io, vi giuro, non li ho visti. Mi ha detto che erano andati a dormire. Erano solo le 8.45pm e devo ammettere che la cosa mi ha un po’ destabilizzato. Dalle scarpe all’ingresso ho intuito che almeno uno dei due non dovrebbe essere asiatico, dal momento che quel paio di scarpe da ginnastica numero 43/44 di certo non sono di Vince e probabilmente neanche di un giapponese, forse di un cinese. No so.

Vince, malgrado la durezza, è un ragazzo simpatico, sarà alto un metro e cinquanta, studia informatica alla UCLA e nel frattempo si mantiene lavorando credo in un’agenzia di Computer grafica. Per tutta la stanza e nel piccolo sgabuzzino dove mi ha lasciato un angolo minimo per la mia robba, sono appese le foto sue e della sua famiglia nelle filippine. Alcune lo riprendono con altri amici mentre è impegnato in strane danze tribali (anche tra i filippini è il più basso!). La cosa mi fa tenerezza. Io sono qui per quattro mesi e poi torno; credo sarebbe molto più difficile se mi dovessi trasferire permanentemente in un paese tanto lontano lasciando tutti i miei affetti. Ho notato anche una foto immagino della madre con indosso una felpa della UCLA. Per i genitori credo sia un orgoglio, anche se difficile, vedere il figlio in un centro universitario tanto prestigioso.

Comunque è un po’ autoritario. Si è ripreso nervosamente due piccole stampelle che mi ero permesso di usare per appendere i miei pantaloni, dicendo che prima di prendere iniziative devo parlare con lui. Quelle infatti gli servono per appendere i panni sporchi e la cosa dovrebbe essere per me facilmente riconoscibile dal piccolo autografo che ha apposto su tutto ciò che è suo. Pare sia così anche con gli altri dal momento che in cucina (che fa tutt’uno con l’ingresso e il salone) accanto ad alcune scodelle sporche ho notato un bigliettino con su scritto: “Clean dishes, please put away”, con tono un po’ militaresco.

La notte è andata abbastanza bene, tranne che mi ero un po’ appesantito con una strana poltiglia coreana a base di riso e vari tipi di carne. Devo dire però che non si mangia male come credevo. Il fatto che gli americani non abbiano una propria identità culinaria li rende molto suscettibili a strani sincretismi che, bisogna ammettere, non vengono affatto male. La notte è stata fredda e io non avevo neanche una coperta o un cuscino. La mia unica protezione era il lenzuolo che mi sono portato dall’Italia e per cuscino ne ho preso uno impolverato dal divano. Oggi dovrò fare un po’ di spese; almeno una coperta, del cuscino posso fare anche a meno, e un paio di stampelle, oltre al cibo, naturalmente.

Sono più sereno e posso dedicarmi tranquillamente alle attività universitarie. È impressionante il numero di seminari e conferenze organizzate per ricercatori e studenti dai diversi centri afferenti all’International Institute; ho solo l’imbarazzo della scelta. Posso partecipare a un incontro con David Laitin (Stanford University), che ci parla di “Sons of the Soil: Immigrants and Civil War”; oppure posso andare da Stephen Kinzer (inviato del New York Times) che discute con gli studenti del tema, “The United States and the March Toward Democracy in Iran”: posso anche decidere di andare alla conferenza di Penda Mbow (University of Cheikh Anta Diop in Dakar, Senegal) che parla di “Gender and Sufism in the Popular Neighborhoods of Senegal” (e questo mi fa capire che dovrebbe trattarsi di una donna); posso altresì partecipare all’incontro presieduto da Mia Bloom (Center for Global Security and Democracy della Rutgers University) sul tema, “Devising a Theory of Suicide Terror”, o ancora posso andare da David Yoo che parla di Korea o da Xu Shaohua, che parla di Cina, e così via. Oggi ci sarà anche il caro Larry Everest a presentare il suo libro contro la Guerra all’Iraq (naturalmente l’incontro è organizzato dal Dipartimento di Sociologia).

Decido di partecipare, non oggi ma domani, a una lezione di Lesley Sklair (London School of Economics) che parla di “Transnational Capitalist Class and the Present Crisis”, un tema azzeccatissimo per i miei studi. Successivamente ci sarà anche un incontro con Mary Kaldor (sempre LSE) che dirige da Londra l’Osservatorio permanente sulla Global Civil Society. Insomma, una grande offerta formativa nel giro di una trentina di ore, e solo tra i Dipartimenti di Scienza Politica e di Sociologia. Italia, prendi esempio!

