Quanto Trump fu eletto, ci domandavamo quanto tempo ci avrebbe messo l'establishment di Washington a fargli fare marcia indietro sulle sue buone intenzioni di trovare un accordo con la Russia. A quanto pare, dopo un solo mese di presidenza ci sono già riusciti [M.M.].

Putin non scherza piu’. Persa la speranza in Trump - di Maurizio Blondet

Il 18  febbraio, Putin ha emanato un decreto (ukase) che riconosce la validità dei passaporti rilasciati dalle “repubbliche” di Donetsk e Lugansk, le due regioni secessioniste dell’Ucraina. I cittadini di queste possono andare in Russia liberamente. Un passo in più, e sarebbe da parte di Mosca il riconoscimento ufficiale delle due repubbliche. E Putin lo ha fatto in coincidenza col vertice internazionale della sicurezza di Monaco, con presenti Poroshenko (che l’ha saputo lì), Merkel, generali americani e politici della nuova amministrazione Trump.  Per dare più rilievo al messaggio.

E’ la risposta al traccheggiare ambiguo di Berlino, UE e Washington sulla questione ucraina; alle lezioncine su “Mosca rispetti Minsk” di Merkel e Stoltenberg, o a “Mosca restituisca la Crimea” di Trump e dei suoi  tirapiedi  ministeriali e gallonati. Secondo il giornalista Alexander Mercouris, l’iniziativa  è venuta dopo “una telefonata di  Putin a Merkel una settimana prima”, sul non-rispetto da parte di Kiev degli accordi di Minsk – che prevedono che  Donetsk e Lugansk restino sì in Ucraina, ma in una Ucraina confederale, dove le due regioni mantengano una  vasta autonomia.

“E’ stato un messaggio a Merkel e agli europei di prendere più sul serio la soluzione del conflitto ucraino; dove da settimane Kiev ha scatenato un’escalation della guerra guerreggiata, e (peggio) strangola Donetsk e Lugansk economicamente: le sue milizie neonazi  bloccano da tre settimane i vagoni di carbone là estratto, e che  Kiev compra (nonostante il conflitto…anche questo secondo gli accordi di Minsk), e Kiev dice di non poterci fare nulla. Il riconoscimento dei passaporti ha dunque anche una motivazione umanitaria, consentendo ai cittadini delle due repubbliche di rifornirsi in Russia. Ma il senso politico è: “più Kiev ritarda una composizione negoziale del conflitto, più le due repubbliche popolari  allontanano le loro orbite da Kiev”.

Deve avere  particolarmente irritato – a ragione – il ripetuto tentativo di Ue, Merkel ed i nuovi americani di  far scadere Mosca, da garante   con loro degli accordi di Minsk, a colpevole della  crisi ucraina, come se fosse uno scolaretto da mettere dietro la lavagna. Sicché l’ukase è “servito a ricordare  a Merkel che Mosca  è perfettamente in grado di agire unilateralmente quando il processo diplomatico non va da nessuna parte”.

Nello stesso 19 febbraio, a Monaco, durante l’annuale vertice sulla sicurezza, Lavrov ha sentito il nuovo  vice-presidente Usa Pence, e il nuovo segretario alla Difesa Mattis, ripetere  le solite frasi sulla NATO da  rafforzare causa “aggressività russa” e su Mosca che deve  cessare di “invadere” la Ucraina eccetera;  la risposta del ministro degli esteri di Mosca è stata tagliente e recisa in modo insolito, per una persona  di inconcussa gentilezza formale. “Formando frasi semplici, in modo che le controparti americane potessero capire”,  ha malignato il giornalista Rudy Panko di Russia Insider, “Lavrov ha risposto che sono passati i tempi in cui l’Occidente poneva condizioni, che la NATO è un relitto della guerra fredda, e che lui sperava che il mondo avrebbe scelto un  ordine mondiale post-occidentale (post-West order) in cui ogni nazione è definita dalla propria sovranità”. E ha aggiunto: “Mosca vuole costruite con Washington relazioni pragmatiche nel mutuo rispetto e riconoscimento della nostra reciproca responsabilità per la stabilità mondiale”.

Il netto cambiamento di tono ha un motivo preciso, secondo diversi osservatori: per settimane, Putin e Lavrov hanno subìto ed accettato  sorridendo, anche dei veri e propri  insulti e minacce (il senatore Graham, compare di McCain: “Il 2017 sarà l’anno  che daremo il calcio in culo alla Russia” in attesa che Trump mettesse in atto quella politica di distensione con la Russia che tanto vocalmente lasciato credere, e vincesse la sua guerra civile interna con lo stato profondo. Persino il Foreign Policy aveva notato il 13 febbraio che “Putin è divenuto ostaggio della sopravvivenza e del  successo di Trump. Questo restringe gravemente le opzioni geopolitiche della Russia”. Orbene, questa volontaria auto-limitazione è giunta alla fine. Putin e Lavrov hanno capito che Trump  non può attuare una politica filo-russa, premuto com’è dai suoi nemici interni.

Quando lo hanno sentito ventilare l’idea di formare in Siria “zone di sicurezza”, secondo il vecchio progetto saudita-israeliano e di Erdogan, hanno posto fine all’attesa, che stava erodendo la posizione strategica russa in Medio Oriente, il suo prestigio e la sua influenza. Da quel momento, dice DEBKA,  “è stato ordinato alla nave-spia SSV 175 Viktor Leonov di posizionarsi davanti alla costa del Delaware, e  i Su-24 hanno cominciato a fare il pelo all’incrociatore USS Porter nel Mar Nero”.

O per dirla come Pranko: “la Russia ha realizzato che non hanno a che fare con persone normali e ragionevoli. Che Washington è una cabala di psicopatici”. Per cui  è tornata alla strategia che ha cominciato con l’intervento in Siria: “Un cambiamento sismico delle relazioni internazionali, perché Russia ed Iran hanno dimostrato che   resistere al bullo funziona. E altri paesi hanno preso nota”.

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