di Monica Dematté (*)
'Non tamponi ma cibo, non lockdown ma libertà, non menzogne ma dignità, non [un'altra] rivoluzione culturale ma riforme, non capi ma votazioni; non schiavi ma [finalmente] cittadini.'
Sono le parole scritte in grande su uno dei due striscioni appesi il 13 ottobre 2022 sul ponte di Sitong nel quartiere nordoccidentale Haidian a Beijing (Pechino). Sullo striscione di destra c'è addirittura un'accusa diretta al 'leader maximo': Sciopero a scuola e sul lavoro, rimuoviamo Xi Jingping, dittatore e traditore del paese! Solleviamoci se non vogliamo essere schiavi! Opponiamoci alla dittatura, all'autoritarismo! Salviamo la Cina con votazioni presidenziali aperte a ogni cittadino!
Il tutto accompagnato da un gran fumo nero emanato da un falò di copertoni e da slogan dello stesso tenore diffusi da altoparlanti. Un'azione compiuta da una persona vestita con un gilet fosforescente da operaio, che si intravede portato via su una delle auto della polizia accorse sul luogo. Il video dell'accaduto si diffonde a macchia d'olio via WeChat per tutta la Cina e all'estero, poi viene cancellato. Peng Zaizhou (pseudonimo della persona in questione, che sembra si chiami Peng Lifa, diventa l'eroe di milioni di persone, che pur ammirandolo e invidiandone il coraggio, sono ormai abituate a limitare l'ambito delle proprie azioni a un clic sugli insidiosi mezzi tecnologici .
Qualche giorno dopo a Shanghai due giovani (una ragazza e un ragazzo, entrambi con lunghe chiome) percorrono qualche centinaio di metri in mezzo alla strada tenendo uno striscione che cita quello pechinese senza ripeterne i contenuti, lasciando che sia il 'non scritto' a veicolarne il significato (non...ma, non...ma... ). Una scelta molto più in linea con il carattere e la cultura cinesi, che si esprimono tradizionalmente in maniera indiretta e allusiva. Dal 3 novembre circola su WeChat la foto di un giovane uomo che va a fare il tampone quotidiano anti-Covid (obbligatorio in molte città della Cina) a Guangzhou, nudo sotto un impermeabile trasparente. Si parla del 'nuovo abito dell'imperatore' laddove l'imperatore è il corrispettivo cinese del nostrano 're'.
I repubblicani non hanno ottenuto la vittoria schiacciante prevista da molti sondaggisti, e improvvisamente Trump si ritrova in casa un problema che non si aspettava: questo problema si chiama Ron De Santis.
Andiamo con ordine. Innanzitutto, si sta ripetendo la stessa situazione incomprensibile del 2020, quando alcuni stati ci misero diversi giorni prima di completare il conteggio dei voti. Questo fa sì che a 24 ore dalla chiusura dei seggi ancora non si possa sapere con certezza chi abbia vinto che cosa. A giudicare dagli exit polls, la camera andrà ai repubblicani, ma con un margine molto minore del previsto, mentre il senato è ancora decisamente in bilico, e potrebbe tranquillamente restare nelle mani dei democratici.
Questo significherebbe comunque un Joe Biden parzialmente “azzoppato” per i prossimi due anni, ma non certo morto e sepolto, come invece lo sarebbe stato con una vittoria schiacciante dei repubblicani. Se infatti il margine alla camera fosse di pochissimi voti, potrebbe anche succedere che il nuovo speaker (ruolo che ora è della Pelosi) sia molto più moderato di quello che i repubblicani più sanguigni vorrebbero, portando ad una agenda parlamentare molto più “morbida” nei confronti di Biden.
Insomma, una specie di “pareggio fuori casa”, da parte di Biden, che gli permetterebbe di non affondare nell’oblio nei prossimi due anni.
C’è nell’aria uno strano senso di deja-vu. Come nel “Giorno della marmotta”, sul fronte dell’immigrazione tornano a ripetersi le stesse identiche dinamiche di quattro anni fa: le navi di Soros che si presentano davanti alle nostre coste cariche di migranti, il nostro governo che cerca di respingerle, e l’infinito braccio di ferro che ricomincia daccapo.
Ormai le dinamiche sono chiare, e sono state riassunte in modo plastico in un confronto che c’è stato qualche sera sul talk-show della Palombelli: una giornalista, contraria agli sbarchi, che diceva che “le persone che salgono su una nave battente la bandiera di una certa nazione sono legalmente sul territorio di quella nazione” (e quindi in quella nazione dovrebbero sbarcare), e Andrea Romano (ex-deputato PD, favorevole agli sbarchi) che fingeva di non sentire, e ripeteva a macchinetta “studiatevi il trattato di Lisbona: dice chiaramente che il primo porto di approdo è quello che deve accogliere i migranti”.
di Maurizia Leoncini Vecchi
Il trattato Italia-Francia, firmato in data 26 novembre 2021 a Roma, tocca punti nevralgici e poco comprensibili all’interno di una Comunità europea che dovrebbe combattere, anziché permettere, la creazione di ‘assi’ particolari tra singole nazioni.
In 12 articoli che vanno dagli Esteri alla Sicurezza e Difesa, alle Politiche migratorie e Cooperazione transfrontaliera, agli Affari e all’Economia, allo Sviluppo, allo Spazio, alla Cultura ed in cui è previsto un incontro annuale di verifica e coordinamento delle reciproche linee d’azione, si gioca molto del nostro futuro. Se guardiamo al passato, i rapporti Italia-Francia, attraverso i secoli, ci danno un quadro devastante, con scenario di crimini di guerra ancora aperti e che nessun governo italiano, si è azzardato a denunciare.