Torna all'indice



Domenica 22 Febbraio 2004 – Evviva la rivoluzione!

Oggi mi sono congedado dal Claremont Hotel e stasera intorno alle 8pm dovrei raggiungere la mia nuova destinazione. Il tempo è ancora uggioso e anche se è Domenica decido di fare comunque un salto all’Università per sbrigare alcune faccende. A ora di pranzo decido di andare a mangiare tra DownTown e Est Los Angeles, una di quelle zone dove è meglio non andare dopo una certa ora. In realtà mi dà l’impressione di essere una zona viva, sarà che la pressochè totale presenza di latini me la fa sembrare più vicina. Mi fermo a mangiare in una specie di chioschetto ricavato da alcune lamiere contorte, uno di quei posti decisamente non pensato per i turisti. Igiene zero, nessuna insegna, prezzi da fame e a mangiarci solo messicani. Il proprietario è molto sorridente e simpatico oltre ad avere un viso terribilmente familiare. Mi serve su un piatto un Burrito ripieno di riso, carne di vitello e fagioli accompagnato da un drink che credevo fosse vino ma che in realtà scopro essere una bevanda chiamata Jamaica a base credo di amarena. Trovare dell’alcool, anche una semplice birra, è un’utopia negli Stati Uniti. Lo si recupera solo nei negozi ultrablindati di superalcolici o nei Nighits, che perlopiù sono locali poco raccomandabili dove la principale attrazione è la bella di turno che fa lo strip. Comunque mi accontento. Mi siedo su un banchetto e comincio a mangiare il mio burrito, devo dire buonissimo, mentre un fastidiosissimo piccione mi si siede accanto e mi punzecchia il braccio intenzionato a entrarmi nel piatto, cosa che gli consento solo dopo aver terminato. Bisogna dire che i piccioni qui sono circa il doppio dei nostri, probabilmente per tutte le porcherie geneticamente modificate che si mangiano.

Comincio a passeggiare, anche per digerire quel pasto gradevole ma estremamente pesante e rimango attratto da uni’insegna colorata con su scritto: “Libros Revolución”. Accanto c’è una grande bandiera rossa che nasconde un enorme murales. Si tratta della libreria ufficiale del Revolutionary Communist Party of the United States, un partito di ispirazione maoista che, come nel caso dei trotzkysti di Spark e di Workers Vanguard, è piuttosto attivo nell’opposizione all’amministrazione Bush. Entro e mi rendo conto che, all’interno, un certo Larry Everest sta presentando di fronte a una ricca platea il suo ultimo libro, “Oil, Power & Empire” contro la Guerra all’Iraq. Comincio anche io ad ascoltare e devo dire che, sfoltendo il suo discorso di quel pizzico di retorica necessaria a mantenere costante l’attenzione dell’uditorio, le nostre posizioni non sono tanto distanti: Critica alla globalizzazione neoliberale, opposizione allo strapotere delle multinazionali e alla Guerra espansionista perpetrata dall’amministrazione repubblicana.

Mi guardo un po’ intorno e l’ambiente non mi dispiace. Si tratta di una specie di centro sociale; hanno anche preparato un piccolo rinfresco per i convenuti ma io, pieno zeppo di fagioli e carne, non ne ho usufruito. La biblioteca è piuttosto fitta di libri legati alla tradizione marxista-leninista. Tantissimi sono gli scritti di Mao accanto a quelli di un altro autore di cui ora non ricordo il nome ma che credo fosse il portavoce del movimento. Oltre ai testi si distribuiscono anche videocassette di testimonianza rivoluzionaria e volantini contro la pena di morte, per la liberazione di Mumia Abu-Jamal, che ormai è diventato un simbolo del movimento mondiale contro l'esecuzione capitale. Rimango qualche minuto, poi esco sicuro di tornare prima o poi. Anche in questo caso mi porto via come souvenir il loro giornaletto intitolato “Revolutionary Worker” che in prima pagina recita: “Nepal: Revolution at the Top of the World” con articoli tematici sulla Guerra civile in Nepal.

Appena fuori dalla libreria mi si accosta un giovane che, attratto dal giornale “eversivo” che porto sotto il braccio, decide di socializzare. È simpatico, dice di chiamarsi Sean e di lavorare come operaio presso un’impresa di costruzioni qui a Los Angeles, anche lui ha partecipato alla presentazione del libro e vuole discuterne con me. Si offre di riaccompagnarmi a Westwood con la sua Jeep e io accetto con piacere. Il discorso sulla globalizzazone antimperialista dura poco. Sean, infatti, sembra molto più interessanto a sapere da me qual è l’attuale situazione in Italia e quali gli spazi per portare avanti una seria azione rivoluzionaria. Mi chiede quali siano le iniziative che il Partito della Rifondazione Comunista intraprende per cambiare l’assetto di potere e se l’obiettivo finale è ancora l’abolizione della proprietà privata, elemento per lui cruciale. Io gli dico che in Europa c’è probabilmente spazio per intraprendere una trasformazione del sistema per via riformistica. Lui mi chiede se credo veramente che il capitalismo possa essere riformato. Io non rispondo.

Il viaggio dura una ventina di minuti e le domande del compagno Sean si fanno sempre più insistenti. Mi chiede cosa penso degli Stati Uniti, come vedo iniziative autogestite come quelle di Libros Revolución, se mi rendo conto dell'indifferenza imperante all'interno del Campus e tra i giovani americani. Se noto che qui di quello che succede in Iraq, in Afghanistan, dei morti di Aids in Africa non frega niente a nessuno e che si pensa solo all’esteriorità, al bell'aspetto, alla bella casa, alla bella auto. Per quanto parli con estrema calma, quasi bisbigliando, noto in Sean una rabbia che lo risucchia, la rabbia di chi non ha potere, di chi vorrebbe cambiare le cose sapendo che le cose non cambieranno.

Gli rispondo che considero la libreria uno dei pochi spazi di libertà in un paese dal sistema politico profondamente escludente, dove le voci alternative finiscono comunque per essere marginalizzate. Lui annuisce, ma sembra deluso da ciò che ho detto, come se si aspettasse qualcosa di più da un docente universitario. Nel frattempo siamo arrivati, io lo ringrazio, gli lascio la mia e-mail, lui mi saluta. Non credo mi scriverà mai.

Torna all'indice
 


Sabato 21 Febbraio 2004 – Comunitarismo

Oggi è una buona giornata. Vince, il ragazzo Filippino, mi ha fatto sapere che posso andare a casa sua e condividere l’appartamento con lui e forse un altro studente della UCLA, la cosa non mi è ancora molto chiara. Posso raggiungerli fin da domani sera al 550 di Veteran av., una lunga strada non distante dall’Universita’. Vorrei festeggiare, ma le condizioni metereologiche me lo impediscono e me la cavo con un pessimo sandwich al chili cheese, una specie di salsa brodosa che serve sostanzialmente ad annullare qualsiasi altro sapore (una garanzia di qualità!). Sono tre giorni che piove fastidiosamente, alla faccia del bel clima californiano, e solo questa mattina riesco a comprarmi un ombrellino scassato e già arrugginito (made in China) in un drugstore vicino al Campus. Me lo hanno fatto pagare quasi $11, tanto da farmi sentire la nostalgia di quegli ombrellini che alcuni immigrati vendono alle stazioni ferrorivarie o della metro di Roma, a soli 3 euro, appena il cielo si fa minimamente uggioso. Comunque ho risolto la fonte delle mie principali preoccupazioni e posso cominciare a dormire sonni tranquilli.

Dopo aver saputo la bella notizia mi sono diretto verso una delle uscite del campus per andare a cenare ma sono stato attratto da rumori di applausi e musica. La cosa mi ha fatto un certo effetto, perchè di Sabato sera l’Università è quasi completamente disabitata (per gli americani il weekend è sacro!) anche se noi ricercatori abbiamo comunque la possibilità di accedere ai nostri uffici. Mi sono reso conto che nell’aula magna di uno dei tanti padiglioni si stava tenendo una rappresentazione scenica. Prima un gruppo di ballerini Hip Hop (bravissimi), poi un coro Gospel, quindi una rappresentazione teatrale che ritraeva scene di vita quotidiana. Inizialmente ho pensato fosse un’inizativa della Facoltà di arte ma poi uno studente mi ha spiegato che si tratta di un ciclo di rappresentazioni curate dagli studenti delle diverse etnie per mostrare i tratti peculiari della propria cultura. Ieri era la volta dei Black. In un primo tempo ho pensato che la cosa fosse interessante e utile ai fini di una piena integrazione tra culture, ma poi mi sono reso conto che era in realtà una sorta di rivendicazione culturale intesa non come volontà di integrazione quanto come enfasi riposta sulla propria diversità etnica. Una conferma della natura sostanzialmente neocomunitarista del tanto decantato Melting-Pot americano. Lo si nota un po’ ovunque. E' difficile che per strada si vedano coppie miste, anche di semplici amici, la tendenza è che i gruppi si dividano per assonanza cromatica. Bianchi con bianchi, neri con neri, gialli con gialli, rossi con rossi. Anche se bisogna ammettere che nel Campus questa caratteristica è più levigata e tende piuttosto a prevalere la comune appartenenza universitaria.