Se si guarda alla Storia, la mano della Francia sull’Italia è stata lunga e pesante. Bisogna andare al 1282 per registrare la rivolta dei siciliani che, con i ‘Vespri siciliani’, riuscirono a liberarsi degli oppressori. Per il resto sono più che altro asservimenti, occupazioni, oltraggi. Nel 1305, Clemente V (il francese Bertrand de Got) sposta il papato da Roma ad Avignone facendone la sede stabile e trasferendovi dalla Città Eterna quanto più può, opere d’arte incluse.
di Toni Capuozzo
Fine della retorica. In italiano, come in ogni lingua, le parole hanno un peso: quella dell’Azovstal non è un’evacuazione. E’ una resa. Certo, non una resa umiliante, non ci sono forche caudine. Non una resa vile, c’è un ordine del Comando supremo, e ci sono 80 giorni di resistenza, alle spalle.
Ma non è una resa con l’onore delle armi: si finisce caricati sui bus verso un ospedale o verso centri di detenzione, con un futuro da scrivere tra scambi di prigionieri e forse processi.
Ma è la fine della retorica, come se l’eroismo fosse un destino rimasto nel ‘900, il secolo cui appartengono gli strenui nazionalismi e i relitti ideologici che in questa guerra affiorano ogni tanto.
E’ la fine della retorica: il Corriere della Sera ancora questa mattina racconta i resistenti dell’Azov come “angeli”, nelle parole dei profughi da Mariupol.
Immagino che molti di voi vorranno discutere della "strage di Bucha", visto che sono uscite moltissime argomentazioni sia pro che contro, per cui vi lascio questo spazio a disposizione.
M.M.
Argomenti trattati: L’ondata di russofobia nell’occidente - La fine della diplomazia – Cosa rischia l’Italia – Zelensky burattino degli americani – Il fenomeno di ipnosi collettiva – Cosa vogliono i russi, cosa vogliono gli americani – La posizione ambigua della Turchia – La nuova alleanza Russia-Cina – Rischio reale di guerra globale.
di Fulvio Grimaldi
Integro un mio post diffuso ieri, intitolato “Guerra virtuale nel Metaverso….” In cui esprimevo la mia impressione che in Ucraina si tratti di un conflitto in grande misura inventato. Ribadisco l’idea.
Quello che a noi arriva dai comunicatori (non chiamiamoli giornalisti) e commentatori è tutto fondato su quanto l’apparato del regime di Kiev fa sapere a inviati asserragliati nei loro hotel, lontani da qualsiasi azione sul campo, che quindi, rinunciando al mestiere nobilissimo dell’inviato di guerra, fanno da camera dell’eco alla propaganda di regime. Con, peraltro, piena soddisfazione dei rilanciatori a casa. Una guerra, resa invisibile a chi la dovrebbe documentare e ne mostra solo foto di repertorio, quando non ricorre a vecchi videogiochi per raccontare una “pioggia di missili”, fornisce convincenti motivi, specie a chi ha esperienza in proposito, per dubitarne.
Tanto più che delle immagini, invisibili, di atrocità, distruzioni e morti subite, non ne scorre traccia sui nostri schermi, mentre dell’unica guerra che si sa in corso, ma che viene totalmente ignorata, è quella dei resistenti nel Donbass, da otto anni sotto attacco e ora soccorsi da unità russe. Che forze russe intervengano in difesa di una popolazione aggredita da reparti dichiaratamente nazisti, colonna portante anche dell’assetto istituzionale dell’Ucraina, rivelerebbe qualche buona ragione per “l’invasione russa” del criminale dittatore Putin.
Secondo le fonti ufficiali, la Russia ha attaccato l’Ucraina da nord (Bielorussia) verso Kiev e da sud (Odessa). Impossibile verificare la reale portata delle operazioni militari. Nel frattempo sul mainstream sono già iniziati i paragoni con Hitler e la “guerra lampo”. Gli utenti possono aggiornare in diretta. Grazie.
Questo articolo non vuole essere una disamina della questione geopolitica che sta ruotando attorno all’Ucraina, ma, più semplicemente, vorrei sottolineare un interessante aspetto psicologico di tutta la faccenda: da una parte abbiamo la presenza di una figura solida, concreta e determinata - quella di Putin – e dall’altra la prepotente e vistosa assenza di una figura equivalente, sul fronte occidentale.
Joe Biden è lontano milioni di chilometri dal cuore della faccenda: un po’ perché l’America non può avere direttamente voce in capitolo in una questione che riguarda i rapporti diretti fra Russia e Ucraina, un po’ perché il personaggio stesso del presidente americano è totalmente inconsistente: insicuro, dubbioso, decisamente poco credibile sia nel momento delle minacce che in quello delle rassicurazioni. È come un vecchio trombone che borbotta da lontano, ma che nessuno si sente veramente in dovere di ascoltare.
di Maurizio Blondet
Traduco da un articolo di La Tribune, Francia: “Il governo vuole finirla con la casa individuale: “Un non senso economico, ecologico e sociale”.
Otto mesi dopo aver lanciato una concertazione su “abitare la città di domani” per ripensare la pianificazione dopo il Covid 219, il ministro della Casa Emanuelle Wargon vuole veder fiorire alloggi collettivi che facciano rivivere “l’intensità felice” e ha qualificato le case individuali “Un non senso ecologico, economico e sociale”. Tuttavia il mercato della casa individuale e resta l’ideale di vita di 75 francesi su cento”.
Come abbiamo più volte ricordato, per i miliardari l’esproprio della piccola proprietà immobiliare (non la loro proprietà, che immensa, ovviamente) fa parte del Grend Reset, del Build back better (Ricostruire meglio) e del programma “2030, non possiederai nulla e sarai felice”.