Comunque, in parte affascinato e in parte indispettito dalla cosa, mi dirigo a prendere l’autobus con il solito autista nero e pazzo. Non ho con me i soldi spicci per pagare il biglietto ma nella confusione e con la scusa di cercare a bordo qualcuno che mi cambiasse $5 riesco a montare senza pagare. Se permettete un po’ di romanità la conservo anche negli States! Divertito dalla cosa, mi si siede accanto un uomo sulla cinquantina che sembra avere voglia di chiacchierare. Mi chiede se sono qui per studio o per lavoro e poi aggiunge: “questo non è un buon posto per lavorare … fatichi sette giorni su sette per nulla”. E' iraniano, non so come si chiamasse, immigrato a L.A. da più di dieci anni. Mai integrato completamente, la sua unica ragione di vita è di riuscire a portare a casa quanto basta per sfamare moglie e figli. Sembra seriamente amareggiato ma ha un viso e uno sguardo tanto dolci che il suo sfogo non mi infastidisce. Quell’uomo mi fa pena. Non è una bella sensazione. Spero che nessuno debba un giorno provare per me quello stesso sentimento.

Torna all'indice
 



Venerdì 20 Febbraio 2004 – Il cimitero dei Veterani
 
La mia ricerca per una sistemazione va sempre peggio. Ho già dovuto pagare due notti in più in albergo e la cosa comincia a farsi very expensive. Ieri ho visto un altro appartamento e anche in questo caso ho fatto un buco nell’acqua oltre alle solite 7 miglia di marcia. Da questo punto di vista sono un po’ sfortunato. Bisogna infatti sapere che a Los Angeles la maggior parte delle vie, anche quelle secondarie, sono lunghe chilometri: lo noti dai civici che sono spesso a quattro cifre. Ieri per esempio stavo al 1939 di Beloit. Se per caso prendi, come è sempre capitato al sottoscritto, il lato sbagliato, allora ti tocca fare chilometri a piedi rischiando l’infarto e facendo regolarmente tardi agli appuntamenti. Inoltre ultimamente mi capitano tutte vie spezzate dal Cimitero nazionale di Los Angeles (con un'ampia sezione dedicana ai veterani di guerra), una cosa immensa e comunque recintata. L’unico modo per raggiungere l’altra parte è tornare indietro e cominciare daccapo. Insomma, una sorta di gioco al massacro. Ma dico io, con tutti i morti delle guerre americane (l’unico paese che dal 1940 è sempre stato in Guerra diretta o indiretta con qualcuno) ce ne è di materiale per dedicare nuove strade rendendole magari un po’ più corte! Tra l'altro si farebbero felici tante famiglie.
Comunque oggi aspetto una risposta dal filippino Vince, di cui vi avevo parlato. Mi ha richiamato e forse ho ancora qualche possibilità. Prima deve sondare altri potenziali roommate. Da Lecce una collega mi ha dato la e-mail e il telefono di un amico che vive a Los Angeles e che forse potrebbe essermi di aiuto. Già gli ho scritto. Speriamo bene.

Torna all'indice



 
Giovedì 19 Febbraio 2004 – Il ritiro di Dean e i Bus di L.A.

Oggi ho visto un altro appartamento. In questo caso avrei dovuto condividere la stanza con uno studente di origine filippina di nome Vince, ma non è andata bene. Io rimango quattro mesi e lui pensava di affittare il letto per almeno sei mesi, comunque si farà risentire se non troverà un altro compagno. Un po’ depresso decido di farmi un giro in autobus senza una meta precisa. Ne prendo uno a caso che scopro diretto verso il lato Ovest della città, verso il mare. Decido di scendere al capolinea e nel frattempo mi guardo intorno.

Dopo una certa ora, sugli autobus di Los Angeles salgono perlopiù persone di colore, spesso pazze. Oggi mi si è seduto accanto un barbone completamente ubriaco che puzzava di un misto tra alcool e non so cosa (ma ho preferito non approfondire). Per tutto il tragitto ha cercato di attaccare bottone con me, mentre dal fondo del bus un altro nero parlava da solo e ogni tanto dava segni di tic nervosi. Io gli davo spago perché la cosa mi divertiva. Era convinto di essere diretto alla UCLA senza rendersi conto che il bus ci stava portando nella direzione opposta. Ma non credo avesse una reale consapevolezza di dove volesse andare. Ha smesso di importunarmi per litigare con una vecchia stanca delle sue idiozie. A un certo punto mi sono anche un po’ preoccupato perché ha cercato di colpirla con una bandierina degli Stati Uniti che portava infilata nello zaino. E' un’usanza diffusa tra i barboni di Los Angeles che si spacciano per veterani di Guerra, una categoria molto rispettata da queste parti. Basti pensare che John F. Kerry, candidato alle primarie democratiche per decidere l’antagonista di George Bush alle presidenziali di novembre, ha costruito tutta la sua campagna elettorale sul fatto di essere un veterano pluridecorato della Guerra del Vietnam (mentre Bush pare si sia imboscato nella guardia nazionale pur di non partire). Per il momento è in vantaggio su tutti gli altri, anche l’ex governatore del Vermont Dean, che dai sondaggi iniziali sembrava il favorito, nelle ultime primarie del Wisconsin non ha superato il 18% dei voti, dichiarando tra le lacrime della moglie e dei suoi sostenitori di abbandonare la corsa. Forse appoggierà John Edward, giovane senatore che segue di misura Kerry. Pare che una sua sostenitrice gli abbia gridato che malgrado tutto lei continua a credere in lui, ma Dean, in linea con il patetismo populista tipico degli USA, gli ha risposto che farebbe meglio a credere in se stessa.

All’interno del Campus domani ci sarà un po’ di tristezza, perché a giudicare dagli striscioni che costellano i viali della UCLA, Dean era il candidato preferito dagli studenti universitari. Pare che abbia registrato bassi consensi perché troppo leftist (di sinistra), per quanto questa parola possa avere un significato qui negli States. Come mi disse un amico americano essere di sinistra in America vuol dire essere a favore della pena di morte, per la Guerra contro l’Iraq, per il libero mercato, magari mostrando qualche apertura nei confronti dei diritti civili e le unioni tra omosessuali, altro tema che sta facendo discutere molto in questi giorni, dopo che il sindaco gay di San Fransisco ha fatto approvare un provvedimento di legalizzazione dei matrimoni tra le persone dello stesso sesso.

L’autobus è quasi arrivato al capolinea, già riesco a intravedere la costa anche se è sera e il mare non mi appare nitido. Anche l’autista comincia a dare segni di instabilità cantando ad alta voce e solidarizzando con ogni barbone matto che sale sul Bus. Devo dire che questa è una peculiarità di Los Angeles. Gli autisti sono tutti neri, tendenzialmente matti, socievoli e almeno apparentemente felici.

Torna all'indice




Mercoledì 18 Febbraio 2004 – Chi non si adegua è folle

Oggi ho cominciato a muovermi per trovare un roommate. Sono andato al Community Housing Office e alla Student Union dove ho recuperato alcuni indirizzi e numeri di telefono. Mi oriento su una cifra che non superi i 480 dollari mensili (è tantissimo per una stanza condivisa ma non si trova nulla a meno). Ho cominciato a fare le prime telefonate con il mio cellurare italiano (pensa che bolletta!) e a mandare le prime e-mail. Mi sono preso due appuntamenti, uno a Veteran av. e l’altro a Wesgate av., una lunghissima strada che dalla mia mappa non sembra così distante dalla UCLA. Mi avvio a piedi (come se avessi alternative) e dopo circa quaranta minuti di marcia mi rendo conto che sbagliavo. Arrivo solo dopo oltre due ore di cammino e circa 6 miglia a passo veloce, con i piedi ormai simili a due zampogne. Mi apre un ragazzo asiatico di nome Stanley, con cui dovrei condividere la stanza, anche se nella casa vivono altri due studenti, entrambi dai lineamenti orientali. Loro sono simpatici, ma la casa è un vero bordello. Sporca, disordinata, ad accoglierti all’ingresso esattamente diciotto paia di scarpe (perlopiù da ginnastica) buttate lì senza criterio. Si può facilmente immaginare cosa significhi per tre studenti di vent’anni vivere da soli lontani da casa. Nessuna logica comportamentale, nessuna regola, nessun orario e soprattutto, nessuna pulizia. Mi spavento un po’ e dico che ci devo pensare. Stanley sembra comprendermi e ci congediamo. Dieci chilometri di marcia per nulla. Mi rimane comunqe il ricordo di una lunga passeggiata in una zona residenziale della medio-alta borghesia di Los Angeles. E' spaventoso vedere quante di queste famiglie hanno un figlio o un parente che in questo momento si trova in Iraq per combattere la Guerra pazza di Bush. Lo si capisce dalle bandiere americane appese alle finestre di questi villini a un piano che si susseguono ininterrotamente su viali alberati.

A volte mi spaventa vedere quanto il popolo americano sia cieco nel notare i limiti dei propri governanti e del proprio paese. Leggo sul giornale universitario Daily Bruin, che si distribuisce gratuitamente dentro il Campus, che alla Drake University nell’Iowa, alcuni studenti hanno organizzato una mobilitazione contro la Guerra. Leggo anche che il governo federale si è già mosso affinché l’Università fornisca i nomi di chi a partecipato alla protesta. Si sa … nel paese della libertà, chi non si adegua è folle.

Torna all'indice


 
Martedì 17 Febbraio 2004 – Il Campus
 
Oggi ho conosciuto i responsabili del Centro presso cui sono Research Scholar, Christine Wilson, una specie di ex-yippie un po’ seriosa ma efficiente, e Vera Wheeler, una tipica signora della media borghesia Americana, simpatica, gentile e sorridente. Somiglia un po’ alla madre di Richard di Happy Days (per chi se lo ricorda). Le mancano solo i capelli rossi. Hanno sistemato tutte le mie pratiche, mi hanno presentato un certo German (non ricordo il cognome) che in qualità di Awards Coordinator, mi assegna una stanzetta e un computer. Essendo l’ultimo arrivato mi spetta un tugurio senza finestra dove già ora manca l’aria e si muore dal caldo, figuriamoci da maggio in poi. Comunque è mia, si tratta solo di attaccarci qualche poster per renderla più accogliente.
Sono al decimo piano di un grande edificio che ospita il Dipartimento di Scienza Politica e i diversi Centri di ricerca afferenti all’International Institute. Tutto il piano è adibito ai Visiting proventi da tutto il mondo. Ce n’è per tutti i gusti, Cinesi, Africani, Mediorientali, Indiani, tutti collegati a progetti di ricerca internazionali essenzialmente finalizzati allo studio dell’area euroasiatica.
Mi dicono che tra i Visiting Scholar c’è anche un giovane filosofo italiano legato al Global Fellows Program. Lo conosco, mi è sembrato simpatico anche se né io né lui sembravamo particolarmente entusiasti dell’incontro. Quando si è all’estero per ricerca, l’ultima cosa che si desidera è avere contatti con persone del proprio paese. Sarebbe senza senso. Non credo che lo frequenterò, e non lo crede neanche lui.
Oggi mi sono visto anche con Miriam Golden, la professoressa di Comparative Politics cui devo questa mia esperienza. Mi è sembrata simpatica ma così presa dal lavoro che, da brava Americana, non mi ha dato molto retta. Forse è meglio così. Mi pare di aver capito che qui ognuno fa per sé. Non mi daranno particolari problemi e nessuno metterà bocca nel mio lavoro.
A parte ciò, ho avuto modo di vedere meglio il Campus in un normale giorno feriale. Ricco di studenti che amano rivendicare il proprio senso di appartenenza indossando, quasi tutti, delle orribili felpe o t-shirt con su stampato l’acronimo dell’Università, che qui negli Stati Uniti è tra le più prestigiose. Si percepisce molto la dimensione comunitaria, dai campi sportivi dove le squadre universitarie si allenano al Football o in atletica, ai grandi edifici dedicati alla Student Union e alle altre associazioni studentesche. C’è anche un UCLA Store per gli interni all’Università che vende di tutto, ma è molto caro.
Noto subito che dietro un quadro ovattato esiste un margine di fermento partecipativo, dai giovani contro il terrorismo che appendono cartelli con su la foto del dittatore o il ricercato di turno (oggi toccava al Presidente della Corea del Nord), ai giovani Trotzkisti che appendono cartelli di natura opposta contro la Guerra imperialista e per un’alternativa socialista rivoluzionaria al sistema capitalistico. Mi fa un certo effetto vedere questi ultimi che notano la cosa e mi accalappiano per un quarto d’ora buono riempendomi la testa di retorica antiparlamentarista e di slogan rivoluzionari. Mi spillano anche una sottoscrizione per sostenere gli scioperi dei lavoratori dei supermercati che protestano contro i limiti alla copertura sanitaria. La cosa mi interessa, anche perché sono venuto qui proprio per studiare questo fatto. Mi allontano arricchito di un pezzo d’Europa e con tra le mani un giornale che qui negli States mi fa sentire pericoloso: Workers Vanguard. Un nome un programma.
Faccio anche un salto al Dipartimento di Sociologia dove vado a trovare Adrian Favell, un giovane professore di Comparative Sociology che conobbi tempo fa in un Convegno in Spagna. Mi accoglie molto cordialmente invitandomi ad alcuni seminari e dandomi consigli utili su come trovare qualcuno con cui condividere una stanza. La cosa mi fa piacere ma mi ricorda che mi devo muovere in questo senso. L'albergo dove sto è caro e ho pagato solo per le prime sei notti.

Torna all'indice


 

Lunedì 16 febbraio 2004 – Ma dove sono gli americani?

Oggi è stata una giornata interessante. Sono stato a DownTown, una zona abbastanza popolare di Los Angeles che mi era stata consigliata dal famoso tassista armeno, e poi a ChinaTown. Su quest’ultima c’è poco da dire. Le ChinaTown sono un po’ tutte simili, quindi non ho notato grandi differenze con quella di Bangkok, per citare l’ultima che ho visitato. Sono come dei grandi ristoranti cinesi, ricchi di colori e di draghi stilizzati un po’ ovunque. L’unica particolarità era rappresentata dai festeggiamenti per il Monkey Year (l’anno della scimmia) secondo il loro zodiaco. A pranzo ho mangiato uno strano intruglio di cose molli galleggianti. E pensare che ero convinto fossero pezzi di carne. Non saprò mai veramente cosa ho ingerito ma per il momento la digestione sembra procedere per il meglio.

Molto più interessante è stata invece la mia passeggiata a DownTown, perchè credo renda bene la misura di questa città. Una delle caratteristiche che ti colpiscono subito di Los Angeles è la quasi totale assenza di Americani. Sono perlopiù ispanici, afroamericani e moltissimi asiatici (specie all’Università). Lo si nota subito quando sali su un autobus. Nessuno, tranne il sottoscritto, ha la carnagione chiara, tranne un barbone che oggi credo fosse l’unico indigeno presente sul quel Bus stracolmo di gente e culture diverse. Si potrebbe obiettare affermando che gli americani in realtà non prendono l’autobus e la cosa è parzialmente vera, ma anche per le strade di ogni zona (e oggi avrò percorso a piedi almeno sei/sette miglia) si nota questa poliedricità. Cambiano solo la distribuzione etnica rispetto alle zone. Per esempio a Westwood, un quartiere ricco dove è collocato il Campus, prevalgono gli asiatici (perlopiù cinesi e giapponesi), altrove la maggioranza è composta da ispanici e alcuni afroamericani, che a differenza di New York, qui non sono l’etnia più rappresentata.

A cena sono tornato a Hollywood. Come dire … chi disprezza compra!

Torna all'indice




Domenica 15 Febbraio 2004 - L'impatto

Con questa pagina ha inizio un piccolo resoconto della mia esperienza a Los Angeles come Visiting Scholar presso il Center for European and Eurasian Studies della University of California at Los Angeles (UCLA). L’idea è quella di offrire a chiunque si connetta a questo Blog una breve immagine del funzionamento di una Istituzione Universitaria non italiana ma anche uno sguardo partecipato su una delle città più interessanti ed eterodosse degli Stati Uniti.

Non credevo che avrei cominciato a scrivere dal primo giorno. Ero sicuro di dover aspettare un po' prima di avere alcune suggestioni degne di essere raccontate, ma così non è stato. Appena arrivato dopo un lungo viaggio, che tra Roma Fiumicino, scalo ad Amsterdam e arrivo a Los Angeles e’ durato circa 15 ore, ho subito avuto l’impressione di un paese fobico. Dopo il ritiro dei bagagli, prima di poter uscire, ho dovuto superare sei filtri della polizia a distanza di cinque metri l’uno dall’altro. Le domande erano ritualizzate come d’altronde le mie risposte: come ti chiami, dove vai, perché ci vai, cosa devi fare. In realtà era tutto scritto nel modulo predisposto dalla UCLA ma credo che fosse solo un modo per vedere se le mie dichiarazioni coincidessero.

Alla dogana mi hanno trattenuto più degli altri, non so se perché fossi il solo a presentarmi con un visto di lunga permanenza o perché i miei caratteri “latini” mi facessero etichettare come possibile terrorista. Sta di fatto che, dopo avermi fotografato e preso le impronte digitali mentre un fastidiosissimo Beagle, aizzato da una grossa poliziotta nera, si aggirava attorno al mio zaino in cerca di qualche droga, riesco finalmente a uscire.

Prendo un taxi che mi porta nel piccolo Motel dove alloggerò la prima settimana prima di trovare una accommodation migliore. Il tassista iraniano mi dà consigli sui posti che devo e non devo frequentare, su dove posso e non posso spendere, dove è più probabile che mi possano raggirare, e così via. Tutte informazioni che al momento mi sembravano superflue ma che poi risulteranno molto utili.

Appena arrivato in Albergo esco subito per andare a visitare il Campus non distante. La curiosità è tanta che neanche mi dò una rinfrescata. Ero cosciente che di Domenica non avrei trovato nessuno. Domani tra l’altro sarà festa federale, il cosiddetto Presidents' Day. L’ingresso nel Campus produce un certo sbandamento. In Italia non siamo abituati a tanta grandiosità. Da solo sarà grande più o meno quanto Lecce, la città dove insegno, solo che il noto barocco salentino è qui sostituito da un perfetto stile romanico (naturalmente non originale). Me la giro in lungo e in largo alla ricerca dell’edificio (l’unico architettonicamente moderno) dove tra due giorni dovrò incontrare i miei referenti accademici. I viali sono molto curati con prati tagliati all'inglese e alti alberi da cui scendono frettolosamente decine di simpatici scoiattoli. Sono abituati all'uomo e spesso ti si avvicinano fino a toccarti i piedi per sondare la possibilità di recuperare qualcosa da mangiare.

Nel tornare verso l’albergo mi faccio subito riconoscere. Una volante della polizia (quelle tanto simpatiche e colorate che ci hanno fatto conoscere i telefilm polizieschi) mi ferma per comportamento antisociale, praticamente perchè non camminavo sul marciapiede. Ma dico io. Hanno fatto una pericolosa inversione a U con tanto di sgommata, con il rischio di ammazzare tre giapponesi di passaggio, per una simile sciocchezza! Sta di fatto che dopo le solite e ritualizzate domande mi chiedono se in Italia è mio costume camminare per strada e io, forse per ingenuità o perché sbigottito per una simile assurdità rispondo: “francamente sì”. Un po’ per pietà e un po’ perché probabilmente loro stessi si sono resi conto che non sono un pericolso deviante (e che in fondo la strada era completamente vuota) mi lasciano andare. Non male come primo impatto con gli Stati Uniti.

L'evento mi ha fatto pensare alle riflessioni di Roberto Giammarco nel suo bel libro, Dialogo sulla società Americana, riedito dopo trentanni dalla Nuova Italia. Adottando l’efficace formula di un dialogo epistolare, l’autore racconta i tratti e le contraddizioni dell’American Way of Life e di quella “Nazione sotto Dio” che ha fatto delle sue discrasie un questione identitaria piuttosto che un motivo di conflitto. Un paese dove il conformismo diventa valore assoluto e il dissenso follia. Azzeccatissima la dedica dell’autore che, se non ricordo male faceva: “to all those did not adjust” (a tutti coloro che non si adeguano). Ne emergeva il quadro drammatico di un paese in preda a periodiche forme di isteria collettiva prodotte dal contrasto tra teologia dei padri fondatori intesa come frame dominante (quel diritto dell’uomo al perseguimento della felicità riportato anche nella carta costituzionale) e la realtà brutale di un darwinismo sociale che fa dell’egoismo e del successo a tutti i costi il principale motivo di marginalizzazione. Alla base di tutto abbiamo la filosofia antisolidarista che si fonda su quell’uguaglianza delle opportunità (oggi tanto osannata anche dalla sinistra nostrana) che sovente si trasforma in libertà sopruso.

Comunque torniamo a noi. La sera decido di uscire e l’autista nera del Bus quasi mi impone di andare a Holliwood Boulevard, dove percorro la famosa passeggiata delle stelle. Non mi ha fatto una grande impressione. Un grande centro di smistamento, un immenso lunapark, molto kitch, predisposto per un consumismo esasperato e senza fini. Mangio qualcosa in un ristorante messicano dove mi dicono che Mike Tyson è nei paraggi. Mi è sembrato una buon motivo per andarmene.

Me ne torno in albergo dopo circa due ore in Autobus, sia per il traffico che per le grandi distanze incomparabili a quelle di qualsiasi città italiana. Domani farò ancora un po’ il turista.


Torna all'indice

Vai alla seconda parte